RACCONTARE E RACCONTARSI Lo scrittore e il filosofo
di LAURA TUSSI
La scrittura di sé
Il silenzio e la parola è un binomio che riecheggia la risonanza tra pensiero poetico e pensiero filosofico. Il pensiero e la parola è un libro che inizia così:“L’uomo dimora nel linguaggio”. La scrittura è la nostra dimora che costruiamo cammin facendo e si decostruisce e decompone nel corso dell’esistenza, dopo la morte. La scrittura di sé si presenta all’insegna di una ritrovata felicità e corporeità, la parola che si intreccia col mondo e con le cose del mondo, proprio perché si intreccia col corpo vivente e percipiente dell’uditore, dove l’essere vibra, ma vibra anche nell’esperienza preziosa e cruciale dell’incontro tra linguaggio e silenzio, che è già di per sé forma di linguaggio.
La filosofia come ricerca di verità? Oralità o scrittura?
Il rapporto della filosofia con la scrittura è diverso rispetto a quello con lo scrittore. Il filosofo non ha la pretesa, il sogno, la capacità di iscriversi in un’opera. La sua non è mai un’opera. Il filosofo non scrive la sua opera, perché essa non esiste. Il filosofo è in continua ricerca, un’ anamnesi che non può affidare ad uno scritto, può soltanto accennare ad un arcipelago, ad alcune piccole isole che emergono dall’oceano. Un filosofo non dirà mai “io sono questo libro”, anzi, i pensatori hanno detto che la filosofia non è un’opera letteraria. Allora che cos’è? E perché si chiama così? E’ verissimo che senza la scrittura non avremmo la filosofia. L’opera del filosofo assomiglia per certi aspetti a quella di un pittore, per cui non ha senso parlare del “quadro di una vita”, come non ha senso per un filosofo parlare del “libro di una vita”. Invece per lo scrittore ha un altro senso. Il pittore sulla tela riproduce il mondo, non se stesso. Non si ritrae. La sua è sì un’autobiografia, a suo modo, ma di quella vita anonima che si mostra nelle cose del mondo. E’ anche vero, vi sono opere filosofiche profondamente intrise di letterarietà che sono anche opere d’arte. Platone ha detto “se voi pensate che abbia scritto quello che penso, vuole dire che siete matti”. Solo un folle può pensare che il filosofo affidi alla fragile arte della scrittura la sua verità. Platone usa un’immagine molto suggestiva, dicendo “la verità del filosofo si scopre insieme, in una comunità, in un dialogo vivente… e parlare insieme della ricerca della verità capita improvvisamente ed è come fuoco che s’innalza”. Quest’uomo, a parole almeno, disprezzava la scrittura e scrivendo diceva che non si doveva scrivere, invece ha profuso per iscritto migliaia di parole sulle quali ha trasmesso la filosofia e senza cui non conosceremmo Socrate, questo personaggio meraviglioso. Il filosofo, è vero, ha una certa ritrosia verso lo scritto, non vuole essere confuso con il letterato, non perché si senta più valido o meno, ma semplicemente perché prosegue per un’altra strada e perché il suo rapporto con la scrittura ha altri momenti ed esigenze. Dobbiamo sempre tener presente che l’uomo scrittore è quello occidentale, non l’umanità tutta intera: per essa ignara di scrittura alfabetica la verità è una parola che non esiste. Socrate ha cominciato a chiedere cosa è la virtù in verità, cos’è il coraggio in verità, cos’è la pietà in verità. Come è nata questa faccenda della verità in sé che gli uomini dell’oralità, del mito non hanno? Ma raccontano i loro miti, le loro tradizioni, le loro narrazioni, gli dei, gli eroi, le origini, la fantasia che si traduce dall’oralità all’ascolto, in una continua narrazione di cui non sono consapevoli, non vogliono essere assolutamente originali, non hanno anime originali come le nostre, non pretendono di averle e anche se le avessero, se qualcuno dicesse loro che ne sono in possesso si troverebbero spiazzati, impauriti. Loro sono per ripetere ciò che hanno detto gli antichi, i morti, perché quello è il vero per loro. Questi sono gli uomini del racconto. Cosa vuole l’uomo della scrittura? Cosa voleva Socrate quando chiedeva “cosa è in verità”? Al segno scritto quale cosa corrisponde? Così pensavamo noi, uomini occidentali, a partire dalla rivoluzione dell’alfabeto e della filosofia. Per un uomo dell’oralità, la domanda non ha senso alcuno. Le parole scritte non sono le cose, sono però una grande cosa, perché nel momento in cui scriviamo con l’alfabeto il nostro linguaggio e lo traduciamo in un manufatto, succede un evento straordinario. Innanzitutto ci chiediamo cosa sono le cose in verità, oltre questi segni cosa significa casa, cielo, uomo, la morte, la vita. E poi succede una cosa a cui non possiamo più rispondere che impressiona il filosofo, non il poeta, non il letterato perché loro rispondono e dicono la verità… Nietzsche diceva: “filosofo è colui che ricerca la verità, ma non la vuole davvero”. E’ colui che ricerca e ha la sua nobiltà in essa ed il limite stesso. Egli sapeva da buon filosofo di ripetere alla lettera, non a caso, le parole che Platone fece dire Socrate e ai suoi giudici quando egli affermò “una vita senza ricerca non vale la pena di essere vissuta”. La ricerca è insieme la nostra grazia, il nostro limite, la nostra dignità, ma anche forse la nostra presunzione e comunque il nostro esilio dalla parola vivente, dalla parola che ci abita. Il peso più grande del filosofo è il rapporto complesso con la scrittura della quale non può fare a meno, ma che nello stesso tempo è il suo tormento, perché e ciò che pone il problema e glielo sottrae al tempo stesso. Questo è il mistero della scrittura per il filosofo: una volta registrata e annotata la vita, essa diventa il nostro problema interiore, la nostra differenza, la nostra dilazionata verità sempre futura e futuribile e la nostra biografia che non può mai concludersi. Questa ricerca è la nostra dannazione o la nostra salvezza? Ma è sostanzialmente la nostra differenza. Non potremo mai fare a meno della scrittura e guardarla con tranquillità.
Laura Tussi
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