Tristi Banlieue di Barbara Spinelli
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Tristi Banlieue


12 Novembre 2005
di Barbara Spinelli



NON si capisce bene come mai un'osservazione sensata come quella fatta da Romano Prodi sulla rivolta delle banlieue abbia suscitato, in Italia, uno scandalo così vasto e persistente. La diagnosi formulata dal capo dell'opposizione non è qualcosa di specialmente provocatorio, eccentrico. Non è un'invettiva elettorale ma una descrizione fredda, quasi ovvia, di quel che sta accadendo non solo in Francia ma in molte periferie d'Europa, d'Occidente, e logicamente anche d'Italia. Non siamo una nivea isola di serenità in mezzo al generalizzato naufragio delle periferie che assediano i centri di ricchezza e potere. Non un particolare acume ma il semplice buon senso dovrebbe indurci a constatare l'evidenza: quel che accade nelle borgate francesi può succedere anche nelle nostre periferie, perché tutte le politiche d'integrazione oggi barcollano, e son bisognose d'esser ricostruite tenendo conto che qualcosa si è spezzato nel vivere insieme delle società, in maniera profondamente diversa dal passato.

Lo strappo è questa volta anche verbale, perché i rivoltosi non dispongono più di un'avanguardia che traduca quel che essi vorrebbero dire, né hanno il linguaggio della lotta e dell'autonomia di classe per farsi capire e ottenere riconoscimento sociale: il rogo, come nei Demoni di Dostoevskij, è la loro lingua. E lo scontro non è più tra chi si è sopra e chi sotto, con gli inferiori che si sforzano di salire ai piani superiori. Lo scontro oggi è tra dentro e fuori, tra chi vive nella storia e chi da essa si sente emarginato, e lo è. Si parla molto di ascensore sociale rotto, ma la metafora calzante è quella del treno che alla tua stazione anziché fermarsi corre via.

È ovvio dunque che «non siamo così diversi dalla Francia». Che anche «le nostre periferie sono una tragedia umana», come quelle bruciano a Lione o Saint-Etienne, e che «se non facciamo interventi seri, sul piano sociale e con l'edilizia, avremo tante Parigi». È ovvio che da noi esistono borgate ancor più caotiche, e che «ci sono condizioni di vita pessime e infelicità anche nei quartieri periferici dove sono tutti italiani». Per aver detto queste evidenze Prodi è accusato di speculare sul disordine, addirittura di aizzarlo. Come se fosse meglio tacere, chiudere occhi e orecchie, far finta di nulla nella speranza che la mondiale eruzione delle banlieue ci passi accanto senza sfiorarci. Come se fosse vantaggioso politicizzare i fatti presentati dal medico («il paziente ha la febbre») nell'inane speranza di sottrarre alla vista la febbre, il paziente, e tutto intera la realtà.

Per molti anni in Francia i politici e i governi hanno adottato proprio questo metodo. Le periferie sono malate dalla fine degli Anni 80, le scuole pubbliche sono alle prese con uno scontento e una violenza che non riescono ad arginare, e le autorità pubbliche reagiscono non solo in disordine, ma senza riflettere, senza trovare le parole che convincano il popolo delle periferie con mezzi non solo di coercizione ma di persuasione. Senza dare soprattutto, alle periferie, l'opportunità di parlare e farsi sentire. Eppure c'è ormai una cultura delle banlieue, da esplorare. Ci sono graffiti e tag, c'è l'odio che cerca di esprimersi e addomesticarsi nel rap (anche l'odio deve poter tradursi in parole, se si vogliono fermare i Demoni). E ci sono film rivelatori, che avrebbero dovuto destare attenzione assai prima che l'autunno dello scontento dilagasse: nel 1995 Mathieu Kassovitz girò La Haine - L'Odio, e più di recente, nel 2003, c'è stato il bellissimo film di Abdel Kechiche, L'Esquive (La Schivata), che descrive l'esistenza claustrofobica, la segregazione introversa di adolescenti di periferia che sono arabi di nome - perché i nonni lo erano - ma che sono francesi e allegramente fieri di esserlo, visto che passano il tempo esercitandosi a recitare Marivaux.

Il loro linguaggio è aggressivo anche quando scherzano, chiacchierano, si amano, e quest'aggressività non ha colori tribali ma è un modo per entrare in società, per divenire francesi a pieno titolo: il loro sogno non è di preservare un'appartenenza ma di divenire cittadini indipendentemente dall'identità, come il modello laico-repubblicano promette senza più mantenere. Gli adolescenti della Schivata vivono l'intervento dell'autorità pubblica (la polizia che pattuglia le banlieue) come se quest'ultima fosse una fatale moira divina, come se non fosse un'autorità ma un destino spietato, sprezzante, che opera a casaccio. Nessun francese puro sarebbe trattato col furore malevolo con cui son malmenati i quattro banlieusard dell'Esquive, fermati casualmente dalla volante.

La storia di Francia è colma di questi momenti dove un malessere accumulato da decenni d'un tratto muta natura, e precipita in epidemico tumulto incontrollato. Le jacquerie contadine nel 1358, la rivoluzione nel 1789, la comune di Parigi nel 1971, lo stesso maggio '68 e più di recente il lungo sciopero contro la riforma delle pensioni che il Premier Juppé voleva attuare nel '95: regolarmente esiste una classe di reietti che si ribellano, infiammano piazze, e in tal modo misurano la propria forza. Regolarmente questi tumulti ammaliano altri popoli. La jacquerie divenne l'incubo dei nobili europei, nel Quattrocento. L'epidemia della rivoluzione trasformò un continente. Alle barricate erette nel 1848 dai patrioti francesi parteciparono polacchi e tedeschi, armeni e ungheresi, aprendo la strada all'era dei nazionalismi europei e infine al '14-'18. Seguì poi la comune di Parigi con i suoi 25.000 morti, che tanti europei vissero come ferita per decenni.

Anche oggi siamo sull'orlo di uno strapiombo simile, che è emblema di una condizione umana e più in genere di un Occidente che ci ostiniamo a chiamare benestante ed è invece afflitto da patologie schizoidi, smarrimenti ciechi davanti all'inatteso. Stessi tumulti interni, che non si riescono a sedare e per comodità son chiamati esterni. Stessa inattitudine a parlarsi, tra il dentro e il fuori. Stessa incapacità di dirigenti e politici, orfani di visione e previsione: tante piccole misure son state provate nelle banlieue francesi, ma capricciosamente effimere. Sono stati tentati i ritrovi, le associazioni, la polizia di prossimità, più raramente gli alloggi meno inumani: misure che Chirac ha abolito o ridimensionato. E ancora: stessa fuga nei gesti violenti, sostitutivi del dialogare cittadino. Stessa rigidità di questo dialogare con chi è Altro, chi è outsider e aspira non necessariamente a un'identità, ma a iscriversi nella comune cittadinanza: concepito per ingenerare amicizia, il dialogo si rivela incapace di dar voce alle passioni oscure dell'uomo-cittadino, alle passioni che ci sono contemporanee come l'odio, l'umiliazione, la tristezza, la noia, il risentimento.
Attorno alla Francia c'è in questi giorni una strana animazione euforica, che somiglia molto alla Schadenfreude, alla gioia per il male altrui ed è intensa in Inghilterra e Stati Uniti.

La Francia era così fiera del suo modello laico-repubblicano, ed ecco che d'un colpo esso sembra sgretolarsi e finire. Già da tempo non era un modello di moda, con la sua ambizione a oltrepassare le identità etniche-religiose, a dare a tutti una medesima appartenenza cittadina, a chiedere al diverso l'assimilazione. Di moda sono il multiculturalismo, le quote per etnie o religioni, il comunitarismo: anche se questa ricetta s'è rivelata non meno disastrosa, gettando nel caos le periferie olandesi, le borgate tedesche, e nell'Inghilterra del 2001 le città di Bradford, Burnley, Oldham. Anche per questo è così miope e inane, celebrare la sepoltura del modello francese. Si fa presto a dire che l'idea d'integrazione-assimilazione è fallita, solo perché oggi è applicata male e perché nella storia fu una trappola per le comunità ebraiche. È uno stupido verdetto demolitore, che accomuna scettici di destra e sinistra. I primi incensano Sarkozy, e non a caso il ministro dell'Interno candidato alla successione di Chirac propone l'introduzione di quote immigrati, quindi la tribalizzazione: nel malessere sociale delle banlieue, egli non vede che ardori identitari. I secondi riconoscono che le nostre società son fatte di molte culture, e vorrebbero preservarle immutate tutte. Anch'essi, in realtà, sognano la tribalizzazione.

Il modello francese non è fatalmente condannato, in questi giorni, e solitamente i modelli riusciti di convivenza non muoiono per un intrinseco vizio. Muoiono perché i mezzi non sono riaggiustati per il fine che ci si propone, proprio come capita all'unità europea. Anche quest'ultima è data oggi per morta, essendo contestata. La tendenza disfattista è il peggio che si possa fare. Vuol dire non s'intende meditare su rimedi che compensino nei quartieri caldi la difesa della legalità. Vuol dire che non ci si propone di parlare a una generazione per cui il futuro è baratro. Che non si vogliono correggere i modi in cui i modelli sono realizzati.

Chi sono, questi adolescenti che si scagliano contro tutto quel che pretende esser cosa pubblica senza più esserlo, incenerendo non solo automobili ma scuole, commissariati, centri per disoccupati, trasporti collettivi? Non sono immigrati, ma cittadini francesi. Vanno per forza incorporati, prima o poi, il che significa: vanno fatti parlare, ascoltati. Il più delle volte sono musulmani, ma l'integralismo non è il loro forte. L'Islam integralista cavalca l'anomia a modo suo: non promuovendo le sommosse ma presentandosi come futuri garanti dell'ordine, guardiani di quartieri condannati a secedere.
Quest'umanità non si può chiamarla impunemente racaille (feccia), come ha fatto Sarkozy.

Non si può minacciare di pulire le borgate al karcher: un'espressione straordinariamente aggressiva, che alludendo al raschiamento di mura con prodotti della ditta Karcher fa pensare alla pulizia etnica. Tutti gli europei farebbero bene a immergersi nel caso francese, a cercare le parole per parlare delle passioni tristi dei cittadini oltre che delle passioni nobili, a integrare le minoranze musulmane che si estendono. E quando si dice tutti s'intende: architetti e giornalisti, associazioni, sacerdoti, sindacalisti e politici.
Quel che sta travagliando Parigi ci riguarda, prefigura quel che siamo, che diverremo: una società multiculturale, corrosa da ideologie multiculturaliste aspiranti alla tribalizzazione. Una società che le passioni tristi non le mette al centro della pòlis, per provare a capirle e addomesticarle.

La vicenda parigina ha i tratti di un'allegoria. Ecco una città prospera, bellissima, antica. Al suo centro, in questi giorni, c'è una splendida esposizione allestita dallo storico dell'arte Jean Clair. Sarà una coincidenza, ma questo chinarsi su un enorme e antico tema come la malinconia coincide con la rivolta delle banlieue. Mentre il Grand Palais appende la malinconia alle proprie pareti, ai bordi della metropoli essa s'accende e infuria contro il Palazzo. È la malinconia di chi si trova escluso, privato non tanto di via d'uscita ma di via d'ingresso: nel film di Kassovitz un giovane banlieusard dice, avendo perso l'ultimo metro che dal centro torna alla periferia: «Siamo chiusi fuori», «On est enfermé dehors». Senza guida, senza lotta di classe, la depressione euforica diventa risentimento di massa, istupidita gara tra chi meglio distrugge i simboli del Dentro, del Centro. Televisione e giornali sono questo Centro. I rivoltosi guardano se stessi sullo schermo e si sentono d'un colpo dentro, in gara fra chi più incendia: non sono più banlieue, cioè luogo (lieu) dove vieni messo al bando e altro non sei che bandito.

I tumultuanti del ressentiment assediano la Francia da anni. Hanno detto la loro alle presidenziali del 2001, quando la sinistra fu estromessa dal secondo turno e Chirac si trovò a duellare con Le Pen. Si sono espressi nel maggio scorso, votando contro la Costituzione europea. Ora urlano parole afone, nelle banlieue. Non smetterà questa passione triste, finché classi dirigenti e politici insisteranno a non parlare di quel che succede negli anfratti della società, o a ignorarne le trasformazioni facendo finta che ogni critica ai modelli esistenti distrugga il modello stesso, ed equivalga alla guerra dichiarata da un nemico totale (un partigiano-combattente-terrorista) della Repubblica.


http://www.lastampa.it/redazione/editoriali/ngeditoriale1.asp



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