Il buon soldato Graner
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Il buon soldato Graner
IDA DOMINIJANNI


  


Il buon soldato Graner ha parlato per tre ore davanti alla corte marziale americana che lo ha processato e condannato a dieci anni di galera per le torture di Abu Ghraib. Ha parlato e ha riso, raccontando di quando massacrava i prigionieri, scattava foto e rideva. Perché rideva allora, perché ha riso adesso, gli hanno chiesto. Risposta: «Non ce n'era e non ce n'è motivo. E' la nevrosi. A Abu Ghraib abbiamo fatto cose indicibili, sopportabili solo con l'assuefazione e con l'idea che ci fosse qualcosa di divertente». Il buon soldato Graner ha raccontato che a Abu Ghraib lui e i suoi compari dovevano però adoperarsi a far sì che l'assuefazione non colpisse i prigionieri. Loro no, non dovevano assuefarsi al dolore perché il dolore doveva restare insopportabile e aumentare ogni volta: questa era l'unica regola da osservare. Un po' di fantasia insomma, per non rendere la sofferenza troppo routinier. Botte ovunque sul corpo; schiaffi in faccia; umiliazioni sessuali. A ripetizione, ma con quel tanto di imprevedibilità da vincere ogni istinto di difesa dei detenuti. Trattamenti individualizzati: per ognuno una scheda personalizzata, come in palestra. «Gradi crescenti di privazione del sonno e del cibo, tecniche di pressione fisica e psicologica, uso mirato dell'isolamento notturno e diurno». Nudità obbligatoria. Tempo massimo per mangiare cinque minuti, tempo minimo venti secondi.

Il buon soldato Graner ha aggiunto che lui, e altri come lui, non erano stati addestrati adeguatamente per questi compiti, non erano preparati al meglio, e che per questo le cose sono degenedrate. Con un po' di tecnica in più, chissà, le cose sarebbero andate meglio: un buon sadico deve saper esercitare un perfetto controllo su quello che fa, altrimenti rischia di sbagliare le dosi. La preparazione tecnica invece era stata sostituita dall'imperativo di eseguire gli ordini senza discuterli, punto e basta. E quindi il buon soldato Graner li eseguiva. Aveva provato a obiettare qualcosa, col capitano Brenson, i sergenti Snyder e Ward, il tenente Phillabaum, il maggiore Rayder, ma gli fu detto di tacere e eseguire e lui tacque e eseguì. «Non c'era nulla di legale. Abbiamo commesso atti criminali. Ma per me, allora, erano ordini, anche se ne dubitavo». Che doveva fare allora il buon soldato Graner? Come ha detto sua madre in suo soccorso: «Lo state processando, ma anche se avesse disobbedito lo avreste processato». Che differenza fa? Obbedienza e disobbedienza indifferenti ai contenuti del comando.

Nel 1961, di fronte al tribunale di Gerusalemme che lo processava e lo condannò a morte per lo sterminio degli ebrei, Adolf Eichmann non considerò sufficiente difendersi invocando l'ubbidienza agli ordini; rivendicò anche una più impegnativa obbedienza alla legge, improntata ai princìpi dell'etica kantiana, o meglio a ciò che di quei principi gli pareva di aver afferrato, di un'etica kantiana, come lui stesso disse, «a uso della povera gente». Hannah Arendt, raccontando il processo ne La banalità del male, sottolinea l'importanza di questa distinzione dell'imputato: per fare scorrere la banalità del male non basta darsi l'alibi di eseguire un comando altrui, bisogna interiorizzare quel comando, «identificare la propria volontà col principio che sta dietro la legge, agire come se si fosse il legislatore che ha stilato la legge cui si obbedisce». Adolf Eichmann non eseguiva passivamente gli ordini di questo o quel superiore, aderiva attivamente all'ordine superiore della legge, che per lui si identificava con il Führer. L'«obbedienza cadaverica», come lui stesso la definì durante il processo, non si alimenta né di fanatismo né di automatismi, ma di una ligia e salda ancorché perversa coscienza. Il buon soldato Graner non lo sa, o è figlio di un'epoca, la nostra, in cui anche la banalità del male si banalizza ulteriormente e come un automa risponde all'impulso automatico di superiori senza neanche l'aura dell'autorità della legge?



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