Chi sa, magari noi di Marea impegnate da settembre dello scorso anno per realizzare l’appuntamento del 26 e 27 maggio dal titolo “La libertà delle donne è civiltà - donne e uomini che lavorano contro i fondamentalismi religiosi, per l’autodeterminazione femminile e la cittadinanza” siamo nel solco del femminismo “debole”; personalmente non mi spiace, visto che ho piuttosto paura delle teorie “forti”, che mi sembra fin qui hanno pervaso il paese con il governo delle destre, e buona parte del resto del mondo avvelenando la società con i valori dominanti della guerra, del terrorismo e della violenza in generale.
L’intento nostro è quello di dare voce a donne e uomini (pochi, ma esistenti) che non hanno la stessa voce, anche sulla stampa di sinistra, di chi grida e impartisce ordini con e senza divisa militare e disegna sistemi di coercizione in ogni latitudine e cultura. Ciò che queste persone dicono, per esperienza diretta loro, e che noi abbiamo assaggiato con la sconfitta sulla legge 40, solo per restare nella storia recente, è che i fondamentalismi religiosi non hanno semplicemente una “vocazione” misogina: sono una visione politica il cui profilo non esitano a definire fascista, come afferma la rete internazionale del Women living under muslim laws.
In queste visioni ogni trasgressione alla regola data, che è quella dell’eterodirezione e della supremazia patriarcale, è passibile di varie gradazioni di punizione, tra cui la morte. In questa visione la tradizione, e la parola del dio di turno, è una legge immobile, non compassionevole (fatte salve le traduzioni più aperte del Corano e quelle del cristianesimo della liberazione, dove ci sono spinte libertarie subito censurate dalle gerarchie ecclesiastiche). Per questo, tra le persone che compongono il mosaico delle presenze a Genova ci sono, come forti alleati in una costruzione del cambiamento, quelle e quelli che, da credenti, sanno bene il confine tra fede personale e laicità politica, e stanno a fianco di chi non crede, affinché la soglia della politica non sia oltrepassata dalle diverse personali visioni ultraterrene.
In un dibattito su questi argomenti qualche mese fa una donna marocchina mi disse di essere contenta che, forse, in Canada, come richiesto dalla parte fondamentalista della comunità musulmana locale, accanto alla legge dello stato laico si potesse affiancare la sharia; secondo il suo punto di vista la legge umana è fallace, mentre quella divina è infallibile, e quindi perfetta. Una legge perfetta che le avrebbe impedito, in molte parti del mondo, di essere alla sera tardi in un luogo pubblico misto a discutere. Di fronte a questa legittima, ma per me laica e femminista, pericolosissima visione, credo sia importante sentire le parole, tra le altre, di tre persone credenti con salde posizioni progressiste che saranno a Genova, come un imam che rischia la vita per quello che dice sulla libertà delle donne e sulla separazione tra stato e chiesa, una pastora valdese, e un gesuita. E soprattutto le voci delle attiviste femministe che dall’Algeria, dai Balcani, dall’Iran e dall’Italia a rischio di laicità pensano che la storia umana debba essere presa nelle loro mani, e che le tradizioni da non toccare, invocate dai fondamentalisti di ogni natura, sono frutto di un pensiero che impone la legge del più forte, patriarcale, e schiavista.
Quanto alla questione del corpo, della libertà di coprirlo e scoprirlo, dobbiamo continuare a discutere, e lo faremo. Per il femminismo di casa nostra non è mai venuta meno la voglia di stigmatizzare come l’uso della nudità femminile da parte del mercato sia una forma di, appunto, mercificazione. Non credo però che sia un passo avanti cedere ad una tendenza pericolosa, nella quale mi pare si rischia di slittare: quella che, in nome del rispetto per le altre culture e religioni, o per paura di essere accusate di razzismo, o per l’interiorizzazione del concetto di tradimento dei valori della patria/comunità, esprime reticenza a nominare e condannare le violazioni dei diritti umani in generale, e più in particolare le violazioni dei diritti delle donne.
Sarà interessante anche discutere della questione del velo, che personalmente non amo perché non amo i simboli di appartenenza che oggi sono purtroppo quasi sempre segni di delimitazione di territorio prossimo allo scontro, e che nel caso delle donne hanno anche il valore aggiunto della proprietà e unicità di possesso verso la parte maschile della famiglia. Non a caso in Iran le donne rischiano la vita se non lo indossano, e proprio lì, da qualche giorno, ebrei, cristiani e altre minoranze etniche e religiose devono contrassegnarsi con particolari simboli e colori. Vengono i brividi se si fanno collegamenti con la storia di appena mezzo secolo fa.
Perché possiamo combattere la deriva ratzingeriana e non anche quella di Ahmadinejad, proprio noi che ci diciamo cittadine del mondo? Forse la visione femminista è rimasta l’unica davvero globale e meno vincolata dalle ideologie, in grado di riposizionare le priorità nel mondo, dominato dall’odio spesso alimentato dalle appartenenze religiose, di razza, di etnia, di enclave, di setta.
Chi ha pensato questo incontro ha fatto un percorso di liberazione dentro al pensiero occidentale, certo, in una prospettiva che cerca di ispirarsi al meglio di questo pensiero incarnato, per me, nelle lotte del cambiamento delle suffraggiste inglesi, delle partigiane come Lidia Menapace e Tina Anselmi, delle pacifiste nordamericane come Rachel Corrie, delle donne in nero come Morgantini e Stasa, solo per citare i primi nomi che mi vengono. Mi piacerebbe che questi esempi fossero da guida per le donne di altre parti del mondo, così come lo sono state per me, per moltissime di noi. Penso che sia importante anche raccogliere l’invito che una musulmana, lesbica e femminista come Irshad Manjj rivolge prima di tutto ai credenti musulmani, quando rilanciano a specchio la lotta contro i crociati: quando abbiamo smesso di pensare? domanda lei. Per noi, forse, in parte iniziare a rispondere può voler dire non aver paura di dire che il pensiero critico di genere va applicato sempre e dovunque, lavando pubblicamente i nostri panni e anche quelli degli altri: il bucato al fiume, almeno nelle nostre valli liguri, era un momento di grande confronto e spazio libero per le donne.
“Liberazione”, 24 maggio 2006
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