Il paradosso della tolleranza
di Carlo Sini a cura di Marco Rolando
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Da un punto di vista filosofico la tolleranza verso culture diverse nasconde una posizione fragile e ipocrita: tollerare chi non è tollerante costituisce un insostenibile paradosso che può essere risolto imponendo i propri principi e valori a chi non li condivide. Per questo, la cultura occidentale deve rendersi conto della natura contingente delle sue verità, per evitare in futuro la riduzione ad unum di tutte le differenze di tradizioni, esperienze e modi di vita presenti tra gli uomini.


Parlare della convivenza di persone con differenti esperienze, tradizioni, valori e modi di vita significa evitare la parola cultura. Questa è un'invenzione nostra e non loro. È già una violenza teorica imporre o credere che esista un multiculturalismo, perché queste sono cose nostre, sono nostri modi di descrivere la realtà. Se esistono differenti condizioni umane, dobbiamo chiederci il perché: Quando parliamo di cultura ci riferiamo a una categoria inventata da noi occidentali che non esiste nella realtà e che è la nostra maniera di descrivere le cose.


Cosa pensiamo quando parliamo di cultura? Ai libri degli etnologi? A un insieme di proposizioni scritte? Di valori dichiarati? Di frasi espresse tipo "i tali non mangiano la carne di maiale" o cose del genere? Non è questo ciò che noi possiamo intendere legittimamente per cultura. La differenza tra gli uomini nasce da differenti modi di vita, differenti pratiche di vita, differenti tradizioni di linguaggio, differenti relazioni con gli dei, con la sessualità, con la terra, con il mare, con l'antichità, con il presente, con il futuro e con l'oltretomba.


Possiamo credere sinceramente che si potrà, attraverso strumento del dialogo (prezioso ma occidentale), risolvere la differente configurazione dell'uomo sul pianeta nel futuro di rapporti sempre più intensi? È difficile, anche perché è evidentissimo che con una forza sconsiderata e inarrestabile noi imponiamo a tutti un medesimo modello di vita, un medesimo modello economico, un medesimo modello di progresso; imponiamo un unico modo di fare le cose, un unico modo di valutarle, un unico mercato, un'unica borsa, un'unica informazione e, fra poco, un'unica lingua.


Credete che una cultura si possa salvare così? Voi credete che un'identità si possa salvare se la cultura è il prodotto delle infinite e molteplici pratiche di vita e di sapere? Sapere come si deve dire, come si deve fare, come si deve scrivere. Se questo processo di uniformazione globale e planetario dei modi di vita continua, alla lunga avremo una e una sola cultura. Levi-Strauss, già negli anni 50, aveva qualificato questo spettro di un'unica cultura planetaria prefigurando l'avvento di un'unica cultura, stupida, pericolosa e violenta.


Non possiamo coltivare l'illusione che la nostra tolleranza, che il nostro gradimento dei costumi sia la via d'uscita positiva della convivenza pacifica. La convivenza non è pacifica per ragioni di fatto. Ma non è pacifica nemmeno nella teoria, anche con le migliori intenzioni. Ed è qui a mio avviso che deve operare l'uomo di cultura. Non sul piano politico, che non gli compete e che pone problemi immediati. Sul piano politico si fa quel che si può, si cerca il male minore, si media, si invoca la saggezza. Ma se la cultura occidentale, questa grandissima tradizione di cui noi siamo eredi, ha un compito è proprio quello di mettere in crisi il concetto universalistico di noi stessi e dell'uomo. Senza di questo, il nostro appello al multiculturalismo, involontariamente, anche con le più nobili intenzioni, diventa una copertura di quella violenza che nel frattempo si compie sul piano economico e politico.


Ciò che la nostra cultura deve fare è uno sforzo per il quale essa acquisisce la più profonda dignità della sua tradizione. Perché solo la nostra cultura è in grado di farlo. Solo noi abbiamo il coraggio e il compito dell'autocritica. Questo significa avere una visione laica e profana, che non è un universalismo astratto con diritto di parlare a nome di tutti.


Espressioni come "integrità psicofisica dell'individuo", grondano sangue. Noi che oggi ci ispiriamo a questi concetti universali, fino a due o tre secoli fa non li trovavamo tanto fondati. Facciamo un altro passo: bisogna riconoscere che la costruzione dell'uomo universale è una meravigliosa costruzione occidentale. Per questo non si ha diritto di dire la verità dell'altro, di parlare in nome dell'altro. Non esiste un'unica biologia, non esiste un'unica psicologia, non esiste un'unica scienza. Non esiste un'unica religione, com'è ovvio.


Vorrei illustrare meglio questa frontiera che la cultura occidentale deve perseguire per la sua dignità. Essa deve porsi come modello da mostrare alle altre culture - mimo della verità, diceva Platone. Non da imporre, dunque, ma da mostrare come frutto maturo della nostra travagliata storia, in cui abbiamo conosciuto guerre di religione, orrori di ogni genere in nome della violenza, in nome del dogmatismo, dell'ottusa superstizione. È certo che noi ravvisiamo queste cose in altre culture, ma non abbiamo nessun diritto, nessun fondamento per porci al posto della loro evoluzione storica ed economica ed imporla sulla base di principi apparentemente stabiliti in maniera pacifica, ma in realtà realizzati attraverso lo strumento del soggiogamento economico.


È nostro compito mostrare agli altri come una cultura può rendersi conto del fatto che non c'è concetto, non c'è significato, non c'è valore, non c'è idea di uomo che non nasca dalla vita, dalla pratica di vita; dalle concrete condizioni di relazione con la natura, con gli uomini, con gli animali. Dobbiamo renderci conto che dal modo di fare le cose nascono le idee, che dal modo di essere in comune nasce quella che noi chiamiamo una cultura.


Questa esigenza primaria nella cultura occidentale è l'avamposto del pensiero politico in senso grande e non contingente. Una questione semplicissima, che vorrei definire il paradosso della tolleranza, lo mostra in modo inquietante.


Siamo tutti d'accordo (come potremmo non esserlo) che la tolleranza è una virtù, che essere tolleranti è un bene, che essa è una condizione di convivenza pacifica. E quindi, noi offriamo la tolleranza nel posto in cui lo facciamo, nei limiti in cui lo facciamo, sul posto in cui le nostre condizioni di vita ce lo consentono. Perché non è molto facile essere tolleranti quando le condizioni di vita sono determinate dalle leggi di mercato, che ordinano la città in un certo modo con i sui ritmi e i sui quartieri. È una tolleranza molto parziale quella che possiamo offrire, ma in linea ideale noi la offriamo: "tu puoi essere, nella tua diversità, tollerato da me che non la condivido"


È tutto bello, ma cosa succede se l'altro non è tollerante? È un problema se l'altro ci dice: "no, guarda che il vero uomo sono io" Allora noi gli spieghiamo il principio universale dell'umanità, in base alla nostra filosofia, fisiologia, fisica e così via? Dove è finita la nostra tolleranza? Se siamo davvero tolleranti dobbiamo tollerare questo paradosso. Che lui si consideri il vero uomo e noi quelli un po' degenerati. Ci sono milioni di uomini sulla terra che pensano così di noi. Che faremo? Delle discriminanti di civiltà?


È dura quando siamo di fronte all'essere umano che ci dice "il vero uomo sono io, non ti fare illusioni. E non sono molto tollerante".
Allora gli imporremo la tolleranza? Ma imporre la tolleranza non è a sua volta un comportamento totalmente intollerante? E non è questo che stiamo facendo con i diritti universali, con la carta dell'ONU, i principi di democrazia universale, i diritti dell'uomo? Io mi rendo conto di quanto c'è di buono in tutto ciò, di quanto tutto ciò abbia in sé una battaglia ideale per evitare gli orrori, il sangue, le violenze, gli assoggettamenti delle etnie. Ma ci rendiamo conto della fragilità della nostra posizione, della sua ipocrisia involontaria, ma profonda?


Noi, in nome di principi fondati su nulla - salvo che sulla nostra storia e sulla nostra pelle - e che possiamo condividere tra di noi, ci stiamo arrogando il diritto di governare l'intera vita del pianeta e di ridurla ad unum, con le buone o con le cattive e servendoci della buona ragione, ma anche della scusa che altri popoli, talvolta, sono feroci e barbari. Noi invece no. Noi, con la desertificazione di queste intere regioni della terra, con la distruzione di ogni loro condizione di vita (per cui non hanno scelta e se vogliono sopravvivere devono vivere come noi, assimilarsi al nostro modello), non siamo barbarici. Siamo la civiltà.


Per questa via non ci sarà incontro vero, dialogo vero, comprensione. Dialogo è una parola inventata da Socrate e Platone, da lì noi veniamo ed è per questo che non mi piace quando viene usata come unità di misura dell'umano: non è vero che tutti gli uomini possono dialogare per iscrivere i loro diritti; non è vero che la ragione dialogica esprime la verità di tutti. Essa è uno strumento, come molti altri, che non va enfatizzato, sennò diventa di nuovo una violenza.


Tutti ci auguriamo che ci siano modi di collaborazione tra gli uomini, ma prima vanno colte due premesse.


La prima è rendersi conto della monolitica maniera di intendere il modo di vita, di fare le cose e di governare l'economia globale della vita di tutti.


L'altra è che la cultura occidentale veda, finalmente, la scaturigine pratica dei suoi concetti. Che veda, insomma, la natura contingente delle sue verità e veda l'universalismo cristiano, logico, scientifico, concettuale, politico come costruzioni certamente importanti e utili. Ma che le veda come costruzioni, appunto, e non verità. Queste sono qualcosa che forse può essere mostrato come modello e che potrà essere trasformato dall'apporto degli altri. A patto che gli altri restino altri, perché se avremo provveduto a eliminarli assimilandoli - che è la peggiore maniera, perché quando uccidi si vede - allora non ci sarà più nessun problema. Ci sarà il problema.


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Il profilo
Carlo Sini (Bologna, 1933) è titolare della cattedra di Filosofia Teoretica presso l'Università Statale di Milano. Collaboratore alle pagine culturali del "Corriere della Sera" e de "l'Unità". Tra le sue opere: Semiotica e filosofia (1978); Il silenzio e la parola (1989); I segni dell'anima (1989); Immagini di verità (1985); Il simbolo e l'uomo (1991); Pensare il progetto; Etica della scrittura (1992) e L'incanto del ritmo. Nel 1994 è stato nominato socio dell'Accademia dei Lincei.


http://www.casadellacultura.it/cec/01_milano_vostri_occhi/03_melting_pot/006_sini.php



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