La controrivoluzione preventiva
Grazia Perrone - 27-10-2006
Dallo Speciale Il tempo e la storia



PREMESSA

Avviene in tutti i paesi del mondo ma in nessuno, come il nostro, la tentazione di dare resoconti "tendenziosi" della propria Storia è diventata prassi costante.

Chiariamoci. Chiunque scriva di storia è - oserei dire - "necessariamente obbligato" ad operare una cernita documentale, ovvero, a scegliere - tra la miriade di testimonianze disponibili - solo una piccolissima parte di queste fonti e - se questa prassi viene fatta con onestà intellettuale - si tratta di una pratica ineccepibile quanto inevitabile.

La necessità di semplificare e di rendere meno pallosa la lettura (come mi ricorda un lettore) di testi che rimandano a situazioni storiche complicatissime (e controverse) ci rammenta, tuttavia, che la falsificazione storica operata, spesso, da cattedratici di fama si ottiene più facilmente attraverso le omissioni anziché per, esplicite, affermazioni.

Ma, nel caso italiano, la scelta delle fonti è complicata ancor più a causa del "vizietto" - tutto italiano e molto in voga fino agli anni '50 - dei vari ministri (ma non solo) che si sono succeduti nell'arco di, quasi un secolo, di trasferire sistematicamente (e illegalmente) i documenti ufficiali nei loro archivi privati quando lasciavano l'incarico col bel risultato che negli archivi pubblici ci sono lacune enormi che sono, paradossalmente, colmate dalle Memorie (volutamente interessate e parziali) dei protagonisti.

Che tendono ad autoassolversi.

Accade così che il Parlamento italiano (ma quanti sono, oggi, i libri di testo scolastici che lo rammentano?) venne a conoscenza solo nel 1915 - trent'anni dopo la firma - dell'esistenza di un patto italo/tedesco che impegnava l'esercito italiano a combattere - a fianco di Austria e Germania - contro la Francia. A scoprirne una copia - tra le carte private del generale Carlo Felice di Robilant fu Gaetano Salvemini che informò subito il Parlamento.

Cionostante il presidente del consiglio dell'epoca, Antonio Salandra, non se ne curò affatto e - senza consultare i ministri o i capi militari - si apprestò a cambiare bandiera nascondendo al Parlamento (e al Paese) il fatto che - per alcuni giorni - l'Italia era rimasta vincolata dagli impegni sottoscritti a ... schierarsi simultaneamente con entrambi i contendenti della guerra che stava già insanguinando l'Europa.

Ma ... se Sparta piange Atene non ride. Ovvero ... le cose (a sinistra) non vanno meglio dal momento che da quest'opera di falsificazione e di mistificazione storica non è sfuggito neppure Antonio Gramsci i cui scritti (...)"furono manomessi dopo la sua morte da membri del suo stesso partito, i quali ne eliminarono le critiche a Stalin e gli sgraditi accenni alle affinità tra comunismo e fascismo (..)" [1] (...)" e furono pubblicati, integralmente, solo nel 1968. (...)" [2]

Ed è proprio in virtù di queste contraddizioni (ma meglio sarebbe definirle omissioni) che i "Pansa di giornata" si insinuano con i loro scritti.

Questa, lunga, premessa si rende necessaria per comprendere perché, sulla storia del movimento operaio, (specie sulla sua genesi ovvero del periodo storico compreso tra il 1864 e 1892) vi siano versioni inesistenti, confuse e, spesso, contraddittorie finalizzate, in ultima analisi, ad assolvere l'operato di una dittatura e di una ideologia politica che nega, nei fatti, qualsiasi forma di dissenso interno. Ideologia politica - sia detto per inciso - che avrebbe potuto ben poco ... se non fosse stata sostenuta da una, nutrita, schiera di cortigiani e di servi sciocchi.

In questo contesto l'affermazione gramsciana - che, nella sua versione integrale, ho potuto leggere solo negli anni '70 - della verità rivoluzionaria assume, oggi nel momento in cui è pronto (così ci assicurano) il cantiere per la costruzione del partito democratico (un ibrido né carne né pesce ovvero, senza radici né futuro), una valenza straordinaria.

Liberazione nella sua, scarna, cronologia degli avvenimenti del 1904 "propedeutici" al primo, grande, sciopero generale dell'Italia unita mi offre lo spunto per introdurre l'elemento discriminante che divise, fin da subito, ovvero, dal 1864, il movimento di emancipazione sociale in Italia (e in Europa). [3]

Nel paragrafo finale il quotidiano di rifondazione fa esplicito riferimento (...)"alle elezioni amministrative del 1914" nella quale " i socialisti si posero alla guida di sette comuni dell'Iglesiente".

Ebbene ... quella che per i "socialisti legalitari" rappresentava una "vittoria" i "socialisti anarchici" la consideravano una sconfitta perché - a fronte della violenta repressione statale e padronale sempre presente in ogni fase della vita sociale - la scelta parlamentare (a cui si aggiungeva una propaganda rivoluzionaria ... a parole) educava le masse alla delega e, in ultima analisi, alla sconfitta.

Questa contraddizione apparve evidente nel novembre 1920 quando - esaurita la spinta dei Consigli di fabbrica - il padronato, utilizzando la manovalanza fascista, cominciò a riprendersi quello che l'azione diretta delle masse aveva loro tolto.

Utilizzerò - come fonte documentale - l'archivio di Umanità Nova (dal 1920 al 1922) e il libro di Luigi Fabbri: "La controrivoluzione preventiva" scritto "a caldo" (nel dicembre 1921) quando le sorti del conflitto sociale stavano, irrimediabilmente, volgendo a favore dei fascisti e la cui analisi sarà ripresa - senza citazione dell'Autore - da altri.


NOTE:

[1] cfr. Denis Mack Smith - La Storia manipolata - Laterza editrice - Bari - 1998

[2] cfr. Nicola Tranfaglia - Un passato scomodo - Laterza editrice - Bari -1996

[3] (...)"l'Internazionale scriverà, più tardi Malatesta dalle colonne di Umanità Nova - nacque in Italia socialista, anarchica, rivoluzionaria, e per conseguenza antiparlamentare. Ruppe subito con il "Consiglio Generale", il quale, ispirato da Marx, voleva dirigere autoritariamente l'associazione ed imporle un programma statalista; e fu essenzialmente un'associazione fatta con lo scopo di provocare un'insurrezione armata, la quale avrebbe dovuto d'un colpo solo rovesciare il governo, abolire la proprietà privata, mettere a libera disposizione dei lavoratori la terra, gli strumenti di lavoro e tutta la ricchezza esistente e sostituire all'organizzazione statale e borghese la libera federazione dei comuni e dei gruppi produttori autonomi (...)"



IL BIENNIO ROSSO

Ho accennato, in premessa, al coinvolgimento italiano nella Prima Guerra Mondiale. Il riferimento non è casuale dal momento che la grande maggioranza degli storici (non necessariamente di scuola ... "bolscevica") sono concordi nel ritenere che il coinvolgimento italiano nella guerra fu, l'ultimo, disperato tentativo governativo di evitare la rivoluzione sociale che - dopo i fatti di Ancona del 1914 - sembrava imminente.

(...)"Il fascismo - scrive Luigi Fabbri nell'opera citata - poiché la guerra del 1914/18 si combatteva non soltanto alle frontiere ma anche all'interno di ogni singola nazione è il prodotto più naturale e legittimo della guerra (...)". Essa fu una "menzogna convenzionale che ciascuno accettava pro forma pur sapendola una finzione poiché la coazione statale e militare impediva lo scatenarsi delle ostilità all'interno (...)".

Nel periodo storico compreso tra il 1919 e la seconda metà del 1920 (ottobre) l'Italia - dopo la Russia - appariva il Paese più rivoluzionario d'Europa. Le condizioni sociali erano favorevoli poiché da un lato essa usciva dalla guerra non sconfitta militarmente, senza eserciti stranieri in casa, tributi di guerra da pagare e, soprattutto, senza minacce esterne che le impedissero la libertà di azione. D'altro canto però, per insipienza politica e per la, cinica, prepotenza, degli "alleati" l'Italia fu trattata quasi come una vinta con la conseguenza di un estremo indebolimento dello Stato che - come ci rammenta il Fabbri - (...)"crollerebbe se non avesse dalla sua la forza armata dei gendarmi e dei soldati".

Di qui lo slancio in avanti del movimento operaio e di tutti i partiti rivoluzionari (a parole) ingrossati a dismisura proprio come reazione alla guerra che - è opportuno ribadirlo - in Italia s'era fatta contro la volontà della stragrande maggioranza delle masse popolari. E sono proprio curiosa - mi sia consentita questa divagazione - di vedere come commenteranno - il prossimo 4 novembre - l'anniversario di quel tragico avvenimento gli eredi (spirituali) di Lenin divenuti, nel frattempo, la prima e la terza carica dello Stato.

Ma torniamo in tema.

Dall'inizio del 1919 ci fu una vera e propria ubriacatura rivoluzionaria. Le piazze di tutta Italia si riempivano di centinaia di migliaia di persone; la stampa "sovversiva" andava a ruba e le sottoscrizioni a favore dei giornali rivoluzionari raggiunsero cifre impensabili. Il partito Socialista e i Sindacati (specie la CGL ma, anche e in misura minore, l'USI) diventarono di massa e si dimostrarono capaci di chiamare alla mobilitazione milioni di persone contemporaneamente. In questo clima in cui tutti (socialisti e sindacalisti compresi) parlavano di rivoluzione si svolsero le elezioni politiche nel corso delle quali il PSI - con un programma politico molto radicale - sconfisse il partito della guerra e quadruplicò il numero dei voti. La qual cosa rese la dirigenza socialista ancor più euforica ed estremista. A parole.

Ma ... (...)"la rivoluzione non veniva, non si faceva. Si facevano solo dei comizi di popolo, molti comizi; e con essi dimostrazioni, cortei, parate coreografiche senza numero. Sembrava che il proletariato italiano attendesse il rinnovarsi del miracolo di Gerico; che la Bastiglia borghese, che lo Stato capitalistico dovesse crollare, inabissarsi, soltanto al canto degli inni rivoluzionari ed allo sventolio delle bandiere rosse. In principio lo spettacolo era bello, impressionante (...)" Ma l'auspicato crollo non venne nonostante vi fossero state, almeno, tre occasioni favorevoli. L'apice di quel movimento di emancipazione rimane l'esperienza dei Consigli di fabbrica [1] la cui sconfitta - nel settembre del 1920 - segnò l'inizio della regressione poiché - è sempre Luigi Fabbri a parlare - (...)" l'abbandono delle fabbriche, in seguito all'accordo confederalista-giolittiano, fu come il principio della ritirata per un esercito che aveva, fino a quel giorno, avanzato. Immediatamente un senso di depressione corse le file operaie, e viceversa il governo cominciò a far sentire la propria forza. Qua e là cominciarono le perquisizioni, poi gli arresti. Ad un mese appena dall'abbandono delle fabbriche il primo assaggio di reazione fu fatto a danno del partito rivoluzionario meno numeroso, degli anarchici (...)". [2]

Una cosa assolutamente, impossibile, pochi mesi prima. In dieci giorni - dal 10 al 20 ottobre 1920 - furono imprigionati con pretesti risibili (saranno tutti prosciolti dalle accuse pochi mesi dopo) Armando Borghi e tutti i redattori di Umanità Nova tra i quali il suo direttore: Errico Malatesta.

Di più. I socialisti adunati a Firenze dissero a chi andò da loro a chieder aiuto e consiglio che non c'era nulla da fare.

Gli anarchici venivano lasciati soli.

La mancanza o, meglio, la sporadica reazione popolare a questa, palese, ingiustizia aprì la strada alla ... "seconda fase": l'attacco diretto al PSI. Ovvero allo schieramento rivoluzionario (a parole), numericamente, più forte.


NOTE:

[1] L'occupazione delle fabbriche si sa bene come finì ma è opportuno ribadirlo: essa fu sancita dalla beffa giolittiana del promesso controllo sulle officine. Eppure quella fu l'occasione migliore per abbattere la monarchia dal momento che - come confesserà, più tardi, Giolitti (...)"non vi erano forze armate sufficienti per espugnare tutte le "fortezze" in cui gli operai si erano asseragliati. Un esercito, oltretutto, che era giudicato "inaffidabile" poiché si temevano episodi di fraternizzazione con i rivoltosi com'era avvenuto ad Ancona, nel 1914, quando i marinai della Regia Marina sbarcati in forze per reprimere lo sciopero generale - accolti da una massa enorme "armata" di fasci di rose rosse - si lasciarono, tranquilalmente e pacificamente, disarmare.

[2] Come non vedere - in questa scelta repressiva e con la dovuta "contestalizzazione storica" - inquietanti analogie con quanto avvenne - tanti anni dopo - per colpire e, in ultima analisi, frenare il movimento di emancipazione dal basso che, nel 1969, mise sul banco degli accusati proprio la burocrazia sindacale e politica incapace, fino a quel momento, di rappresentarne le istanze?



VERSO LA SCONFITTA

Per descrivere l'affondo padronale che aprì la strada alla violenza generalizzata lascio la parola a Luigi Fabbri nella sua opera più volte citata scritta (e stampata) - lo ribadisco - nel dicembre 1921.

(...)"ma la reazione classica, degli stati d'assedio, delle leggi eccezionali, degli arresti di massa, degli scioglimenti di associazioni non era più possibile. La reazione di polizia poteva bastare per le minoranze anarchiche ed ultrarivoluzionarie; con la grande massa era invece impotente, insufficiente, e poteva avere effetti contrari allo scopo. (...) La classe dirigente aveva bisogno di profittare del momentaneo arresto dell'offensiva proletaria per incalzarlo con un'offensiva propria. (...) il fascismo aveva il suo nucleo centrale e più forte a Milano con ramificazioni un po' dovunque, ma non era preponderante in nessun luogo - e tanto meno lo era a Bologna, dove invece tutto ad un tratto divenne forte, tanto che proprio da qui come forza politica coercitiva e violenta cominciò ad estendersi in tutta Italia. (...) Lo sbandamento di questa città iniziò la notte del 4 novembre 1920, in cui per pochi fascisti fattisi sull'uscio e nell'atrio della camera Confederale del lavoro in atto minaccioso e aggressivo, l'allora segretario on. Bucco, che pure era circondato da un certo numero di giovani armati, non trovò di meglio che telefonare per soccorso alla questura filo-fascista! La polizia venne, ed in numero, ma per arrestare i socialisti e far fare una figura ancora più ridicola al deputato Bucco. La fortezza era ormai espugnata: i fascisti vi avevano, in certo modo, libero l'ingresso. Se quella sera i socialisti (..) si fossero energicamente difesi con la forza che avevano e senza esclusione di colpi, forse la Camera del lavoro di Bologna sarebbe stata invasa allora invece che tre mesi dopo, ma sarebbe stata la prima e l'ultima in Italia. Essa sarebbe stata invasa non dai fascisti ma dalla forza pubblica; la quale avendo preso lei l'iniziativa, avrebbe tolto al governo la maschera d'una inesistente neutralità, resa impossibile l'indegna commedia recitata poi, e tolta al fascismo la direzione delle operazioni antisocialiste. Se reazione fosse venuta, avrebbe preso un carattere statale; e la lotta avrebbe conservato il suo carattere tradizionale di conflitto tra sudditi e governo, senza deviare verso la insensata, feroce ed inutile guerriglia di fazioni che seguì. (...)"

Se i socialisti - scriverà in seguito Malatesta in una nota redazionale non firmata - invece di dedicare tutte le proprie energie alla competizione elettorale dell'ottobre 1920 avessero reagito alle bastonate di quattro ragazzetti restituendole con gli interessi essi se ne sarebbero tornati, scornati, dalla propria ... mamma.

Invece no. Essi (i socialisti) erano stati educati ad essere legalitari, ad obbedire alle leggi, a chiedere aiuto alla forza pubblica, a votare e a delegare ad altri il proprio futuro ed ecco le conseguenze.

La lezione storica - rafforzata da quanto è avvenuto in Francia (1789); Russia (1917); Spagna (1936) - è una sola: sconfitta e criminalizzata l'ala radicale del movimento di emancipazione sociale resta solo ... il Termidoro.

interventi dello stesso autore  discussione chiusa  condividi pdf