I consigli operai: intervista a Maurizio Garino
Grazia Perrone - 21-10-2006
Dallo Speciale Il tempo e la storia



Il 27 ottobre 1906 - per la prima volta - la firma di un accordo tra la Fiom e la direzione dell'impresa torinese Itala si concluse con il riconoscimento (che, oggi, definiremmo giuridico) delle Commissioni interne alla fabbrica. Esse erano nate - operando, fino a quel momento, in semiclandestinità [1] - nel 1904 all'epoca dello sciopero generale proclamato dopo gli, ennesimi, eccidi di minatori e contadini di Buggerru, nel cagliaritano, e di Castelluzzo, nel trapanese, e (...)"si trattava di organismi spontanei, senza esistenza legale, che si costituivano e si disfacevano a seconda dei bisogni della lotta: comitati di sciopero o comitati d'azione piuttosto che comitati d'azienda (...)". [2]

La storiografia ufficiale fa risalire a quella data la nascita del sindacalismo moderno quasi che la data di nascita del movimento di emancipazione dei lavoratori avesse bisogno di una sorta di certificazione notarile dando per scontato che, prima, non vi fosse nulla o quasi. Ed è paradossale constatare che - gli esclusi di ieri - siano, oggi, i più accesi sostenitori dell'esclusione dei diritti sindacali al sindacalismo di base.

Non starò qui a dilungarmi sulla genesi del movimento operaio - che ha un travaglio assai complesso - limitandomi a rilevare la grave carenza informativa (soprattutto in ambito scolastico) in merito dal momento che il periodo storico che va dal 1864 (prima internazionale) al 1892 (data di nascita del PSI) è un terreno di ricerca storica riservato a, pochi, addetti ai lavori.

E non sono pochi coloro i quali - Pansa docet - scrivono sciocchezze (chiamiamole così).

Scopo del mio intervento è quello di aprire un dibattito ed una riflessione sul movimento dei Consigli di fabbrica che spaventò così tanto il padronato (e i leader socialisti come Turati) da spalancare la strada - dapprima con la violenza poi con una parvenza di legalità - ai fascisti.

Ho già accennato, in estrema sintesi, alla lunga marcia delle commissioni interne tese ad ottenere il riconoscimento giuridico dalla controparte padronale ma i veri problemi connessi al grado di autorganizzazione operaia - non sempre (e non tutta) disposta a sobbarcarsi il peso delle proprie azioni - si delineano nelle convulsioni sociali del primo dopoguerra: 1919/1922 .

La cronologia dei fatti è nota. Nei primi giorni di settembre 400.000 operai di tutta Italia, in risposta alla reazione padronale che giunse fino alla serrata, occuparono le fabbriche. Torino e Genova furono con Milano i centri in cui il fenomeno dell'occupazione assunse aspetti particolarmente rilevanti ed interessanti dal punto di vista della organizzazione della lotta. È infatti proprio in questo contesto e in questi centri (Torino e Genova) che si affermò il movimento dei Consigli di Fabbrica.

Il Movimento era sostenuto dalla sezione socialista di Torino, dal gruppo dell'"Ordine Nuovo" di Gramsci e, con le debite differenze di impostazione ideologica, da un gruppo di libertari torinesi.

Il movimento dei consigli si pose sin dall'inizio in posizione di netto antagonismo col sindacato (FIOM), il quale da parte sua considerò con estrema diffidenza questo tentativo di democrazia operaia che avrebbe potuto incrinare il suo potere di controllo sulla massa e giunse ad una sua completa condanna nel Congresso di Genova del maggio 1920.
Già nell'aprile, infatti, Torino fu al centro di uno sciopero per il riconoscimento dei Consigli di Fabbrica, e nonostante la pesante sconfitta dovuta all'abbandono da parte dei sindacati del movimento operaio torinese, il problema del controllo operaio si impose col sorgere delle nuove lotte. Nella sola Torino il movimento di occupazione coinvolse ben presto 100.000 operai, che pur continuando nei primi giorni l'ostruzionismo secondo le disposizioni federali, si apprestavano alla vigilanza armata e alla organizzazione interna per dimostrare che "(...) anche privi della direzione padronale, gli operai sanno disimpegnarsi nel funzionamento accurato dell'officina (...)". [3]

Risulta quindi evidente che il Consiglio di Fabbrica intendeva essere un nucleo di organizzazione del lavoro, un organismo attivamente inserito nel processo produttivo, superando i limiti di una attività esclusivamente politica o rivendicativa. I compiti che quindi il Consiglio di Fabbrica si assumeva erano molteplici. Da un lato, sul piano politico, l'impegno era di comunicare l'esperienza dei Consigli alle altre fabbriche occupate e di coinvolgere nella lotta le altre categorie di lavoratori, organizzando inoltre la resistenza armata. D'altro canto, su di un piano più propriamente economico, doveva organizzare la produzione su basi nuove che garantissero il funzionamento di un sistema di gestione operaia, assicurando il coordinamento della produzione, il rifornimento di materie prime e gli scambi del materiale. Dopo i primi giorni di occupazione, infatti, incominciarono a svolgere le loro funzioni, presso la Camera del Lavoro, i vari comitati organizzatori: quello Buoni, sussidi e cucine, quello di Scambi e Produzione e quello di Compra e Vendita che affidava ad una unica cassa le riscossioni per le vendite dei prodotti e i pagamenti per gli acquisti. Alla base della disciplina riguardante l'attività che derivava dalla gestione dell'industria, erano i Consigli di Fabbrica i quali delegavano determinate funzioni ai singoli componenti del loro comitato esecutivo. È opportuno ricordare che riuscirono a mantenere discretamente alto il livello di produzione, se si pensa che ad esempio alla FIAT centro si producevano 37 macchine al giorno contro le 67-68 dei tempi normali. Ma l'organizzazione economica non era certo completa e totalmente efficiente dato che quando il movimento di occupazione si avviò alla fine si pose il problema del pagamento del lavoro compiuto dagli operai durante il periodo di occupazione. "A Torino in tutte le fabbriche si è lavorato. Poco i primi giorni, molto nei successivi. In alcune officine si è superata la percentuale media della produzione. Per chi si è lavorato? Gli operai, piuttosto che aver lavorato 20 giorni per i padroni sono disposti a distruggere tutto ciò che hanno prodotto" [4].

Questa intervista ad uno dei protagonisti di quei giorni - apparsa su '"A rivista anarchica" n. 3 del settembre 1971 - ci può dare un'idea della sconfitta.


NOTE: [1] cfr Robert Paris introduzione al Tomo 1° degli Scritti politici di Antonio Gramsci

[2] ibidem

[3] Estratto dal primo comunicato del Consiglio di fabbrica FIAT centro

[4] cfr. Avanti del 21 settembre 1920


INTERVISTA A MAURIZIO GARINO

"Gramsci si mise le mani nei capelli. La mia affermazione che tutte le dittature, compresa quella del proletariato, sarebbero sempre finite con l'accentramento del potere nelle mani di una minoranza dirigente, e, più ancora, la mia affermazione che i primi ad essere fucilati saremmo stati noi libertari, lo aveva addolorato e scandalizzato. - Non dire queste cose, Garino! - Mi disse... Vorrei che Gramsci fosse vivo oggi, nel 1971, dopo tutto quello che la dittatura del proletariato ha causato in Russia, in Ungheria, in Cecoslovacchia, in Polonia...".

Questo ci dice Maurizio Garino, che siamo andati a trovare a Savona, per parlare con lui del movimento dei consigli di fabbrica a Torino nel biennio rosso (1919-20), che lo vide diretto partecipe, ed anche protagonista.

Infatti Garino, nato in Sardegna 78 anni fa, dopo due anni di militanza nella gioventù socialista, fu tra i fondatori dei Circolo di Studi Sociali che sorse a Torino dopo la morte di Francisco Ferrer (educatore ed agitatore anarchico spagnolo, precursore della pedagogia libertaria, assassinato dalla reazione nel 1910) e che divenne poi la Scuola Moderna "F. Ferrer" della Barriera di Milano. Partecipò attivamente agli scioperi dei metalmeccanici del '12 e del '13, alla settimana rossa ed alle dimostrazioni contro la guerra dell'agosto 1917; fu in seguito il primo ad indire uno sciopero nelle officine di Savigliano contro lo sfruttamento delle donne e dei soldati. Più volte incarcerato, subì la violenza dello stato. Dopo aver militato nel movimento anarchico ancora alcuni anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, si è ora ritirato a vita privata per ragioni di salute e di età. Dopo oltre cinquant'anni da quei drammatici avvenimenti, ancora oggi Garino parla con estrema lucidità e precisione della sua partecipazione alle lotte operaie, alle occupazioni delle fabbriche, alla resistenza anti-poliziesca ed anti-fascista che caratterizzarono quel periodo decisivo per la classe operaia italiana che passa sotto il nome di biennio rosso.

Insieme con Italo Garinei (morto circa tre mesi fa) e Pietro Ferrero (assassinato dagli squadristi fascisti), Maurizio Garino fu infatti uno degli anarchici più influenti fra la classe operaia torinese, ed i suoi discorsi ed i suoi scritti, allora come oggi, sono un passaggio obbligato per chi voglia studiare le lotte di quel tempo, per chi voglia riproporre oggi la tematica dei consigli. La lezione storica dell'occupazione delle fabbriche culminata nel settembre del 1920 è quanto mai attuale in un momento come questo in cui alcuni settori della classe operaia stanno portando avanti dure lotte autonome contro il padronato, al di fuori e contro gli stessi sindacati.

"I consigli - sottolinea al riguardo il compagno Garino - dovevano rappresentare, secondo i nostri intendimenti, tutti gli operai ed essere organismi di base, in opposizione alle commissioni interne, scelte dai dirigenti sindacali, che rappresentavano solo gli operai che pagavano la tessera del sindacato. Riguardo ai rapporti con le organizzazioni sindacali, tre furono le tesi che vennero sostenute. La prima voleva i consigli all'interno dei sindacati, in modo da annientarne l'autonomia dai consigli stessi. La seconda, sostenuta da Antonio Gramsci e dai socialisti dell'"Ordine Nuovo", era contraria a questo inserimento e considerava i consigli come organi rivoluzionari tendenti alla conquista del potere politico. Ed infine la terza, sostenuta da noi anarchici, vedeva nei consigli gli organi rivoluzionari, al di fuori del sindacato, capaci non di conquistare il potere, ma di abbatterlo. L'organizzazione dei consigli era caratterizzata dalla revocabilità immediata, da parte della base, di ogni carica. Ogni reparto sceglieva un commissario nella persona di un operaio, che doveva studiare tutto il ciclo produttivo e comunicare le sue conoscenze ai compagni di reparto, così da eliminare ogni gerarchia di funzioni direttive all'interno della fabbrica.

Il consiglio di fabbrica era nominato dalla riunione dei commissari di reparto. Contemporaneamente, a livello nazionale, si cercò di organizzare un congresso per collegare federativamente i consigli di fabbrica e per scavalcare i partiti ed i sindacati. Il congresso fu reso impossibile, pochi giorni prima del suo inizio, dallo scatenarsi della reazione".
Chiediamo a questo punto ulteriori spiegazioni al compagno Garino sulle differenze fra i consigli ed i sindacati, ed in particolare sulla posizione di quegli anarchici che si trovavano a militare nella C.G.L. (sindacato socialista) o nell'Unione Sindacale Italiana (sindacato libertario). "Sì può affermare che i consigli operai erano una sorta di soviet, che ampliavano ed approfondivano i compiti delle commissioni interne. In pratica, i consigli si formavano lungo le complesse strutture dell'azienda, e si differenziavano dalle organizzazioni sindacali producendo due fatti nuovi:
1) combattendo nell'operaio la mentalità del salariato, gli facevano scoprire la coscienza di produttore, con tutte le conseguenze di ordine psicologico e pedagogico.
2) educando ed addestrando gli operai all'autogestione, facevano loro acquisire le conoscenze necessarie alla conduzione dell'azienda.
Quindi i consigli, a differenza dei partiti e dei sindacati, non erano solo delle organizzazioni contrattuali, ma piuttosto delle associazioni naturali, necessarie, indivisibili. Non c'era né un capo né una qualsiasi gerarchia che organizzasse dei gregari in un gruppo politico determinato; qui era lo stesso processo produttivo che inquadrava organicamente e funzionalmente tutti produttori. In questo senso i consigli rappresentano ancora oggi il modello di un'organizzazione unitaria dei lavoratori, e così l'unità è reale perché il prodotto non di un'intesa, di un compromesso, di una combinazione, ma di una necessità".

Si viene così al problema degli anarchici e delle loro organizzazioni nel movimento dei consigli, ai loro apporti teorici ed organizzativi; Garino inizia ricordando la figura di Pietro Ferrero, anarchico, segretario della FIOM torinese, il sindacato dei metalmeccanici aderenti alla CGL.

Visibilmente commosso, Garino ci parla a lungo del "compagno ed amico" Ferrero, sempre in prima linea nelle lotte operaie, anarchico militante ed aderente come lui al sindacato socialista con lo scopo di portare all'interno della stessa CGL il discorso rivoluzionario. La tragica fine di Ferrero, assassinato dai fascisti il 18 dicembre 1922 dopo lunghe ed atroci sevizie, ed il cui cadavere straziato fu successivamente legato ad un carro e trascinato per le strade di Torino come trofeo di vittoria, ci offre lo spunto per trattare il tema dello squadrismo fascista; Garino si ricorda con molta chiarezza delle violenze operate dalle squadre fasciste contro gli operai che lasciavano le fabbriche, al termine delle dure occupazioni. La borghesia si vendicava della grande paura causata in lei dal movimento dei consigli finanziando lo squadrismo in camicia nera, e preparando quella che l'anarchico Luigi Fabbri ha definito la "controrivoluzione preventiva".


Il compagno Garino, comunque, nel corso del colloquio, torna più volte sulla fondamentale differenza di valutazioni teoriche e pratiche fra gli anarchici, appoggiati parzialmente da Antonio Gramsci e dall'"Ordine Nuovo", ed i socialisti, o meglio, la dirigenza social-riformista della CGL e del PSI. A livello sindacale, infatti, solo gli anarco-sindacalisti dell'U.S.I. appoggiarono il movimento dei consigli, pur sollevando alcune riserve sia di carattere teorico, sia di carattere organizzativo. Lo stesso Garino, concludendo la sua relazione sui consigli di fabbrica e di azienda al Congresso dell'Unione Anarchica Italiana (Bologna - 1/4 luglio 1920), aveva d'altra parte affermato che "come mezzo di lotta immediata, rivoluzionaria, il consiglio è perfettamente idoneo, sempreché non sia influenzato da elementi non comunisti. Esso sostituisce alla mentalità del salariato la coscienza del produttore, imprimendo ai movimenti operai un chiaro sentimento espropriatore... Riteniamo sia desiderabile, da parte degli anarchici comunisti, favorire la creazione e lo sviluppo di questi strumenti di lotta e di conquista senza però farne l'unico campo d'azione e di propaganda, e come per il passato, non chiudersi nella stretta cerchia sindacale, continuando ad esplicare la nostra maggiore attività in campo politico...".

A cinquant'anni di distanza, Garino è convinto che gli anarchici abbiano fatto tutto il possibile all'epoca dell'occupazione delle fabbriche per sostenere le lotte operaie e per sconfiggere le correnti anti-rivoluzionarie e sostanzialmente borghesi rappresentate da D'Aragona, Buozzi, Baldesi e dagli altri dirigenti del PSI e della CGL.

Non si riuscì ad impedire che la rivoluzione fosse messa ai voti in una squallida riunione cui parteciparono centinaia di dirigenti socialisti, ormai isolati dal reale movimento operaio, e questo portò ad accentuare la sfiducia, la stanchezza, la confusione fra gli operai, a convincerli della necessità di disarmarsi e di abbandonare le fabbriche occupate, a favorire così la rivincita padronale e l'instaurazione della dittatura fascista. In questo contesto, sia l'occupazione delle fabbriche, sia la posizione assunta al riguardo dagli anarchici, sono attuali, e devono essere profondamente meditate da chi non le abbia vissute.

"La situazione attuale non è certo uguale a quella del 1920, quando bastò la decisione unilaterale della direzione della FIAT di spostare l'orario di lavoro dall'ora solare a quella legale, per scatenare nell'aprile il famoso sciopero durato tre settimane, durante il quale si tennero numerosissimi comizi; fra l'altro, proprio durante uno di questi comizi agli operai, in cui parlavo come anarchico del gruppo libertario torinese e come aderente alla FIOM, fui arrestato.

In ogni caso, tanto allora quanto oggi, siamo sempre stati considerati dei sognatori, degli utopisti; noi siamo certi di non esserlo, ed anche l'esperienza del biennio rosso conferma le nostre tesi: l'unica via rivoluzionaria aperta di fronte alla classe operaia è quella della rivoluzione libertaria, dell'autogestione
".

G.L. - R.A.

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 Giuseppe Aragno    - 21-10-2006
La storiografia ufficiale, Grazia, e meglio diremmo “accademica”, più che a ricostruire vicende storiche, ha badato e, ahimé, ancora bada, a costruire “carriere” universitarie. Non pochi tra i “sacerdoti del fatto” e gli asceti della “neutralità della storia” hanno contribuito a determinare quella che tu chiami giustamente una “grave carenza informativa”, figlia legittima della parzialità degli indirizzi di ricerca dettati per decenni dai responsabili delle politiche culturali dei partiti. A ben vedere, non si tratta, perciò, di semplice carenze informativa, ma di gravi lacune conoscitive e di fortissime distorsioni di carattere ideologico che riguardano la ricerca storica più che l’insegnamente della storia. Allo stato dell’arte, per fare un esempio, non c’è una storia del Pci degna di questo nome, così come fermissima è la convinzione, per quanto riguarda la genesi del movimento operaio, soprattutto per certe aree del Paese, che tutto o quasi nasca per colpo di bacchetta magica, tra il 1892 e il 1906, col Psi e la Cgil. Nemmeno lavori come quello ormai antico di Stefano Merli hanno potuto determinare una inversione di tendenza. Così, è fuori dell’accademia che capita di incontrare personalità di forte spessore culturale e metodologico, ricche di autonomia, che – è il tuo caso, lasciamelo dire – stimolano alla riflessione molto più che i “santoni” che pontificano sul nulla. Accolgo con piacere il tuo invito ad una riflessione che non fermerei, però, ai “Consigli di fabbrica” e allargherei al piano operativo e propositivo. Non entro nel merito, se non per rilevare che condivido la tua valutazione sulla profonda divaricazione tra organizzazioni di classe e auto-organizzazione, ma ritengo che essa sia tanto più giusta, quanto più si applica al rapporto tra masse e gruppi dirigenti. Sullo stalinistico silenzio toccato al mondo che precedette la nascita del socialismo “legalitario” lì davvero la sintonia è profonda. Prendi la sorte toccata all’internazionalismo, che a Napoli, dove vivo e studio, ebbe un rilievo incredibile. Cosa ne sappiamo? Nulla o quasi. Qui passò Bakunin e vi fece scuola. Qui operò la prima sezione dell’Internazionale, qui insegnò Labriola, qui agirono Fanelli, Gambuzzi, Cafiero, il giovanissimo Malatesta. E però anche qui tutto comincia inopitamente con Turati e il Psi nato a Genova. Anzi no: questo è Sud, non c’è “classe operaia”, e allora si va oltre, si giunge al 1899 e addirittura con Bordiga attestato attorno al “Soviet”, che, guarda caso, con l’esperienza consiliare, fu all’origine del Pci. Il quale, in pratica, sarebbe nato per “partenogenesi”: nessuna radice nel passato, nessuna tradizione precedente, nessuna riflessione, se non qualche nota sprezzante, sull’anarco-sindacalismo. Così sappiamo tutto o quasi di Gramsci e Bordiga, Turati e Togliatti e nulla o quasi del tuo Maurizio Garino, di Pietro Ferrero o, per parlare di quelli del nostro Mezzogiorno, di Tommaso Schettino, che fu sui monmti del Matese per la sola rivoluzione mai tentata nel nostro paese, di Luigi Felicò, e il diavolo sa quanti altri, dalla storia esemplare. Sono tutti personaggi ai quali ha finalmente ridato voce il prezioso “Dizionario Biografico degli anarchici italiani”, di cui tuttavia, quanti hanno notizia? Io credo che tu faccia bene a ricordare come in fondo la vera frattura, alla fine non è tra militanti, ma tra base e vertice. Nell’attuale vicenda degli “esclusi” che “escludono” oggi il sindacalismo di base dai diritti sindacali davvero c’è un po’ la “storia che si ripete”. Ti dirò di più – e qui vengo alla parte “propositiva” del mio commento. Sarebbe bello, mi pare, e perché no?, utile, se creando uno spazio apposito nello speciale sul “tempo e la storia”, provassimo a raccontare, tu, io e chiunque si senta di farlo, storie sconosciute di militanti di base, che spesso, nel fuoco della lotta, insieme si batterono e pagarono, al di là delle pur notevoli distinzioni dottrinali, lasciando a noi un patrimonio di incalcolabile valore etico. In tema di “modelli positivi”, siamo oggi ai “verbi difettivi”: quale migliore risposta all’opportunismo qualunquista dei Pansa di giornata?

 Fuoriregistro    - 21-10-2006
Una prima risposta, o narrazione, sta a buon diritto qui e ha un nome: Gabriele Torsello. A buon diritto, nonostante lo sfasamento temporale, perchè Torsello è a suo modo un militante, uno che fa parte "di quella grande maggioranza del popolo italiano che non vuole né la guerra né l'occupazione dell'Afghanistan" (dall'Unità), uno che può farci riflettere sui modelli "positivi" e aiutarci a sbrogliare matasse che appaiono sempre più inestricabili.
Ringraziamo Carotenuto per la sua puntuale denuncia e rimandiamo a Peacereporter per una ricostruzione crediamo attendibile dei fatti.


 gp    - 22-10-2006
(...)"in fondo la vera frattura, alla fine non è tra militanti, ma tra base e vertice (...)"

Questa affermazione è valida (storicamente) fino alla metà degli anni '20 (del secolo scorso). Dopo no. Le cose (ovvero i rapporti personali tra militanti) sono cambiate.

In peggio ... come ho cercato di evidenziare in una, vecchia nota.

Non condivido, inoltre, l'affermazione secondo la quale conosciamo tutto di Togliatti, Longo, Di Vittorio, Vidali (e compagni) ... anche se è vero che - allo stato - non esiste uno studio serio sul PCI: in modo particolare nel periodo storico compreso tra il 1931 - espulsione dei frazionisti Tasca, Bordiga, e Ottorino Perrone - e il 1939: ostracismo - a Ventotene - nei confronti di Umberto Terracini che aveva osato criticare il patto russo tedesco che aprì la strada all'invasione (e alla spartizione) della Polonia e, in ultima analisi, alla Seconda Guerra Mondiale.

Uno studio serio che, forse, non leggeremo mai.

Perché abbisognerebbe - come premessa - il riconoscimento che coloro che sono osannati e "santificati", oggi, in pomposi convegni nei momenti critici hanno dimostrato, nei fatti, di .... "tenere famiglia".

Accolgo, dunque, il tuo invito finalizzato a far emergere dal buco nero della storia personalità come Giuseppe Fanelli, Saverio Friscia, Amilcare Cipriani, Pietro Gori, Francesco Saverio Merlino ...

Mi auguro che vi siano altri disposti a farlo.

Un caro saluto

grazia.

 Bruno Marzano    - 23-10-2006
Questa è la sinistra, ecco qua. E' sempre così, sempre divisa su tutte le cose, però poi in queste condizioni tiene il coraggio di fare le lezioni: ve lo diciamo noi, Pansa è uno che racconta balle. Va bè è facile così, non ci vuole proprio niente, ma poi chi vi crede se non andate d'accordo nemmeno tra voi e state sempre a fare le polemiche inutili? Voi siete due che stanno da molto tempo dentro questa rivista e certe volte siete interessanti, perché scrivete le cose che uno non trova sui libri. E poi i libri sono pallosi. A voi uno vi può leggere perché è chiaro, quando non fate i discorsoni e le polemiche. Abbiamo capito che avete due Spagne, due socialismi, due 1956, ma non fateci le polemiche. Se le sapete le storie che dite, scrivetele. Così perlomeno se discutiamo teniamo qualcosa da dire a quelli che si sentono la messa da Pansa.