Il relativismo è una parolaccia?
Paolo Citran - 17-03-2009

LA (COSIDDETTA) DITTATURA DEL RELATIVISMO

Non mi è proprio piaciuta, di fronte al feretro del defunto papa di Giovanni Paolo II, da parte del cardinale Ratzinger, poi papa Benedetto XVI, la denuncia della dittatura del relativismo, ricondotta alle voglie dell'io: il cardinale Ratzinger, di fronte al feretro del defunto papa Giovanni Paolo II, sostenne che si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie.

Il tema del relativismo, non necessariamente letto come bolsa espressione delle voglie dell'io, da questo momento storico è nel nostro Paese è diventato tema all'ordine del giorno della filosofia filosofata, che trova una materializzazione significativa sia in libri seriosi che in pamphlets irridenti (cfr particolarmente Odifreddi).
L'ineluttabilità del relativismo - o, meglio, del pensiero relativo - non è una novità: quel che vi è di nuovo oggi mi pare il suo essere nell'occhio del ciclone; molti assumono in qualche modo il relativismo come proprio.
Se certamente non possiamo aspettarci da un papa, per di più di quel calibro e con quel passato di capo dell'ex-Sant'Uffizio, una professione di fede da libero pensatore, ci sarebbe tuttavia apparso più "ecumenico" e rispettoso della libertà di coscienza, pur con qualche ondeggiamento affermata dal Concilio Vaticano II, ricondurre tale relativismo piuttosto che alle voglie capricciose di taluni, ad una onestà intellettuale che è troppo facile attribuire al capriccio di qualche Don Giovanni da strapazzo.

SIAMO UOMINI O CAPORALI?

Io credo con il grande maestro Sartre che sia molto scomodo non poter contare su un orizzonte di valori assoluti e definitivi, ma che questa condizione sia inevitabile per chi ne assuma consapevolezza e mantenga la sua onestà intellettuale. Non credo pertanto, come papa Ratzinger, che quel ch'egli chiama "relativismo" sia dovuto - com'egli ha detto - ai capricci di cattivi soggetti.

Io credo con Dewey che i cosiddetti "valori" si collochino in un orizzonte storico-culturale e sociale ed in esso traggano la loro validità - relativa - in quanto e nella misura in cui rendano più ricchi di esperienza, più felici e migliori (e cioè meglio adattati all'ambiente) gli uomini (e più in generale tutti i senzienti) in quel precisamente determinato contesto.

ALCUNI RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI RELATIVAMENTE RECENTI

Risale al 1983 la pubblicazione de "Il pensiero debole" (a cura di Vattimo e Rovatti, edito da. Feltrinelli): è in Italia un evento filosofico-editoriale di notevole rilievo, anche come punto significativo di una mappa del pensiero contemporaneo, che enuncia non tanto una novità assoluta sul piano concettuale, quanto un filone di pensiero imprescindibile., quantunque esprimibile in modi e con sfumature diverse.

A mio avviso, infatti, anche gli antidebolisti (Come Carlo Augusto Viano, in"Va' pensiero: il carattere della filosofia italiana contemporanea", Einaudi 1985), pur polemizzando col pensiero debole, rimangono essi stessi all' interno della logica di un pensiero relativo che non può oggi non caratterizzare un pensiero pensante che non sia dogmatico.
Uno degli esponenti più significativi in tal senso mi sembra essere Marcello Pera (per es. nel volume scritto con Ratzinger, "Senza radici. Europa relativismo, cristianesimo, islam", Mondatori 2004), che propone una sorta di apologia relativista del cristianesimo, di cui fornisce una lettura politico-identitaria, una ripresa della teoria averroistica della doppia verità, che coerentemente dovrebbe far pensare ad un fallibilismo / falsificazionismo come verità razionale superiore alla verità di fede del cristianesimo: Pera non crede nel cristianesimo, ma nella sua utilità politica.

CHE RESTA DEL MARXISMO COME FILOSOFIA?

Evento di marcata valenza simbolica, ma anche filosofica, è la caduta del muro di Berlino (1989), che segna con la fine del socialismo reale una meramente supposta fine del pensiero marxista: ma è la fine di un dogma, non la fine di una filosofia che - seppur a mio avviso giustamente depotenziata dalla postmodernità - mantiene una sua valenza relativa sia come chiave interpretativa di fenomeni storico-antropologici, sia come filosofia dell'utopia e della speranza.
Eppure - non irrilevante notazione didattica - agli Esami Conclusivi di Stato del Marxismo non si parla quasi più, mentre predomina ormai largamente la vulgata di un Nietzsche banalizzato.

L'UOMO PRODUTTORE DI "VALORI" (RELATIVI)

Gustavo Zagrebelsky (in "Contro l'etica della verità", Laterza 2008) da un lato pone il relativismo come correlato della democrazia, un po' sulle orme di Popper - il vecchio maestro di Marcello Pera - ("La società aperta e i suoi nemici, 1945" - edito in Italia da Armando), - il vecchio maestro di Marcello Pera - (dall'altro tende a differenziarlo dallo scetticismo e dal nichilismo. Ci sembra che, all'interno di una democrazia relativista per definizione, includa un ampio spazio per dei valori non assoluti, in grado peraltro di essere ereditati in senso antropologico all'interno di una tradizione, ma anche di essere esistenzialmente decisi in un contesto di scelte non garantite, secondo l'indicazione nietzscheana e sartriana che vede gli uomini come produttori di valori.
Una lettura laica ed antidogmatica del concetto di valore (il quale non è un dato empirico né una proposizione logica, ma un una proposizione normativa / conativa, come tale non verificabile né falsificabile) può portare alla messa in primo piano del concetto di responsabilità (cfr. J.P. Sartre, "L'esistenzialismo è un manismo", 1945 - in varie edizioni per Mursia - , Hans Jonas, "Il Principio
Responsabilità", Einaudi 1990, e più in generale il filone di pensiero esistenzialista, recuperabile oggi dal punto di vista didattico-pedagogico come "personalismo laico" anche attraverso una lettura non teistica del concetto di persona quale si trova nelle "Indicazioni per il curricolo".

LA SCUOLA PER LO SVILUPPO DEL PENSIERO PENSANTE

Se uno dei principali compiti della scuola è quello di sviluppare le capacità di pensiero critico e riflessivo, forse queste riflessioni possono tradursi in un percorso (anche testuale) di filosofia contemporanea e di pedagogia della postmodernità didatticamente interessante, anche con intrecci letterari, storici, scientifico-epistemologici (anche di "Cittadinanza e Costituzione?).

Ma una domanda di fondo va posta: c'è spazio per il dubbio nella scuola dell'autonomia? Dato che nella nostra Repubblica dallo scranno della Presidenza della Camera - sulle orme del papa - si è anche filosofeggiato fuori contesto contro il relativismo culturale?

Quello che mi chiedo, dopo una vita professionale dedicata ad insegnare a pensare, e quindi in primis a dubitare, è se questa nostra scuola (tanto decantata) dell'autonomia sia favorevole al dubitare sistematico avverso al pensiero unico o ad un decisionismo simil-manageriale irriflessivo e senz'anima, piuttosto che ad una colta cultura critica capace di dubbio, che non esclude la decisione, ma la connette alla saggia ponderazione ed alla consapevolezza della propria fallibilità.

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