Umberto I°, Re dei Longobardi
Federico Repetto - 13-06-2002

Umberto Bossi era uno stimato professore dell’università di Pavia, un uomo tranquillo, silenzioso e schivo, dalla vita metodica e regolare: i vicini avrebbero potuto regolare i loro orologi sulla sua passeggiata pomeridiana con l’amato cagnolino. Discendente da un’antichissima famiglia dell’aristocrazia lombarda, fornito di un ricco patrimonio, aveva dedicato la vita allo uno studio della storia del diritto antico e medievale. Tale studio per lui era una professione le cui regole seguiva scrupolosamente: precisione filologica, rigore logico, indipendenza critica, esposizione oggettiva delle tesi contrarie alla propria. Ma era anche una sorta di missione, di sacerdozio laico. Concepiva il diritto come qualcosa che si identifica con la civiltà stessa e con la possibilità di convivenza tra genti diverse. Cogliere lo sviluppo del diritto dalla barbarie originaria e dall’approssimazione delle regole consuetudinarie orali dei popoli è disvelare in qualche modo il segreto della vita sociale. Da ciò la sua passione per i primi documenti giuridici dell’Italia medievale, in particolare per il longobardico Editto di Rotari. In esso la consuetudine germanica è fissata in lingua latina e da faida tribale si trasforma in un ancora embrionale sistema di risarcimento in denaro.
Uomo silenzioso e schivo, equilibrato e razionale, sembrava destinato ad essere ignorato fuori dal mondo delle riviste e dei convegni accademici. Ma il Bossi passò all’onore della cronaca il giorno in cui il suo nuovo bastardino, Fuffi, fu azzannato da un aggressivo cocker spaniel. Tornò subito a casa, con oltre mezz’ora di anticipò, con gran meraviglia del vicinato. La signora Vismate, vicina di casa e grande amica di sua moglie, grandemente turbata dal suo cambiamento di orario, si offerse di curargli il cagnolino. Ma il professore preferiva fare da sé e si precipitò in casa. La moglie, dama rispettabile della migliore borghesia milanese, era a letto con due marocchini e, molto presa dall’impeto della passione, non sentì nemmeno la chiave nella toppa e i passi del Bossi. Costui era un uomo pacifico e non aveva armi, perché preferiva affidare la sua sicurezza a sistemi elettronici d’allarme. Ma aveva in casa la doppietta da caccia di suo padre e delle vecchie cartucce per la caccia al cinghiale. Dopo pochi istanti i due marocchini giacevano a terra cadaveri, e il fatto che si trattasse solo di una doppietta salvò la vita alla signora Usnenghi Bossi e anche alla ruffiana signora Vismate. Compiuto il dupplice omicidio il professore, che non aveva mai vissuto esperienze di violenza, svenne e si risvegliò in uno stato di delirio in una clinica, piantonato dalla polizia.
Da allora il Bossi non riacquistò più veramente la ragione. Anche l’annuncio della morte di Fuffi, dissanguato, datogli inopinatamente da un parente venuto a visitarlo qualche tempo dopo, finì per sconvolgerlo del tutto. Quanto alla signora Usnenghi Bossi, esulò nella Svizzera italiana e il marito non l’avrebbe vista mai più.
La linea di difesa del suo avvocato fu quella della incapacità di intendere e di volere e della momentanea semi-infermità mentale. Dopo un periodo di degenza, in cui non uscì mai dal delirio, egli ottenne gli arresti domiciliari, e rimase chiuso in casa, costantemente assistito da un infermiere, che per ordine del suo avvocato e dei suoi familiari gli avrebbe dovuto impedire il contatto con qualunque estraneo.
Ma un giornalista riuscì ad introdursi in casa sua, corrompendo l’infermiere, e a realizzare un’intervista sensazionale. Si trattava di Umberto Eco, un cronista di “Libero la Padania”, un quotidiano legato al nascente movimento secessionista lombardo. Eco, in conformità al costume giornalistico del tempo, era un uomo senza scrupoli per la verità e per la privacy, al tempo stesso cinico e fanatico, rozzo e, pure, a suo modo, geniale.
E’ difficile sapere che cosa dell’intervista che ne uscì fosse dovuto alla fantasia di Eco e che cosa al delirio del Bossi. In essa tra l’altro erano evocati i tempi della dominazione longobarda in Italia come un periodo di purezza della razza e di fierezza maschile. E’ difficile dire se fu proprio il professore ad inventare l’orribile termine che riferiamo con disgusto: il “celodurismo” (riferito all’organo sessuale maschile). Il Bossi sosteneva la necessità di una difesa della progenie settentrionale contro la commistione con l’immigrazione extracomunitaria, e descriveva la sua epoca come il culmine della decadenza e del disordine, chiamando alla riscossa i discendenti dei longobardi.
Il giorno dopo, per consiglio del suo avvocato, egli smentì il contenuto dell’intervista e accusò il giornale di averlo manipolato. Ma “Libero la Padania” ed altri media indipendenti si affrettarono allora a creare il mito secondo cui questa smentita sarebbe stata imposta dai giudici. Con ciò il Bossi diventò di colpo un eroe popolare.
Condannato in prima istanza dal giudice comunista Umberto Berlusconi ad una durissima pena detentiva in manicomio criminale, in appello vide ridursi notevolmente la sua pena. Ma mentre il professore languiva nell’isolamento del carcere, e la sua psiche subiva un processo di ulteriore degrado, l’Italia, e soprattutto il nord, erano attraversati da un movimento che chiedeva la sua scarcerazione.
E’ difficile oggi capire l’Italia di allora. Il paese di emigranti e di brava gente dei film neorealisti, il paese delle grandi lotte sindacali degli anni settanta e delle marce pacifiste degli anni ottanta era percorso da movimenti di intolleranza e di xenofobia, che tuttavia non riuscivano a trovare una voce politica unitaria. In particolare i gruppetti secessionistici del nord non avevano trovato una leadership convincente, capace di unificarli e di farne un unico grande partito inter-regionale. L’azione della Lega della Nazione Piemontese (NaziPi) di Umberto Borghezio, della Liga Veneta e del Movimento per la Padania Libera (cui apparteneva Eco), per le gelosie dei loro leader e per la scarsa credibilità dell’idea stessa di Padania, rimaneva scollegata e inefficace.
I vari gruppi, che avevano comunque combattuto insieme la cosiddetta crociata per la Padania Cristiana, videro nel Bossi il simbolo della serietà lavoratrice dell’uomo del nord e della sua virilità gagliarda e orgogliosa, e ne chiesero senza mezzi termini l’immediata scarcerazione, cosa però legalmente impossibile. Ci furono disordini di piazza, amplificati dalla grande rete televisiva “L’Occhio della Verità”. Un seguace dell’integralismo nazionalista, ostile al secessionismo nordico, Cicciolino Pannella, iniziò uno sciopero della fame ad oltranza. Le motivazioni di Pannella erano assai diverse da quelle dei padani: egli chiedeva la revisione del processo, sosteneva che i diritti civili di Bossi erano stati violati e gli offriva una candidatura nel suo partito per le prossime elezioni per farlo uscire dal carcere. Il Bossi, lì per lì accettò, colpito anche dalla passione di Pannella per il diritto, ma precisò che egli comunque avrebbe d’ora in poi lottato per la restaurazione del Regno dei Longobardi. Durante la sua permanenza in manicomio, egli aveva ormai costantemente delle visioni: spesso gli apparivano i grandi re Autari, Rotari, Agilulfo, Liutprando e Astolfo e qualche volta anche Teodorico (che peraltro non era longobardo) su di un focoso cavallo nero. Fuffi gli apparve sotto la forma di un veltro da caccia, che possedeva sessualmente la signora Usnenghi Bossi.
Ma se il professore era in preda al delirio, non lo erano di meno le folle dei suoi, che si recarono a sostenere la sua causa intorno al palazzo della presidenza della Repubblica. Dopo alcuni minuti dall’inizio della manifestazione, il presidente Massimo Secondo D’Azeglio, discendente del celebre statista piemontese, uomo coerente, abile e deciso, gli concesse la grazia, in nome dell’unità e della pacificazione di tutti gli italiani.
La follia e il manicomio criminale avevano profondamente trasformato il Bossi: il professore colto e misurato era ormai in preda a manie di grandezza e ad uno sfrenato desiderio di rivalsa. Egli, che amava poco comparire in pubblico, che detestava gli assembramenti, gli spintoni, la gente sudata e le masse vocianti, accettò l’offerta di partecipare alla campagna elettorale del Movimento per la Padania Libera. Egli ora riusciva a trovare toni ed argomenti che portavano le folle al delirio: durante i comizi sembrava preso da crisi di epilessia, gli veniva la bava alla bocca e perdeva il controllo del suo corpo, entrando in una sorta di stato di trance e abbandonandosi a incomprensibili profezie.
Il secessionismo padano aveva finalmente trovato il suo leader indiscusso e i diversi gruppi si federarono nel Partito del Ritorno alla Vera Longobardia (o Lega Longobarda), che raggiunse medie tra il trenta e il quaranta per cento dei voti nelle tre principali regioni. Silvio Craxi, un brillante imprenditore che aveva riscattato le sue origini di palazzinaro immanicato con i vecchi partiti italiani di maggioranza diventando il manager della potente rete televisiva “L’Occhio della Verità”, gli offrì il suo sostegno politico e mediale in cambio della promessa della legalizzazione delle sue reti.
Nacque così la coalizione formata dalla Lega Longobarda e da alcuni partiti di diversa tendenza e in origine contrari alla secessione, i Liberali Liberisti di Craxi, il partito Autoritario Nazionale di Farinacci e il Centro Democratico Clericale del teologo e santo Mario Goretti Formigoni.
Il Bossi nel frattempo amava soggiornare a Pavia più che a Roma e aveva ripreso la sua abitudine alle passeggiatine pomeridiane, ma i vicini non riuscivano a riconoscere nell’ossesso urlante con due doberman al guinzaglio, accompagnato dai gorilla della scorta, il mite professore di diritto di una volta. La signora Vismate comunque aveva cambiato residenza.

Alle successive elezioni la coalizione ottenne la maggioranza nelle tre grandi regioni padane, nel Trentino e nel Friuli, e i suoi rappresentanti proclamarono la secessione e la sovranità dello Stato Longobardo. Si trattava di una secessione all’italiana: proclamata ufficialmente dai consigli regionali, non doveva avere alcun effetto per quello che riguarda quelle branche dell’amministrazione statale la cui scorporazione sarebbe stata troppo costosa e complicata, come le poste e le ferrovie. Il Parlamento italiano, in cui solo una piccola minoranza riteneva che le giunte regionali del nord dovessero essere chiuse d’autorità per aver violato la costituzione unitaria, dopo vari tentennamenti elesse una Commissione Bicamerale per le Riforme Costituzionali (la cosiddetta commissione D’Alema), che concesse alle regioni longobarde la piena autonomia in primo luogo per quanto riguarda il settore dei media, della politica economica e delle questioni riguardanti la polizia, la sicurezza e l’immigrazione, e trasformò l’Italia in una Comunità di Stati Indipendenti (C.S.I.). Oltre al riconoscimento dello Stato del nord, la nuova legge costituzionale, per ispirazione del professor Bossi, prevedeva la donazione della città di Sutri allo Stato della Chiesa (emendamento Rutelli).
Ma mentre il ministero Craxi, eletto dal nuovo parlamento di Milano, procedeva alla deregulation e alla devolution della Longobardia, la mente di Bossi sembrava ormai dominata da altre idee ossessive: egli annunciò infatti di aver scoperto una serie di documenti che dimostrano la discendenza della sua famiglia da Adelchi, erede al trono longobardo ai tempi della discesa di Carlo Magno.
La mente di un pazzo, erudita però da una straordinario conoscenza dei riti e dei miti della nostra storia, aveva concepito un’idea di straordinario impatto televisivo: l’incoronazione con la corona ferrea nella cattedrale di Pavia. Acclamato re dei longobardi a furor di popolo, Humbertus fu incoronato nella cattedrale lombarda dal vescovo di Bologna, che tenne una memorabile omelia sulla cristianità della Padania, ricordando, in un grande affresco storico, gli uomini illuminati da Dio che l’avevano resa illustre, come San Luigi Gonzaga, Cesare Beccarla, Carlo Cattaneo, Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi, San Giovanni Bosco, Filippo Turati, Benito Mussolini e Giovanni Agnelli.

Se la follia di Bossi sembrerà ormai indiscutibile al lettore, va segnalato però che la sua mente seguiva ancora i suoi amati schemi giuridici. Per lui la legittimità dell’antico regno dei longobardi nasceva dal consensus omnium che esso aveva ormai acquistato presso le genti italiche nell’ottavo secolo, dopo circa duecento anni di dominazione sulla penisola, mentre il regime franco, importato d’oltralpe con subitanea violenza da Carlo Magno, era palesemente illegittimo. Humbertus rex Langobardorum proclamò semplicemente il ritorno al regime del diritto longobardo, che, non essendo mai stato legittimamente abolito, era necessariamente ancora in vigore. Ma, data la semplicità geniale del nobile popolo germanico, l’antico ordinamento stabilito nell’Editto di Rotari si adattava magnificamente alle esigenze della moderna società liberista e privatistica.
In effetti l’istituto del Guidrigildo (Widergeld – riparazione in denaro) sembrava perfettamente adeguato alle esigenze della coalizione di governo delle regioni del Nord e alla nuova civiltà globale. Chiunque ferirà o ucciderà o danneggerà nella sua proprietà privata un altro uomo libero, dovrà pagare una somma stabilita dallo Stato alla parte lesa (o agli eredi superstiti). Questo avrebbe reso superflua l’istituzione comunista della magistratura .
Con emozione rileggiamo le parole dell’antico re:
Io, in nome di Dio, Rotari, uomo eccellentissimo e diciassettesimo re della gente longobarda, con l’aiuto divino nell’ottavo anno dl mio regno e trentottesimo della mia vita, e nel settantaseiesimo anno dopo l’ingresso dei longobardi in Italia dopo che vi furono condotti col favore divino da Alboino allora re. Redatto a Pavia nel Palazzo reale...
Citiamo solo le illuminate disposizioni degli articoli 45 e 46.
Delle ferite o dell’indennizzo delle ferite che accadessero tra uomini liberi, si paghi il risarcimento secondo che qui si dispone, cessando la faida, cioè l’inimicizia.
Se qualcuno avrà ferito nel capo un altro, in modo da rompere solo il cuoio capelluto, paghi un indennizzo di sei soldi; se avrà fatto due ferite, paghi dodici soldi, se saranno tre ferite, paghi un indennizzo di diciotto soldi, se invece saranno di più, non si conteranno, e si pagherà l’indennizzo solo per queste tre.
L’idea del Bossi era semplice e geniale: sarebbe stato sufficiente che il Consiglio di Stato dei Ragionieri, Commercialisti e Faccendieri stabilisse i prezzi dei beni privati danneggiati e che le autorità di polizia appurassero i fatti perché la giustizia fosse regolata in denaro nei tempi più celeri possibili. I redditi futuri di chi non fosse in grado di pagare sarebbero stati devoluti alla parte lesa e, se questa fosse in possesso di un’azienda, il colpevole insolvente sarebbe stato costretto a lavorare per essa fino al totale rimborso. L’Ordine degli Avvocati e quello dei Notari plaudirono all’iniziativa.
Un problema interpretativo nasceva però dal fatto che l’editto di Rotari parlava di guidrigildo a favore dei proprietari di servi i cui servi fossero oggetto di danneggiamento. L’interpretazione iniziale del re fu che, non esistendo più l’istituto della servitù, tali articoli non erano applicabili. Ma la Consulta del Regno fu di parere diverso.
Tale consulta, che si affiancava al Parlamento del Nord previsto dalla Commissione D’Alema, veniva eletta dai Veri Longobardi, cioè dai cittadini che avessero tutti e quattro i nonni di origine padana. Essa non aveva poteri molto ben definiti e di fatto era invisa ad una gran parte della popolazione per il suo carattere esclusivo. Anche per questo essa si affannava a giustificare la sua esistenza con gesti demagogici e spettacolari. In questo caso essa propose che la servitù fosse ripristinata e che venissero considerati servi tutti gli extracomunitari presenti nel regno (con l’eccezione dei cittadini degli USA, del Canada, della Svizzera e di un ridotto numero di Stati civilizzati). Essi dovevano essere considerati proprietà del loro attuale datore di lavoro, del locatore del loro alloggio o del loro garante. L’idea era seducente anche per molti padani non autentici.
Tuttavia re Humbertus, nella sua lucida follia, si rese conto che una soluzione del genere avrebbe rimesso in discussione la costituzione della Comunità di Stati Indipendenti e la stessa appartenenza del regno alla Comunità Europea. Rispettoso com’era di qualunque legge, non volle proporre al parlamento padano un provvedimento che violava numerose norme sopranazionali. Propose invece che ogni extracomunitario, che non appartenesse agli Stati più civilizzati, dovesse essere dato in affidamento ad un datore di lavoro padano per cui lavorasse stabilmente (fatta salva la possibilità di tornare al paese d’origine). A quel punto sarebbe stato il padrone a dover essere indennizzato in caso di danni all’extracomunitario.
Ma altre gravi questioni segnarono il regno di Umberto. Il movimento fanatico dei Veri Longobardi, che i suoi deliri avevano contribuito a far nascere, rivendicava il regno longobardo nei suoi antichi confini: erano dunque da liberare l’Emilia, la Liguria, la Toscana, e più a sud i ducati di Spoleto, L’Aquila e Benevento. L’idea era, in un certo senso, quella di riprendere il modello della Grande Israele e di riempire di colonie di Veri longobardi le regioni occupate e longobardizzarle progressivamente. Anche questa volta l’innato legalismo del Bossi scongiurò il peggio: egli era fautore dell’estensione solo consensuale del regno longobardo e si limitò ad invitare i consigli regionali delle regioni interessate ad unirsi nella Sacra Unione Longobarda. Ottenne un cortese ma fermo rifiuto. Solo la minoranza leghista-liberista-clericale della regione Liguria ventilò la possibilità di un’annessione al regno a due condizioni: il pagamento del suo peso in oro a ciascun deputato ligure che fosse favorevole all’annessione e la deviazione del Po o di un suo ramo in Liguria – in tal modo tale regione nello stesso tempo avrebbe potuto dirsi Padania e avrebbe risolto i suoi gravi problemi idrici. A Silvio Craxi le condizioni non parvero convenienti e la proposta non fu nemmeno messa ai voti nel consiglio regionale ligure.
Diverso esito ebbe la proposta della maggioranza filolongobarda della provincia d’Imperia. Guidata da Umberto Scajola, essa propose l’annessione al regno, che avrebbe ottenuto così uno sbocco sul Tirreno, in cambio dell’abolizione perpetua per i comuni rivieraschi di ogni e qualunque piano regolatore edilizio, della non-applicabilità nella provincia del reato di associazione mafiosa e della concessione perpetua senza alcun onere fiscale di dieci nuove case da gioco e di un porto franco – duty free internazionale. La cancellazione del reato di associazione mafiosa in realtà era già nelle intenzioni del governo in carica per tutto il regno longobardo, e tutto il resto fu concesso volentieri, salvo l’esenzione fiscale dei dieci casino. L’affare comunque fu concluso e il presidente D’Azeglio senza por tempo in mezzo firmò la devoluzione della provincia di Imperia al regno longobardo.
A parte il disavanzo di bilancio e la disoccupazione, il regno era ormai un’isola felice, in cui l’industria del cemento e dell’asfalto, l’industria dello spettacolo, le squadre di calcio e l’industria militare (soprattutto delle mine antiuomo e degli elicotteri antiguerriglia) si sviluppavano rigogliosamente.
Un evento tragico avrebbe turbato questo sereno sviluppo: il fanatico nazionalista integralista Cicciolino Pannella, di cui da molto tempo nessuno aveva più parlato, ritenendo la secessione del nord una rottura sacrilega dell’unità italiana, decise di attentare alla vita del re. Sembra che i sevizi segreti del regno, diretti da Umberto Maroni, fossero a conoscenza della cospirazione e ne avessero informato il presidente Silvio Craxi. Per una serie di sfortunate coincidenze, all’ultimo momento i servizi segreti persero di vista Pannella e poterono perquisire solo il giorno dopo l’attentato il suo appartamento all’Hotel Ambasciatori di Pavia, in cui teneva un vero e proprio arsenale, completo di bombe a frammentazione, bombe a mano, bombe a orologeria, bazooka, missili terra-aria e terra-terra e un’incredibile quantità di panini imbottiti e di sigarette.
Quando meno i servizi se lo aspettavano, Pannella si gettò sotto l’auto blindata del re facendosi saltare in aria.
Ma il Bossi non era morto invano. Silvio Craxi, che non aveva mai fatto del secessionismo una questione di principio, poté sfruttare sul piano propagandistico la straordinaria figura morale del defunto sovrano, riuscendo a riunificare la penisola italiana, alla quale poté infine applicare, nella sua totalità, l’illuminata legislazione del regno longobardo e della provincia di Imperia.


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 Lamberto Pignatelli    - 07-05-2006
Certamente di ottima fattura l'impianto ironico narrativo, viziato pero' da mancanza di legittimità e verosimiglianza storica. Se il potere è legittimato dalla Storia, solo i legittimi e diretti discendenti di Re Desiderio sono garanti e tenaci custodi della memoria celtico merolitinga longobarda e normanno sveva del nostro Paese. La mistica litinga di Re Desiderio è assolutamente estranea alle parate del Carroccio. Re Desiderio era il discendente diretto di Dagobert , Costantino, Potior Valens Valentiniano Costanzo, Galla Placida, Re Sacerdote spodestato dalla falsa Donazione di Costantino di Papa Stefano. Bossi tratta l'invisibile sacralità come ortaggi al mercato e stravolge la coerenza storica della semantica dei simboli. I Longobardi diedero il nome alla Langobardia che andava dalla Liguria al Friuli. Di recente la legittima discendente di Re Desiderio ha riproposto la Langobardia del nord e del sud., quale ponte storico tra la cultura celtica e normanno sveva. Re Desiderio non e' morto, vive attraverso i diretti discendenti del delfino Re Adelchi, il cui figlio Re Poto di Castello Puoti o Castelpoto (BN) e Costantinopoli, è capostipite dei Principi Puoti di Heristal Hohenstaufen Plantagenet Canmore Avril de Burey d'Anjou Comneno.Alla brutalita' dei compromessi politici occorre rispondere con la cultura della legalità, dell'ecoprogettualità che impone anche la legittimità e la coerenza dei simboli storici. come puo' definirsi longobardo chi è asservito alla logica del Carroccio, archibugio dell'archeologia dell'avanzante?Occorrerebbe ai tribuni improvvisati proibire di fregiarsi di palinsesti storici e della mistica graalica della regalita' dei Re Sacerdoti e Re pescatori. Altro che leader di "attività improduttive ", di aperture di casinò che celano non il betilo o graal , ma il centro della corruzione e riciclaggio!... Auguriamoci che l'attuale pausa serva a mettere almeno un freno alla banda dei pazzi che stanno solo prospettando la devolution per regalare i ducati e principati ai falsi Re di Mafia..La discendenza di Re Desiderio è nella linea di Federico II ed Isabel d'Anjou Plantagenet che ascende e discende dai Longobardi. I diritti di prelazione non sono negoziabili! Si puo' stravolgere un valore ma non scippare il conio della legittimita'.

Prof Lamberto Pignatelli

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