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  registrazione n.94 del 28.2.1972 presso il tribunale di frosinone
direttore responsabile alfonso cardamone
 



 
il sangue e la storia 
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Roberto Tessari
 
INOPPORTUNAMENTE UNICO E DEFINITIVO
 
Anche se credi alle fate
e tuttavia intagli mostri
sempre più piccoli nel legno...
...resta vero che un dio
non lo puoi inventare:
perché non esiste.
Ma non esistere è il solo privilegio,
e ciò che non sai trovare
ti costringe all'unica ricerca.
(Voltaire non era più obliquo di Colombo,
che scoprì la solita terra sconosciuta
ma preferiva chiamarla col suo nome
di favola stanca). Non possiamo amare
se non riconoscendo al primo sguardo.
Intendo con pupille senza iride:
di quando eravamo ciechi,
prima di un diluvio di sogni.
Prima delle promesse, e dei ragni.
In certe mattine d'inverno
attraversavo il Rodano a Lione
camminando all'indietro sul ponte.
E mi sembrava di averlo già fatto
tanto tempo prima,
con un cuore tutto d'argento squillante.
Ma ritorniamo al dio
che potrebbe essere anche l'incidente
per cui non siamo né un gatto né un rubino.
(Cosa di poca saggezza, ma sicura).
E importante: perché irrimediabile
o più pesante del nostro cervello.
lo, nella natura, sono solo un sospetto:
la disagevole sensazione di rispondere
alla domanda che nessuno ha posto.
Inopportunamente unico e definitivo
come una scelta per noia
(Vero è che mi aggiro sul pianeta
dicendo ALBERO dicendo PIETRA
dicendo COCCODRILLO dicendo MONSONE,
vedendo da tutti i rami da tutte le nuvole
cadere petali di fiori interrogativi).
Eppure il mondo era silenzio lancinante
e frattura di musiche senza spartito.
Poi scoprimmo di essere nudi,
ma questo avvenne tanto tempo fa
che la nebbia mi impedisce di guardarmi i piedi.
Oggi l'inverno salpa verso Occidente,
nondimeno le Grazie danzano ancora
presso il villaggio di Aghighiol
tra il Danubio e il mare.
E indossano i veli di Maia,
trasparenti tanto da bucarti gli occhi.
Così ognuno reca sul volto
minuscoli abissi per cui le dee nude
cadono direttamente sull'anima.
E nuotano per le vene
fin che il sangue non sia una palude
sotto l'astro rovente della morte.
E portano al cuore anelli di sole
o anelli di luna, smeraldi mattutini
o agate crepuscolari (bagliori
che danno impronte incancellabili
nell'iride di ognuno, e l'illusione
di leggere le tue parole stampate
sul volto dell'ascoltatrice distratta).
Non sarebbe comunque compito nostro
criticare le astuzie d'una dea.
Anche perché i ciechi vedono
attraverso le mani. E non è bello
danzare fantasticate tra dita brancolanti.
Né la contemplazione è possibile
senza la luce. E così via
nei labirinti disegnati per il cervello
e per il ventre dell'uomo. (Dentro
siamo mollicci e sierosi: sede
poco adatta a paradisi o inferni).
Pure viviamo nell'esteriorità,
dove è necessario ritornare alle Grazie
affissandoci senza palpebre ai loro veli.
Qui ritroviamo la nostra sconfitta,
perché una veste di fili di vetro
ricorda l'acqua in cui siamo nati.
Tenera armatura: ma abbastanza terribile
da urlare stridula per divieti infantili
quando entri nel bagno e la bambina è nuda.
La trasparenza è il delirio delle lagune.
E non è vero che i suoni non sappiano
vibrare oltre le onde, colmandoci
di sale liquido e bruciante nei pensieri
e nelle orecchie. Strinando
la pelle morbida degli incubi divini.
Così ti viene voglia di sciacquarti le dita
tra le cosce di una vergine.
E ricami parole come IO SONO TRISTE
come SAREBBE BELLO UCCIDERCI INSIEME
come LA TUA BELLEZZA... come IL TEMPO
È UN FRUTTO SBAGLIATO come AMORE,
ANCHE SE È PAROLA DI MUTI.
Intanto stringi tra le labbra un rasoio
che scivola ubriaco sul tessuto di vetro,
danzando sicuro un esercizio obbligato
lungo le ellissi dell'infinito
e del nulla. Certo: sarebbe un inganno...
Certo: sarebbe una violenza. e non potresti
scollare dagli specchi dei bar il tuo
profilo schiacciato tra altri cinque
profili appiccicosi nel ghigno.
...se anche LEI, anche LEI, anche LEI
non ricamasse di stiletto antico
sul velo del silenzio. L'alibi
dell'assassino è l'ineluttabilità della morte,
che gli occhi sbarrati della vittima
rilevano solo con più arte
di quanta sia concessa ai letti d'agonia.
La commedia non esclude il lieto fine
ben che sia tempo di vacanza per il fato.
...anche LEI, anche LEI, anche LEI.
Se non ricamasse di stiletto
sul velo del silenzio... Tu ti sogni
incolpevole come un neonato parricida,
chiuso ridente nei suoi occhi di latte.
Ma quella danza che tentava
la corda troppo tesa del suicida
era implorazione a generare musica.
E quel canto senza voce era lo sguardo
che posava sulla tua desolazione
anche se voltavi la schiena.
Così una tela di ragno palpita stracciata al vento:
mentre i sussurri del demente corrono le vene
che battono alle tempie di due moribondi.
Poi galleggiate nudi sull'onda
di seta dell'eternità che mente
senza volerlo ad ogni nota
della sua ninna-nanna. E l'ascoltate.
Tu scosti ragnatele dal corpo dell'amata:
sulle ciglia vibrate per sospiri di serpenti,
sul petto che si finge armatura più dolce,
sulle gambe che nuotano lungo il vuoto
dei tuoi pensieri, sulla schiena
che si inarca in tesi pendii
(dove non è facile scivolare
verso il lungo segno
d'un torrente di velluto lunare
asciutto: per cui le dita si sciolgono
in rigagnoli d'acqua, e scendono
con immemore lentezza
a precipizi di vertigine inventata).
Tu scosti ragnatele dal corpo dell'amata.
E, intanto, parli con te stesso,
e ti convinci che questo sia necessario
per restituire bellezza alla bellezza.
Eppure basta l'incidente inevitabile
d'un indugio più lungo
dove la conca del ventre spasima per non finire
(o dove un sangue lattiginoso
si alza in colma dolcezza
per guardare con brividi alle stelle)...
Oppure basta seguire con le dita
il contorno delle labbra dischiuse...
Perché i palpiti del vuoto abbiano echi
e pulsazioni inarrestabili dietro le pupille
e il fuoco divampi nella testa
bruciando una statua di Venere
che rovina dal suo piedistallo,
come tu ti lasci cadere ubriaco
sui cuscini dei suoi desideri.
Il lungo epilogo, anche se una luce
rimane accesa, è frenesia di marionette
dietro sipari di velluto rosso.
Più tardi, solo, non aprire il pugno
per staccare nove maschere dal volto:
un'altra ancora è necessaria
(come rifare l'intrico del foulard azzurro
o controllare i bordi della vestaglia),
onde accogliere l'ospite importuno.
"Camminare sull'acqua"
-dice Amleto- "se lo pensi da terra
equivale a presagi di morte"
(e borbotta qualcosa come "Ofelia",
masticando per tabacco biondo
la sigaretta scollata della parodia)
"…ma si tratta d'un viaggio
controvoglia. Che corre verso l'ombra
come ogni avventura.
Solamente che l'ombra -in questo caso-
soffocherà tra pulviscoli d'oro
che sembra difficile ritenere prezioso.
L'atto è (mi sfuggono le parole...).
Oserei definirlo 'razionale'.
Quando la perfezione dell'amore
sarebbe comunque nello scontro
di due chiuse armature (lo pensava
un Poeta d'Autunno) -e le chiome
di Clorinda non all'aura
sparse; anzi chiuse -senza vento-
in un elmo di ferro ben tornito. Ma
non stuzzichiamo l'ascetismo.
Riterrei sufficiente che il signore
sgranchisse sulla sabbia le sue dita
per avere il bilancio della notte
(né oserei augurargli che scoprisse,
addirittura, nel palmo, una moneta).
La sociologia mi annoia. Perciò
restiamo al vuoto. Che sarebbe
unica saggezza ai crampi della mano.
Ed è l'eguale del reggiseno
color di tortora dimenticato
-nuvola e straccio- in un cassetto.
Non sarà uno strascico di tulle;
ma tanto più tenero rimane
quanto più sono ingialliti i denti
della vostra illusione.
(Non dimenticate il teschio, signore!
...per la mia collezione di posacenere
banali)... eppure è meno singolare
che alcune ossa sbadiglino
nell'ospitare fibrille effimere.
Ineffabile saggezza
di ogni apertura...
Ma non della bocca
che protende parole erette nel vento.
Aspirare non è vivere:
agonia vuol dire lotta. Come dire: avere.
Che è ultima sciocchezza nell'alba.
E tanto costa quanto la violenza
di uscire dalla pelle per rubare
il cardellino impazzito di gioia
che canterella al topo la nostra morte.
Finalmente!
...dicevo di aperture spalancate
nascoste da veli trasparenti,
di ali di libellule su schiene di fate
che inventano madrigali senza dediche.
Per cui voi passeggiate davanti alla grotta
come l'ospite atteso mai chiamato.
Ed è questa la sola occasione
per esplorare il giardino. Per salire
i gradini che avreste perduto.
Per scoprire l'òntano e il declivio.
Per sfuggire lontano. Per vedere
-unica volta- la dimora
da oltre il muro che avete varcato
(anche se -adesso- il cancello è aperto,
anche se -voci alte due dita-
invitano il vostro nome
senza sbagliare a pronunziarlo.
anche se)... credete alle fate,
e tuttavia intagliate mostri
sempre più piccoli nel legno.
Eppure resta vero che un dio
non lo potete inventare
perché non esiste.
Ma non esistere è il solo privilegio..."

...e tedio mortale... E cogliere, di sorpresa,
quell'ombra nera nello specchio
con malinconie di ferro avvelenato
ti lascia a far asciugare
-per quanto sia lunga la notte-
una macchia di sangue sullo stomaco.
Mormorando che l'impossibile
non può essere una vela
tanto bianca,
una vela tanto bianca,
tanto bianca,
tanto bianca...

 


 
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Giulio Dello Buono
 
IL PATTO DI SANGUE
Bierce, Crane e la Guerra Civile americana
 
1. Un filo rosso lega la Storia di Soldati (1) di Ambrose Bierce al Segno Rosso del Coraggio (2) di Stephen Crane, opere entrambe intrise del sangue delle vittime della Guerra Civile americana. L'opera del giovane Crane, pubblicata nel 1895 all'età di 24 anni, presto oscurava per fama quella del più anziano Bierce, vincendo così la sfida tra la 'guerra dell'immaginazione' e la 'guerra dell'esperienza'. Mentre Bierce, diciannovenne allo scoppio della guerra, si arruolava volontario nell'esercito dell'Unione, partecipando a tutte le battaglie più sanguinose (3), Crane della guerra "non [...] aveva alcuna esperienza" (4). Compensando questa mancanza di esperienza diretta con una vivida immaginazione supportata dalla lettura dei romanzi di Tolstoj, Crane scriveva un libro che per molti studiosi è rimasto "il libro più valido, più autentico di tutti quelli che hanno avuto per argomento quel conflitto(5)".
Ritornando al rapporto Bierce/Crane, si è sostenuto, non del tutto a torto, che "la raccolta di racconti [di Bierce] dedicati alla guerra di secessione [...] è surclassata dalla densità simbolica de Il Segno Rosso del Coraggio" (6). Paradossalmente, proprio il non aver partecipato al conflitto in prima persona permette a Crane una rappresentazione più vivida, un'azione mossa da passioni più 'vere' di quelle che agitano i protagonisti dei racconti del `cinico' Bierce.
Sia Bierce che Crane giungono, come vedremo, ad una valutazione della guerra molto simile (7), partendo però da premesse diverse. Nei racconti di Bierce, sulla scorta dell'esperienza vissuta, non vi è dialettica; il giudizio di condanna alla guerra è secco, posto a fondamento della scrittura. In Il Segno Rosso del Coraggio le vicende del protagonista rispecchiano le riflessioni dell'autore; il giudizio sulla guerra (e sull'eroismo) non precede la scrittura ma si trae quale conseguenza, come prodotto di un conflitto (coraggio-paura, etc.) interno all'opera stessa. Da ciò i maggiori apprezzamenti verso l'opera di Crane, che appare più sofferta, non fondata come l'altra su un pre-giudizio (nel senso di un giudizio che precede la scrittura) bensì squarciata da un conflitto `in fieri' nell'autore.
Se per resa narrativa la bilancia pende dalla parte di Crane, non si può non notare però una certa affinità tra i due autori quanto a contenuti e simbologia, portando alcuni ad ipotizzare una conoscenza dei racconti di Bierce da parte di Crane; Binni parla esplicitamente di Crane come di un autore pronto "ad ammettere il debito non indifferente nei confronti della narrativa di guerra bierciana"(8). Più che debito, però, ci sembra che i racconti di Bierce, uno in particolare, possono servire a gettare una luce nuova sul romanzo di Crane.
2. La storia de Il Segno Rosso del Coraggio è stata dai più interpretata come un processo di maturazione del protagonista, Henry Fleming: il suo passaggio dal sogno adolescenziale alla "desolazione del reale". A nostro parere questa interpretazione, di per sé corretta, va integrata da una lettura che conferisca pari dignità al tema della guerra, che con quello dell'iniziazione alla vita è fortemente intrecciato, ambedue proiettati sull'emblema rosso del sangue.
La Quest, il processo di iniziazione, si muove su due livelli: da una parte quello della vicenda narrata, con i suoi alti e bassi, le sue prove da superare; dall'altro quello del narratore impersonale, che dà alla vicenda e ai protagonisti la consistenza di ombre.
Per quanto riguarda il secondo livello, punto centrale ci sembra il rifiuto, da parte del narratore, di nominare i personaggi della storia; ciò è sì dovuto alla volontà dell'autore di dare alla storia il tono dell'universalità, definendo i personaggi per la loro età (il giovane), per una loro caratteristica fisica (il soldato alto), per una loro caratteristica temporanea (il soldato dalla voce allegra, quello dalla divisa a brandelli) o definitiva (il morto), dando così alla storia i caratteri di una Morality Play; ma è anche dovuto al fatto che il processo di maturazione è legato ad un processo di individuazione, a sua volta legato ai nomi.
All'inizio del romanzo il narratore descrive l'esercito che emerge dalle nebbie come un tutto, una sola enorme entità:
"II freddo si levò dalla terra con riluttanza e le nebbie, ritirandosi, svelarono un esercito spiegato sui colli, che riposava. Mentre il paesaggio mutava da bruno a verde, l'esercito si destò e cominciò a fremere di impazienza per il diffondersi di voci. I suoi occhi si volgevano alle strade... "[p.1]
Le movenze dell'esercito assomigliano a quelle di un enorme felino ("si destò... cominciò a fremere...") o ad un fantastico drago (come più volte è definito). Il protagonista si sente "una particella di una grande manifestazione in blu", "non un uomo ma un numero".
Da questo sfondo blu si staccano le prime ombre, e dalle ombre i protagonisti del dramma (il giovane, voce sonora) non ancora uomini perché non `provati', reclute; solo tra di loro i personaggi si chiamano per nome, mentre il lettore apprende il cognome del protagonista solo dopo due terzi del romanzo. Il processo di individuazione ha come ultimo termine quello di `uomo', e coincide con la percezione dell'inutilità della guerra.
Da notare, inoltre, che il nome del protagonista, usato con tanta parsimonia in tutto il romanzo, appare ben 11 volte nel breve discorso della madre al figlio in partenza per la guerra "sta attento Henry... non voglio Henry... addio Henry, etc.); ma soprattutto quel "so come sei fatto Henry" ci induce a credere che il processo con il quale Henry acquista la sua personalità di 'uomo' sia preceduto da un processo di spersonalizzazione che ha il culmine nel momento in cui il giovane entra nel `blu' dell'esercito: solo sua madre, col suo ossessivo nominato, sembra conoscere il protagonista, tanto da farci pensare che il processo di iniziazione e di maturazione sia in realtà ciclico, un ritorno alla sua esistenza `definita' precedente all'esperienza della guerra.
Il processo di individuazione che porta il protagonista da `particella' a `uomo' scorre parallelo all'altro livello, quello dell'iniziazione alla vita come una serie di prove da superare, la grande prova, il segno rosso da ottenere.
Henry si arruola sognando "grandi gesta d'armi", credendo di "essere un eroe"; la sua idea di guerra è quella antica, dove l'atto eroico dell'individuo era esemplare, capace di capovolgere le sorti della battaglia con la sola forza del braccio, "con una spada spezzata in pugno"[p.9], guardando il nemico negli occhi e affrontandolo secondo le norme codificate dalla cavalleria. I rimandi ad un passato eroico si ripetono nei primi capitoli: Henry sogna battaglie come quelle degli eroi greci, violente come gli Unni; si ritiene "eccitato in modo irresistibile", preso dal furore del guerriero. Subito, però, dopo la prima esperienza, si accorge che la realtà della guerra è diversa: fatta di sangue e sudore, attese snervanti e lunghe marce, cieca obbedienza ad ordini insensati:
"Dopo trasferimenti complicati, con molte soste, erano venuti mesi di vita monotona in un accampamento. Aveva creduto che la guerra fosse una serie di scontri mortali, con brevi intervalli per dormire e mangiare: invece, da quando il suo reggimento era entrato in linea, l'esercito poco aveva fatto se non starsene quieto e cercare di mantenersi caldo"[p.7].
L'età eroica è finita, perché l'eroe è morto; l'atto singolo di "uomini fidenti all'ombra del suo valore dagli occhi d'aquila" è fagocitato dal blu livellatore dell'esercito moderno (9):
"Battaglie come nell'antica Grecia non ce ne sarebbero state più. Gli uomini erano diventati migliori o più pavidi. L'educazione laica e religiosa aveva cancellato l'istinto di afferrare alla gola, oppure il benessere teneva a freno le passioni. Era arrivato a considerarsi semplicemente una particella di una grande manifestazione in blu"[p.7].
Ciononostante Henry parte alla ricerca della grande prova, la risoluzione "del suo problema"; e "per ottenere una risposta servivano fuoco sangue e pericolo" [p.12].
La grande domanda è: "Come fai a sapere che non scapperai, quando viene il momento?" La guerra per Henry diventa una questione personale, svincolata da ogni legame morale con le sue ragioni, anche perché "gli pareva che nessuno lottasse con un problema personale così tremendo" [p.19]. Dare una risposta alla sua domanda non equivale semplicemente a vincere una battaglia e sopravvivere; così si trova ad "invidiare un cadavere", pur di evitare l'onta del disonore. Da ciò si evince che la sua non è una lotta con il nemico, né retoricamente con `se stesso'. bensì con la morte, "la grande morte che, dopo tutto, era soltanto la grande morte" [p.133].
Nella prima battaglia il suo desiderio di autorealizzazione si scontra con la realtà della guerra, vede che la "grande morte" si incarna in tragedie troppo umane:
"A un certo punto la linea incontrò il corpo di un soldato morto. Giaceva supino, fissando il cielo. Portava goffamente una divisa di bruno giallastro. Il giovane notò che le scarpe avevano la sottigliezza della carta da lettere e che da un grande squarcio in una di esse sporgeva il piede morto. Era come se il destino avesse tradito quel soldato: nella morte si palesava ai nemici quella povertà che da vivo aveva forse nascosto agli amici"[p. 23].
La morte mette a nudo, svela; infatti la fila di soldati si scosta per evitare il cadavere, mentre Henry cerca di leggere "negli occhi dei morti la risposta alla Grande Domanda" [ivi].
Ma la grande guerra è misera anche esteticamente: invece del gesto eroico del guerriero ("Era singolare -commenta il narratore- l'assenza di pose eroiche") Henry osserva spettrali figure contorte "in maniera fantastica".
L'illusione della vittoria lo rende euforico: dopo la prima scaramuccia il sogno di gesta eroiche ritorna, crede di aver superato la prova: "entrò in uno stato di estatico compiacimento". Alla ripresa della battaglia, però, è costretto a fuggire; di nuovo il pensiero va alla sua 'prova': quali commenti avrebbero fatto i suoi compagni all'accampamento? Per un attimo si fa strada in lui l'idea dell'insensatezza dell'intera guerra, nel vedere l'indifferenza della natura a quanto accade:
"[...] Pareva che la Natura non avesse orecchie. Quel paesaggio gli dava sicurezza. Era un bel campo pieno di vita. Era la religione della pace, e sarebbe morta se i suoi timidi occhi fossero stati costretti a vedere il sangue. Egli concepiva la Natura come una donna con una profonda avversione per la tragedia."[p. 46]
La tappa successiva dell'iniziazione è il secondo incontro con la morte, il cadavere di un soldato appoggiato ad un albero, che lo fissa e sembra trattenerlo, interrogarlo:
"Seduto, con la schiena contro un albero simile a una colonna, un morto lo stava guardando.[...] Gli occhi che fissavano il giovane avevano assunto quella tinta opaca che si vede al fianco di un pesce morto. La bocca era aperta e il suo rosso si era cambiato in un giallo orribile. Sulla grigia pelle del viso correvano minute formiche. Una sospingeva una specie di involto lungo il labbro superiore"[p.47?8].
Il cadavere sembra esercitare una attrazione occulta su Henry; il giovane è assorbito dal "suo rosso", è quasi costretto a toccare il cadavere, a innescare il corto circuito tra la vita e la morte. E' in questo episodio, più che in altri, che il giovane comprende la natura del segno rosso, quello nel corpo in disfacimento del soldato. La morte si sveste di ogni significato metafisico, diventa corpo corroso, "cibo per vermi" (101).
Dopo la prima battaglia Henry si incammina con una schiera di feriti e, angosciato dal rimorso per essere fuggito, si trova ad invidiare "quella gran massa di uomini [che] sanguinava": "avrebbe voluto avere egli pure una ferita, un rosso distintivo del coraggio" [p. 54]. Si sente un escluso. Anche il suo amico, il soldato alto, che incontra per strada, è stato più fortunato di lui. Una grossa ferita al fianco ne provoca la morte, il volto teso in una smorfia che è la condanna più brutale della guerra: "La bocca era aperta e i denti si mostravano in una risata. [...] Il cadavere rimase a ridere, là nell'erba" [p. 59?60].
Le domande del soldato con la divisa a brandelli lo mettono in imbarazzo: "Anche tu potresti avere una ferita di quelle strane. Non si può mai dire. Da che parte è la tua?". Le sorti del conflitto non lo interessano più; prova solo vergogna per la sua codardia: non ha nessun emblema da mostrare, niente che dia un senso alle sue azioni.
Per una tragica ironia, una delle caratteristiche più moderne dello stile di Crane, anche Henry trova il suo emblema, ma uno falso, provocatogli da un suo stesso compagno col calcio di un fucile; un falso emblema che gli permette di non sentirsi estraneo a quella "processione di eletti", tutti marchiati di rosso, che si trascinano come spettri. Finalmente il rosso, la sensazione di fresco e di liquido, "le dita umide di sangue", l'ebbrezza slegata da ogni rapporto con l'altro, col nemico: vissuta come dramma individuale (11). È la cruda ferita che gli evita lo scherno dei compagni, quando finalmente li ritrova al limite di un girone infernale. Ritrova anche il suo amico, il soldato dalla voce sonora, anch'egli cambiato. Le sorti della battaglia, di fronte al suo dramma, sembrano di poca importanza; nemmeno si sa con certezza chi abbia vinto:
"- A quanto pare, pensano tutti che li abbiamo attirati proprio dove volevamo. - Questo non lo so - replicò il giovane, - quel che ho veduto laggiù sulla destra mi fa pensare che fosse proprio il contrario. Da dove mi trovavo io, pareva che stessimo prendendo una bella batosta, ieri.
Credi? - domandò l'amico- Io invece pensavo che ieri gli avessimo dato una bella strapazzatina.
- Macché…
"[p. 84].
Il falso emblema reintegra il suo orgoglio, ritorna la fiducia in se stesso: "Era ormai un uomo esperto". Poteva far sfoggio della sua macchia rossa ed elevarsi una spanna su tutti. Sulla base di questa falsa sicurezza, lo scontro successivo lo vede battersi come "un demone di guerra"; i suoi sogni sembrano di nuovo avverarsi. Ma la verità non tarda a venire a galla: anche questa battaglia non è stata che una scaramuccia? Udendo di nascosto un dialogo tra due ufficiali, Henry apprende la scarsa considerazione in cui è tenuto il suo reggimento: una banda di mulattieri. Vengono scelti per un attacco suicida e vi si gettano a capofitto. Sempre alla ricerca del suo emblema, finalmente lo trova: ma non nella gloriosa e individuale ferita, non "sul suo corpo morto [...] squarciato e sanguinante", bensì nel simbolo collettivo della bandiera, "il suo emblema [che], palpitando, volava alto" [p. 127]; vero simbolo del suo coraggio, unico punto fermo nel caos della battaglia (12).
Ma dal finale del romanzo è giusto dubitare circa una reale iniziazione alla vita mediata dall'esperienza della guerra. La guerra si rivela per Henry priva di senso, impossibile da interpretare; dopo il suo gesto eroico, la fermezza del suo emblema, la scoperta che "egli era un uomo", gli eserciti riprendono le loro vecchie posizioni, le stesse che avevano all'inizio della battaglia. Non un metro è stato conquistato.
Atti eroici, morti, nulla porta alla comprensione della guerra; non solo non si riesce a capire chi abbia vinto:
"Oh, se uno venisse a chiedermi il mio parere, direi che abbiamo preso una bella batosta - Batosta! secondo te! Ma noi, figliolo, non le abbiamo prese. Ora ci ritiriamo di qua, poi ci voltiamo e li prendiamo alle spalle"[p. 107].
Rolando Anzillotti si domanda: "Dopo il battesimo del fuoco, abbiamo visto che Henry è maturato, ha imparato a conoscere se stesso; ma è vero questo? C'è stato in lui un sicuro cambiamento?" (13). Se una maturazione c'è stata essa sembra non dovuta all'atto eroico compiuto in guerra, ma alla comprensione della illogicità della guerra stessa. Dopo tanta esaltazione, tanto sconforto, Henry
"Si accorse che poteva volgere indietro lo sguardo sulla pretenziosa verbosità dei suoi principi di un tempo e vederli quali erano realmente. Fu lieto di scoprire che li disprezzava. [...] Era stato vicino a toccare la grande morte, e aveva scoperto che, dopo tutto, era soltanto la grande morte, Egli era un uomo"[p. 133).
Il romanzo si chiude con l'immagine di una natura incantata: "Ora si volse con sete di amante a immagini di cieli tranquilli, prati novelli, freschi rivi: un'esistenza di soave ed eterna pace". II ciclo si è compiuto; il brano finale si riallaccia all'inizio del romanzo, quando Henry osserva sua madre mungere le mucche, sbucciare patate: immagini quotidiane ma dense di significato se contrapposte all'insensatezza della guerra (14). Si ha l'impressione che nulla sia da salvare delle esperienze di guerra se non l'incontro costante con la morte e col sangue. La guerra, "la bestia rossa [...] la dea gonfia di sangue" [p. 24], vero emblema di illogicità e caos (15).
3. A più riprese, nel corso del romanzo, il narratore e vari personaggi stentano a comprendere il senso di quello che stanno facendo: si marcia da mattina a sera "senza un vero scopo"[p. 25]; Henry nota "la mancanza di un piano nei generali" [ivi]; crede di combattere una battaglia definitiva e invece si accorge che "l'episodio sarebbe apparso nei resoconti a stampa sotto un titolo modesto e di poco risalto"[p. 49]; crede il suo reggimento un gruppo di eroi, quando invece è stimato come una banda di mulattieri. C'è da chiedersi se è il protagonista a non cogliere il senso degli avvenimenti, o se sono gli avvenimenti stessi ad essere privi di senso.
Un parallelo con Bierce può essere utile per la comprensione di questo punto centrale del romanzo di Crane: soprattutto il racconto "Chickamauga", il più bello delle Storie di Soldati di Bierce e forse uno dei suoi migliori in assoluto.
A Chickamauga fu combattuta una delle battaglie più sanguinose della guerra di secessione, con oltre 35.000 morti nel giro di due giorni. Bierce ne dà un quadro che compendia tutte le sue valutazioni sulla incomprensibilità della guerra: il racconto narra di un bambino che si inoltra in una foresta per giocare alla guerra; si addormenta e al risveglio si imbatte nella schiera di feriti e nel cumulo di morti provocati dalla battaglia. II bambino non riesce a comprendere l'assurdità di quello spettacolo e alla fine del racconto il lettore capisce perché: il bambino è sordomuto.
L'emblema di Bierce è ancor più truculento di quello di Crane:
"[...] Una faccia priva della mandibola: dai denti superiori alla gola era tutto un grande squarcio rosso con una frangia di brandelli di carne penzoloni e schegge d'osso. [...] La fronte era stata strappata via in gran parte, e dallo squarcio usciva il cervello, traboccando sulla tempia, una massa schiumosa e grigia con in cima dei grappoli di bolle vermiglie ... "(16).
Nel racconto di Bierce la risposta alla domanda che ci siamo posti è fin troppo evidente: la guerra è un caos privo di senso; ma non solo per un bambino sordomuto, già privo di strumenti adatti alla comprensione; anzi, la sordità e il mutismo del bambino sono non già la causa dell'incomprensione, ma l'effetto della guerra, 1'annichilimento totale dell'individuo:
", II bambino mosse le sue manine, facendo gesti frenetici, incerti. Emise una serie di grida inarticolate e indescrivibili, qualcosa tra il chiacchiericcio della scimmia e il gloglottare del tacchino... una voce che faceva trasalire, senz'anima, empia, il linguaggio del diavolo"(17).
Il tema del bambino ritorna anche ne Il Segno Rosso del Coraggio, con tanta insistenza da far credere che Crane avesse preso spunto proprio dal racconto di Bierce (18). Nel corso della narrazione lo scrittore fa spesso ricorso all'immagine del bambino per simbolizzare l'irretimento dell'individuo nei confronti della guerra. Durante la battaglia, il protagonista si trova a lottare "freneticamente [...], per avere aria, come fa un bimbo che vogliono soffocare e che lotta contro le mortali coperte"[p. 34]; quando viene colpito al capo da un suo stesso compagno crolla a terra e si muove barcollando "come un bimbo che cerca di camminare"[p. 71]. Ma anche riferita ad altri personaggi del romanzo la figura del bambino appare centrale: il soldato dalla voce sonora era "come un bambino chiassoso"[...] un bimbo spaccone" [p. 83]; il tenente "pareva un bambino che, dopo aver pianto a sazietà, alza gli occhi e fissa un giocattolo lontano" [p. 112]. E ancora "uno dei feriti aveva una scarpa piena di sangue. Saltellava come uno scolaretto e rideva in modo isterico"[p.51], mentre uno dei prigionieri "si curava una scalfittura a un piedi Se lo coccolava come un bambino" [p. 128].
L'immagine del bambino esemplifica il rapporto del soldato con la guerra, del singolo individuo con la caoticità degli scontri: l'uomo è di fronte alla guerra come il bambino inebetito e farneticante di Bierce. II bambino, però presente in entrambe le narrazioni, non rappresenta l"`anima bella", l'innocenza distrutta dalla violenza, bensì la situazione tipica del soldato: l'irretimento dell'individuo prodotto dal `mostro' che fugge ad ogni controllo del singolo e ad ogni razionalizzazione; il vuoto di senso, le azioni incomprensibili della guerra. Bierce a ciò aggiunge una incapacità ulteriore: il suo bimbo è sordo e muto, assordato dagli scoppi e ammutolito dal bagno di sangue (19).

NO'I'E
1) A. Bierce Storie di Soldati,, Einaudi, Torino, 1976; pubblicate nel 1891, l'autore aveva iniziato a scriverle dal 1885 circa.
2) S. Crune Il Segno Rosso del Coraggio, Garzanti, Milano, 1980. Tutte le citaz
 


 
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Marino Faggella
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LEOPARDI E LA POLITICA - 1
Parte Prima
 
In una lettera del '31 alla Targioni Tozzetti Leopardi, estendendo alla sfera della politica il discorso filosofico, dichiarava apertamente e senza equivoci l'impossibilità di adattare il suo materialismo ai proclami socio - politici dei suoi contemporanei << Credo, anzi vedo che gli individui sono infelici sotto ogni forma di governo; colpa della natura che ha fatti gli uomini all'infelicità; e rido della felicità delle masse, perché il mio piccolo cervello non concepisce una massa felice composta di individui non felici (1) >>; tali conclusioni erano state, comunque, già anticipate in una comunicazione al Giordani del '28 << Considerando filosoficamente l'inutilità quasi perfetta degli studi fatti dall'età di Solone in poi per ottenere la perfezione degli stati civili e la felicità dei popoli,mi viene un poco da ridere di questo furore di calcoli e di arzigogoli politici e legislativi; e umilmente domando se la felicità de' popoli si può dare senza la felicità degl' individui. I quali sono condannati alla infelicità dalla natura, e non dagli uomini né dal caso (2) >>. Tali affermazioni che servono a ribadire il convinto e definitivo approdo di Leopardi al materialismo sottolineano, inoltre, il cosiddetto "progressismo" del poeta . Fino a qual punto l'autore dei Canti fosse ostile e incapace di credere nel progresso umano è una questione che è stata già risolta dal Luporini << In generale si ritiene che Leopardi neghi il progresso e combatta l'idea di esso.Ora questo non è esatto . Leopardi si vale moltissimo dell'idea del progresso, se ne vale anzi in modo immediato e diretto , che sotto molti riguardi lo pone fuori discussione. Egli non solo crede al progresso di elementi particolari del mondo umano, come scienza, tecniche, filosofia, linguaggi, ecc., ma crede a un generale progresso dell'incivilimento , che traversa i cicli di civiltà e barbarie , inteso in un senso assai preciso di un andar avanti (…). Davvero è cosa balorda presentare, in questo senso , il Leopardi come un negatore del progresso ,ossia del procedere storico (3) >>. In effetti , più che il progresso , nel quale pur con qualche riserva dimostrava di credere ( << Gli individui e le nazioni d' Europa e di una gran parte del mondo , hanno da tempo incalcolabile l'animo sviluppato . Ridurli allo stato primitivo e selvaggio è impossibile (4) >> ) Leopardi avversava il cosiddetto "progressismo" dei suoi contemporanei, quella perfettibilità dello stato umano che al contrario Timandro esaltava ( << La condizione umana si può migliorare di gran lunga da quel che ella è, come è già migliorata indicibilmente da quello che fu . Voi mostrate non ricordarvi, o non volervi ricordare che l'uomo è perfettibile (5) >> ) alla quale egli contrapponeva la sua isolata disperazione che l'avrebbe portato fino all'estremo limite del rifiuto d'ogni vita associata. Per capire meglio il rifiuto politico di Leopardi è interessante riferirsi anche ad un particolare della sua vita allorché al Viesseux, che gli aveva proposto nel 1826 di tenere sull'Antologia una rubrica fissa in cui avrebbe potuto flagellare i pessimi costumi del suo tempo, rispose declinando l'offerta e ribadendo la sua posizione antisociale e solitaria << La mia vita (…) è stata sempre, ed è, e sarà perpetuamente solitaria, anche in mezzo alla conversazione, nella quale, per dirlo all'inglese, io sono più absent di quel che sarebbe un cieco e un sordo. Questo vizio dell'absence è in me incorreggibile e disperato (…). Da questa assuefazione e da questo carattere nasce naturalmente che gli uomini sono a' miei occhi quello che sono in natura, cioè una menomissima parte dell'universo, e che i miei rapporti con loro e i loro rapporti scambievoli non m'interessano punto, e non interessandomi, non gli osservo se non superficialissimamente. Però siate certo che nella filosofia sociale io sono per ogni parte un vero ignorante. Bensì sono assuefatto ad osservar di continuo me stesso, cioè l'uomo in se (…) Tenete dunque per costante che la mia filosofia (se volete onorarla con questo nome) non è di quel genere che si apprezza ed è gradito in questo secolo; è bensì utile a me stesso (…) e così mi aiuta a sopportar l'esistenza; ma non so quanto possa essere utile alla società (6) >>.
A dire il vero,quanto alla necessità della vita sociale dell'uomo, Leopardi già a partire dal '21 si era dimostrato abbastanza scettico come dimostra il seguente pensiero del tempo << Il toccar con mano che nessuno stato sociale fu né sarà né può essere perfetto, cioè perfettamente equilibrato ed armonico nelle sue forze costitutive, e nella sua ordinazione al ben essere dei popoli e degl'individui (tutti i savi lo confessano); e che quando anche potesse essere tale da principio (come una monarchia , una repubblica) la stessa assoluta assenza della società porta in se i germi della convinzione, e distrugge immancabilmente e prestissimo questa perfezione, quest'armonia ec. ne' suoi principii costitutivi; non è ella una prova bastante che l'uomo non è fatto per la società (7) >>. Ma dopo l'assoluta acquisizione del materialismo l'autore dei Canti, sostituendo al possibile accordo di natura e società la loro costante e definitiva inimicizia, arriverà prima a sostenere che << la società, spogliando l'uomo in fatto, di alcune sue qualità essenziali e naturali, è uno stato che non conviene all'uomo, non corrisponde alla sua natura (8) >>; successivamente, dichiarando che << l'uomo è per natura il più antisociale di tutti i viventi (9) >> dimostrerà, infin , di non credere più al concetto aristotelico che presupponeva l'idea di una società necessaria ai fini dell'umana felicità (è anche questa l'idea di Dante, per il quale non può essere che l'uomo non sia cive), facendo così registrare il crollo dello stato e la sua sfiducia in qualsiasi forma di organizzazione sociale, definite impalcature entro le quali l'individuo viene ad essere imprigionato.
Per spiegare le ragioni dell'estremo pessimismo sociale e politico dell'autore dei Canti << è necessario rifarsi - come sostiene Battaglia - alle condizioni politiche e morali in cui s'era venuta a trovare la vita pubblica europea e in particolare italiana dopo la Santa Alleanza. Il Leopardi vive in un'epoca che agli spiriti liberi risulta d'involuzione e di depressione. Sono molte le menti che intorno agli anni venti dell'Ottocento hanno perduto ogni fiducia nella storia e nella politica (10) >> La delusione storica di Leopardi che, come si è detto venne maturandosi già a partire dal '19, trovava la sua spiegazione nella delusione dell'intellettuale che opponeva alla crisi storica, politica e morale dei suoi tempi, al naufragio delle certezze romantiche, l'impalcatura del suo sistema di pensiero, quel suo "pessimismo storico" che, pur attaccato e modificato quanto alla religione e agli altri principi filosofico - spiritualisti, sarebbe rimasto sostanzialmente intatto e inalterato fino al termine , almeno dal punto di vista sociologico e politico, con la sua tesi della superiorità degli antichi sui moderni. La convinzione che il cammino dell'umanità, dal mondo antico fino al suo tempo, avesse compiuto un processo tutt'altro che progressivo ( << Il mondo ha marcito appresso a poco in questo stato dal principio dell'impero romano, fino al nostro secolo (11) >> sarà sempre una costante nella sua "filosofia della storia" che al primo momento eroico e vitale, particolarmente energico presso i greci della polis e i romani dell'età repubblicana (la battaglia di Filippi significava per Leopardi la perdita della libertà e l'inizio della caduta dell' << istituto libero >> ), faceva seguire l'età medievale, caratterizzata esclusivamente dalla barbarie. Indi, a partire dal Rinascimento fino alla Rivoluzione Francese, il cammino dell'uomo sarebbe stato in parte rischiarato. In ogni caso la stessa rivoluzione pur prodotta dall'<< errore >> e dalla ritornante vitalità della natura, essendo anch'essa figlia della civiltà dei lumi, significava anche l'inizio di un nuovo e progressivo imbarbarimento che a sua volta sarebbe culminato nell'età moderna, esclusivamente caratterizzata dal trionfo della ragione e dai sui nefasti e distruttivi effetti << non c'è dubbio che i progressi della ragione e lo spegnimento delle illusioni producono la barbarie, e un popolo oltremodo illuminato non diventa mai civilissimo, come sognano i filosofi del nostro tempo, la Stael ec. ma barbaro; a che noi ci incamminiamo a gran passi e quasi siamo arrivati (12) >>. L'idea di una società primordiale incontaminata e della superiorità degli antichi anteriore alla depravazione dei moderni è anche il concetto chiave di un lungo e un po' stucchevole saggio del '21 (esso prende, infatti, diverse pagine dello Zibaldone) incentrato sull'idea della progressiva decadenza del genere umano che il recanatese veniva sviluppando secondo una tale anticlimax: stato incorrotto, stato intermedi, stato corrotto. Il saggio, (abbastanza particolareggiato, richiederebbe un'analisi più puntuale che non rientra nei programmi del nostro discorso) anche se non include l'intero svolgimento del pensiero politico leopardiano, è tuttavia molto importante in quanto, come nota giustamente Luporini, pur seguendo << un concetto vagamente ciclico della storia umana >>, traccia le linee di passaggio fra una forma e l'altra degli stati, che vengono così riassunte e schematizzate dallo stesso studioso << A questa concezione è anche da riportarsi la teoria leopardiana delle varie fasi di passaggio dallo stato naturale alle originarie forme di società, prima instabili, poi stabili, prima unificate dalla monarchia primitiva (che non ha carattere dispotico ma esprime l'esigenza di unità sociale) e poi nel corrompersi dispotico di questa, trovanti un nuovo interno equilibrio nella forma democratica, che corrisponde allo stato di civiltà non ancora corrotta (civiltà media), in cui, come vedremo, natura e ragione partecipano proporzionalmente, e che esprime l'ideale leopardian. Ma la società democratica si corrompe attraverso il sorgere degli egoismi individuali e quindi dell'anarchia, prima fase della barbarie, che è il frutto, quasi sempre, della "civiltà eccessiva", e che partorisce il dispotismo, il quale rappresenta la pienezza della barbarie (13) >>. Seguendo lo schema essenziale del ragionamento leopardiano non è difficile tracciare le linee di quella che per il compilatore di tali pagine doveva essere una società ottimale: uno stato in grado di conciliare le necessità del singolo con quelle dell'intero gruppo sociale, quella forma che, come egli sostiene, << giovando agli interessi di ciascun individuo in quello che hanno tutti di comune, non pregiudichi agli interessi o inclinazioni particolari in quello che si oppongono ai generali (14) >>. Questo modello di società sembrerebbe incarnarsi secondo Leopardi nello stato democratico, il solo capace di conseguire << una certa felicità e perfezione di governo. Uno stato favorevolissimo alle illusioni, all'entusiasmo ec. uno stato che esige grand'azione e movimento : uno stato dove ogni azione pubblica degl'individui è sottoposta al giudizio, e fatta sotto gli occhi della moltitudine, giudice, come ho detto altrove , per lo più necessariamente giusto , uno stato dove per conseguenza la virtù e il merito non poteva mancare di premio; uno stato dove anzi era d'interesse del popolo il premiare i meritevoli, giacché questi non erano altro che servitori suoi, ed i meriti loro , non altro che benefizi fatti al popolo (…); uno stato del quale ciascuno sente di far parte, e al quale però ciascuno è affezionato, e interessato dal proprio egoismo , e come a se stesso; uno stato dove non c'è molto da invidiare perché tutti sono appresso a poco uguali (15) >>. Il fatto è che, anche Leopardi ne era convinto, tale stato ottimale difficilmente si costituisce e, quand'anche esso si realizzi non è destinato a durare. Il problema della difficile se non impossibile conservazione del governo popolare induceva Leopardi ad effettuare un confronto analogico, a dire il vero un po' forzato, fra il regime democratico moderno, lo stato primitivo e quello delle repubbliche antiche che rivela la natura più ideale che reale della miglior forma di governo secondo Leopardi << … in somma uno stato che sebbene non è il primitivo della società, è però il primitivo dell'uomo , naturalmente libero e, padrone di se stesso e uguale agli altri (come ogni altro animale), e quindi moltissimo della natura sola sorgente di perfezione e felicità: un simile stato finché restava tanta natura da sostenerlo, e quanto bastava perch'egli fosse ancora compatibile colla società era certamente dopo la monarchia primitiva, il più con veniente all'uomo il più fruttuoso alla vita il più felice. Tale fu appresso a poco lo stato delle repubbliche greche fino alle guerre persiane, della romana fino alle puniche (16) >>. Quest'ultima affermazione serve a sottolineare, secondo noi, che l'autore dei Canti, più che pensare con positività alla forme repubblicane che si andavano progettando proprio in quel tempo in Italia - alcune, come quella di Mazzini, ben strutturate ideologicamente e sostenute da una concreta base programmatica - tenendosi a distanza dalle ideologie liberali prodotte e pensate dagli intellettuali borghesi del suo tempo, sia per la sua origine aristocratica sia per la profonda influenza esercitata su di lui dall'Alfieri, più che fautore del regime democratico può ritenersi un " libertario". Ma, in ogni caso, passando dai tempi antichi ai moderni, egli era convinto che le cose si erano profondamente modificate in quanto le primitive società , libere e aperte , si erano contratte fino al punto di soffocare con la libertà politica del soggetto la sua stessa vita << Da che il genere umano ha passato i termini di quella scarsissima e larghissima società che la natura gli aveva destinata, più scarsa ancora e più larga che non è (…); filosofi, politici, e cento generi di persone si sono continuamente occupati a trovare una forma di società perfett . D'allora in poi, dopo tante ricerche, dopo tante esperienze, il problema rimane ancora nello stato medesimo. Infinite forme di società hanno avuto luogo tra gli uomini per infinite cagioni , con infinite diversità di circostanze. Tutte sono state cattive; e tutte quelle che oggi hanno luogo lo sono altresì. I filosofi lo confermano (…) non hanno mai potuto , così mai non potranno trovare una forma di società, non che perfetta, ma passabile in se stessa (17) >>. Giunto a questo punto, nulla lo trattiene dal criticare, anzi dal respingere senza distinzione le fondamentali istituzioni governative del suo tempo, forme degeneri e inadatte al bene e alla felicità dei singoli e dei popoli, sia che si parlasse della monarchia assoluta o di quella costituzionale: la prima in quanto degenerazione dispotica dell'ottima organizzazione sociale della primitiva monarchia degli antichissimi tempi, la seconda ritenuta << un'istituzione arbitraria, ascitizia, derivante dagli uomini e non dalle cose: e quindi necessariamente (…) instabile, mutabile incerta e nella sua forma, e nella durata e negli effetti (18) >>. Le conclusioni si trovano precedentemente enunciate nello stesso pensiero, che non tanto deve ritenersi in assoluto una critica ai maggiori artefici del pensiero politico del ' 700, quali Grozio, Lock, Montesquieu,Voltaire etc., quanto piuttosto una recusatio di tutti gli "arzigogoli politici" della sua età irretita dai filosofi << Che saprà fare questa ragione umana venuta finalmente tutta intiera al paragone della natura , intorno al punto principale della società? Lascio gli esperimenti fatti in Francia negli ultimi del passato e nei primi anni di questo secolo. Riconosciuta per indispensabile la monarchia, e d'altronde la monarchia assoluta per tutt'uno colla tirannide, la filosofia moderna s'è appigliata (e che altro poteva?) al partito di puntellare. Non idee di perfetto governo , non ritrovati, scoperte, forme di essenziale e necessaria perfezione. Modificazioni, aggiunte , distinzioni, accrescere da una parte, scemare dall'altra, dividere, e poi lambiccarsi il cervello per equilibrare le parti di questa divisione, togliere di qua, aggiungere di là: insomma miserabili risarcimenti (19) >>.
Quali le cause di una considerazione così negativa della politica e di ogni ideologia che si proponesse di ordinare secondo un disegno la vita comune degli uomini? La storia del suo tempo, la natura della società nella quale egli si trovava a vivere, la personale situazione del recanatese concorsero a fornirgli una visione negativa del vivere comune fino al punto di indurlo a non credere in alcuna possibilità di esistenza associata; convinto com'era che l'uomo fosse per sua natura egoista e proprio per questo non disposto a costruire un'esistenza per il bene degli altri << L'egoismo è inseparabile dall'uomo, cioè l'amor proprio; ma per egoismo s'intende propriamente un amor proprio mal diretto, mal impiegato, rivolto ai propri vantaggi reali (…). Quando dunque questo egoismo è giunto al colmo, per intensità; e quando a motivo dell'intensità, e massime dell'universalità si è levata la maschera (…) ciascuno pensando per se (tanto per sua inclinazione, quanto perché nessun altro vi pensa più e perché il bene di ciascheduno è confidato a lui solo), si superano tutti i riguardi, l'uno toglie la preda dalla bocca e dalle unghie dell'altro; gl'individui di quella che si chiama società sono ciascuno in guerra più o meno aperta, con ciascun altro, e con tutti insieme, il più forte sotto qualunque riguardo la vince (20) >>.
L'amor proprio, definito da Leopardi << l'unico motore delle azioni umane >>, dal quale << derivano tutte le virtù non meno che tutti vizi (21) >> oltre che mal diretto e fonte dell'egoismo proprio dei regni dispotici ed assoluti, potrebbe assumere forma positiva solo ove si trasformasse nell' "amor patrio", che è indispensabile al formarsi delle nazioni. Ma questa non era certamente la sorte dell'Italia del suo tempo, priva com'era di un'autentica società, di spirito pubblico, di unanime opinione e di senso dell'onore: come si legge nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani (1824), ove Leopardi, tracciando un quadro storicamente deformato della realtà italiana dell''800, sottolineava la decadenza di una nazione che non era nazione , in quanto, oltre ad essere senza capitale e cultura, mancava di quel sentimento di unita che la distingueva dalle più moderne strutture statuali << L'Italia è, in ordine alla morale, più sprovveduta di fondamenti che forse alcun' altra nazione europea e civile, perocché manca di quelli che ha fatti nascere ed ora conferma ogni dì più co' suoi progressi la civiltà medesima, ed ha perduti quelli che il progresso della civiltà e dei lumi ha distrutti. Sì per l'una parte è inferiore alle nazioni più colte o certo più istruite, più sociali, più attive e più vive di lei, per l'altra alle meno colte e istruite e men sociali di lei, come dire alla Russia, alla Polonia, al Portogallo , alla Spagna, le quali conservano ancora una grande parte de' pregiudizi de' passati secoli, e dalla ignoranza hanno ancor qualche garanzia della morale (22) >> .
L'autore del Discorso era convinto che la nostra società dell'Ottocento, priva dei fondamenti etici delle altre nazioni, aveva sostituito ai più profondi e autentici valori l'ipocrisia e la pratica esteriore dei riti religiosi , l'abitudine della simulazione e dissimulazione, i vizi di una civiltà che un tempo era stata grande ma che allora sovrapponeva sul volto degli italiani la finzione delle maschere. È anche questo il senso delle parole di Eleandro nel Dialogo di Timandro, dove l'autore dei Canti, precorrendo Pirandello (23), disegnava un profilo veramente desolante della società già massificata del suo tempo << Che si usino maschere e travestimenti per ingannare gli altri, o per non essere conosciuti ,non mi pare strano: ma che tutti vadano mascherati con una stessa forma di maschere, e travestiti a uno stesso modo, senza ingannare l'un l'altro, e conoscendosi ottimamente tra loro; mi riesce una fanciullaggine. Cavinsi le maschere, si rimangano coi loro vestiti; non faranno minori effetti di prima, e staranno più a loro agio. Perché pur finalmente, questo finger sempre, ancorché inutile, e questo sempre rappresentare una persona diversissima della propria non si può fare senza impacci e fastidio grande (24) >>. La mancanza di sincerità, la finzione, l'ipocrisia, divenute parte integrante del carattere degli italiani erano di abitudine i segni più evidenti e più gravi di un inesorabile decadimento dei costumi per cui la loro vita, senza occupazione e destituita di ogni altro nobile fine, appariva ristretta solo al presente e senza la prospettiva di un futuro migliore << Lascio la totale mancanza d'industria, d'ogni sorta di attività, e quella di carriere politiche e militari, quella d'ogni altro istituto di vita e di professione per cui l'uomo miri a uno scopo, e coll'aspettativa, coi disegni, colle speranze dell'avvenire ,rilevi il p regio dell'esistenza, la quale sempre che manca di prospettiva d'un futuro migliore, sempre ch'è ristretta al solo presente, non può non parere cosa vilissima e di niun momento, perché nel presente, cioè in quello che è sottoposto agli occhi, non hanno luogo le illusioni, fuor delle quali non esiste l'importanza della vita (25) >>.
Forse anche a causa di una tale delusione storica , politica e morale , nell'abbozzo dell'Inno ai Patriarchi, Leopardi giungeva a sostenere che la società era figlia del peccato, giacché sarebbe nata allorché Caino vagando per il rimorso e portando con sé la maledizione di Dio, fu il primo a fondare la città. Giunto a tali conclusioni, il recanatese si convinceva definitivamente della caduta di un'altra delle sue fondamentali illusioni: la società, senza fare distinzioni fra quella storica delle origini e quella contemporanea che a questo punto diventavano, l'una e l'altra, fonte di dolore e limitazione dei piaceri del singolo. Nella fase storica egli aveva fondamentalmente congetturato due società: quella moderna prodotta dalla ragione, pertanto negativa, contrapposta a quella delle origini, generata dalla natura e foriera di felicità, illusioni e gioia; ma , pervenuto a queste ulteriori convinzioni, il poeta venne rigettato in un individualismo esasperato e doloroso, quasi ai limiti di un totale anarchismo. A questo punto egli non era disposto neppure a salvare la vita dei primitivi. Infatti nello stesso Inno, parlando dei selvaggi della California in senso tacitiano, concludeva che essi non avrebbero potuto più vivere una volta che la loro pace era stata attaccata dai missionari, avamposto della nostra corruttibile civiltà << Che gran bene, che gran felicità, che grandi virtù partorisce questa civiltà della quale vogliamo farli partecipi , della quale ci doliamo che non siamo a parte? Siamo noi sì felici che dobbiamo compatire allo stato loro, se è diverso dal nostro? o perché abbiamo perduto per nostra colpa la felicità destinata a noi né più né meno dalla natura, saremo noi così barbari che la vorremo torre a quelli che la conservano, e farli partecipi delle nostre conosciute e troppe sperimentate miserie? (26) >>
Giunti a questo limite, prima di arrivare alle conclusioni del discorso , sembra giusto chiedersi se sia possibile fissare in modo definitivo l'ideologia politica di Leopardi. È necessario premettere innanzitutto, recuperando anche ciò che abbiamo sostenuto precedentemente, che, trovandoci di fronte ad un sistema di pensiero quale è quello del recanatese, non è il caso di pensare anche in senso politico a concezioni definitive ; in primo luogo perché le considerazioni politiche di Leopardi furono soggette all'evoluzione storica della sua concezione generale, che, come si è detto, fu caratterizzata, se non proprio da contraddizioni, da non poche oscillazioni. In secondo luogo è da sottolineare la circostanza che, per quanto la politica e la storia avessero nello Zibaldone uno spazio di rilievo accanto alla riflessione più strettamente filosofica ed estetica, tuttavia non può dirsi in assoluto che l' autore dei Canti fosse uno specifico pensatore politico. Anzi, dovendo stabilire in quale relazione stessero nella considerazione del recanatese queste due attività dello spirito umano, è certo che la politica, sia teorica che agita, non fosse da anteporre all'indagine più strettamente storica, come testimonia il noto giudizio annotato nel LI dei Pensieri sul Guicciardini << il solo storico - a detta di Leopardi - tra i moderni, che abbia conosciuto molto degli uomini, e filosofato circa gli avvenimenti attenendosi alla cognizione della natura umana, e non piuttosto a una certa scienza politica, separata dalla scienza dell'uomo , e per di più chimerica (27) >>.
Per quanto la politica non ricevesse molta considerazione da parte di Leopardi (<< …non mi entra nel cervello che la sommità del sapere umano sia nel sapere la politica e la statistica. Anzi …. >> dice nella già ricordata lettera al Giordani) che anzi venisse condannata insieme alla sociologia e alle altre scienze attuali (come testimonia il grido sarcastico di Tristano << Ma viva la statistica! vivano le scienze economiche , morali, politiche, le enciclopedie portatili, i manuali, e le tante belle creazioni del nostro secolo! (28) >> ) e facesse parte di un più generale e complesso sistema di pensiero , non è detto che non se ne possa fare separata considerazione seguendo particolarmente le tappe dell'evoluzione storica dell'ideologia del recanatese.
Cesare Luporini, che fra i primi ha avuto la felice intuizione di riconoscere diversi momenti nella politicizzazione del Leopardi, ha tuttavia trascurato quasi completamente l' orientamento inizialmente reazionario dell'autore dei Canti, forse per collocare definitivamente nell'ombra l'accusa del Croce che nelle Operette Morali aveva riconosciuto << lo spirito angusto, retrivo, e reazionario (29) >> dei Dialoghetti vergati dalla penna di Monaldo. Per quanto Leopardi stesso abbia successivamente smentito la paternità di quel << libro scellerato >>, e si sia scagliato in una lettera del '36 indirizzata al padre contro i legittimisti del tempo che dimostravano di preferire << alle ragioni, a cui bene o male, si può sempre replicare, gli argomenti del cannone e del carcere duro >>, non si può escludere del tutto che nella prima fase della sua vita il giovane, subendo particolarmente l' influenza culturale del padre, non ne subisse, condividendole, anche le idee politiche. È a tutti noto che la prima educazione leopardiana si svolse nell'ambiente di Recanati sotto la guida di precettori e maestri gesuiti, come quel padre Torres che avviandolo alla ricerca dell'unica verità, quella ontologica e teologica, sembra che si proponesse di fare del giovane Leopardi prima di tutto << un perfetto letterato cristiano >>. Giustamente è stato anche indicato il ruolo non secondario che nella prima formazione del recanatese ebbe il padre Monaldo , per quanto << con il suo incontro di caparbietà nobiliare -reazionaria e fondo di " buonsensaio" e di "testa quadra", con una buona dose di prudenza, di ipocrisia, di slealtà >>, fosse come sostiene Binni (30), << una personalità grossolana e piuttosto ottusa. >> Del resto questo era il cibo che passava il convento di casa Recanati , paese della Marca Anconetana situato nella provincia della provincia d'Italia: il nutrimento dei santi dogmi della religione cattolica e la retta filosofia, alla quale si preoccupava di educarlo anche il conte Carlo Antici, fratello della madre ed aggiunta guida morale e spirituale del fanciullo. Pertanto non c'è da meravigliarsi se, a parte l'educazione di un robusto metodo orientato verso la serietà intellettuale, cosa che il giovane ebbe modo di mettere a frutto con acribia negli studi filologici, egli dovette al padre l'iniziale impostazione politica piuttosto dogmatica e conservatrice, in una parola reazionaria. Né poteva essere diversamente in quanto Monaldo << era un aristocratico attaccato ai valori dell'ancien règime, convinto dell'esistenza di una diseguaglianza naturale tra gli uomini e di conseguenza sociale, al punto da pensare che le classi non si differenziano che per i loro abiti, persuaso che ogni progresso politico o sociale non fosse che un'illusione, giacché niente avrebbe potuto cambiare la natura umana >>. (31).


parte seconda

NOTE

1) G.LEOPARDI, Lettere, in Tutte le Opere di G. L, p. 996
2) G. L. cit . p. 862
3) C.LUPORINI, in Leopardi progressivo , pp. 64-65.
4) G. LEOPARDI, Zibaldone, in Tutte le opere di
 


 
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Parte Seconda
 
parte prima

Quali risultati producesse questo " progressismo politico" di Monaldo si può ricavare dall'Orazione agli Italiani in occasione della liberazione del Piceno (1815), ove il giovane Leopardi, assumendo una posizione diametralmente opposta a quella esemplata dal Manzoni ne Il proclama di Rimini, si scagliava contro la rivoluzione francese e, dimostrando inoltre di non credere nell'unità d'Italia, arrivava a sostenere che la felicità degli italiani dipendeva solo dal ritorno sul trono di quei sovrani precedentemente spediti a casa da Napoleone. È risaputo che la polemica contro la rivoluzione e l'idea fondamentale che l'ordine sociale fosse garantito esclusivamente dalla monarchia tradizionale erano i capisaldi del cosiddetto cristianesimo reazionario, l'ideologia nata nel clima della Santa Alleanza. È comprensibile, pertanto, la ragione che spinse il giovane nel '17 a volgere le spalle a questo mondo e alle idee che esso incarnava dopo l'incontro con il Giordani, il quale orientandolo in una direzione politica opposta, lo innamorò dell'Italia. Di lì a poco si sarebbe estinta progressivamente in lui, insieme con le idee reazionarie, finanche la fede religiosa che pure era stata così ardente nell'infanzia, ma che ora, dando inevitabili segni di cedimento, apriva la strada ad un vitalismo di tipo sensista che, combinato con un naturismo di origine classica, il giovane Leopardi della fase storica si preoccuperà inizialmente di accordare con la fede, ma che in seguito, a partire dal '22, l'avrebbe condotto ad abbracciare un materialismo-meccanicismo di tipo estremo, l'idealità che avrebbe sostenuto fino in fondo la visione della vita leopardiana.Già dal '20, tempo della sua seconda e più profonda politicizzazione, Leopardi, contrapponendo - come sostiene Luporini - << popoli e governi, nei suoi pensieri dello Zibaldone guidati dai princìpi (…) di libertà e uguaglianza, considerati inseparabili (32) >>, dopo l'incontro con il Giordani, condividendone le idee nazionali, aveva messo da parte le idee reazionarie per approdare ad un credo che abbiamo già definito più libertario che democratico. In seguito, a causa della progressiva radicalizzazione del suo pessimismo storico e ad una totale sfiducia nei riguardi di ogni teoria politico-filosofica, squalificando ogni forma di governo, era giunto ai limiti dell'anarchismo, come testimonia la nota successiva dello stesso Luporini << Il potere sia concentrato sia decentrato (si premura di precisare a questo punto), è inevitabilmente sempre uguale ad abuso di potere, per una specie di legge di natura (…).Questo resta per Leopardi il male che gli uomini si procurano da se stessi. La sopraffazione degli individui da parte di altri (e Leopardi vuole che non si dimentichi che le masse sono sempre composte di individui, e sopra la infelicità di questi non si edifica nessuna pretesa comune felicità (33) >>.
Ma, giunto ai termini estremi dell'anarchismo, come dimostra l'abbattimento dell'idea stessa dello stato, il pensiero di Leopardi non vi si arenò, non si fermò all'ultimo approdo; ma, questo è il segno della sua vitalità, di quell'agonismo eroico di estrazione romantica sul quale ha giustamente insistito il Binni ( << Ciò che caratterizza la personalità leopardiana è un impegno appassionato, "eroico" per il suo strenuo bisogno e coraggio di intransigenza intellettuale e morale, che porterà il Leopardi ad impostare ed esaurire fino in fondo - con l'ausilio di una mente vigorosa e implacabile - successive posizioni ed esperienze che riprendono la grande eredità del pensiero settecentesco rinnovandola alla luce della problematica primo-ottocentesca. >> che lo portò ad essere mai pago e sempre alla ricerca di rinnovate soluzioni, fino al solidaristico e finale appello della Ginestra. Molto si è discusso sulla natura del messaggio leopardiano contenuto nella Ginestra che ha fornito ampio dibattito ai critici di ogni estrazione, particolarmente a quelli di scuola marxista, i quali hanno insistito un po' troppo, e secondo noi a sproposito, sulla natura politica del messaggio stesso fino a fare del poeta dei Canti un anticipatore del pensiero socialista. Lo stesso Luporini, pur avendo analizzato a fondo nei sui studi il pensiero politico di Leopardi rischiarando molte zone d'ombra, nel parlare della Ginestra non può vincere la tentazione di assimilare l'originale idea del solidarismo universale del poeta all'egalitarismo dei seguaci di Marx ( << Non sono pure fantasie poetiche: v'è il presentimento del socialismo, della Società delle Nazioni, dello "stato scientifico", di tanti problemi e di tanti ideali che affannano già oggi l'umanità (35) >> ) fino a sottolineare nelle conclusioni, pur ribadendone la specificità, la natura progressista del pensiero leopardiano << …dunque il Leopardi fu un pensatore progressivo (…) il più progressivo che abbia avuto l'Italia nel XIX secolo (36) >>. Più corretta appare, a nostro giudizio, l'impostazione critica di Asor Rosa, le cui considerazioni finali sul messaggio della Ginestra risultano una chiara smentita del progressismo politico di Leopardi, non fosse altro perché progressismo e pessimismo fra di loro ripugnano << Per l'esatta determinazione di questo punto, diventa allora probabilmente un errore di prospettiva andare alla ricerca del messaggio leopardiano di ciò che in altri termini, il Leopardi avrebbe inteso insegnarci sotto il profilo ideale, morale e magari politico (37) >>. A proposito del profetico annuncio della Ginestra si può a questo punto concludere che l'idea della << social catena >>, per nulla contraria alla posizione anarchica di Leopardi, è una catena , come nota, e qui giustamente, Luporini, non << lega e costringe >> come quella dello stato, ma << che salda chi fraternamente collabora >>.Essa, infatti, non ha nulla a che vedere col politico contratto sociale, che pur sempre stringe gli uomini con i suoi obbliganti nodi, ma scaturisce dalla necessità di un'alleanza comune dei viventi non più l'uno contro l'altro armati a causa del loro egoismo di origine sociale ma per amore alleati in una specie di solidarismo internazionale che fa dimenticare le guerre nazionali che nascono dall'odio per lo straniero ( ritenuto altrove da Leopardi una specie di amor proprio ben diretto ) sostituite e superate dalla guerra universale e stellare che li vede opposti non più fra di loro ma contro a << quella che veramente è rea, che de' mortali è madre in parte ed in voler matrigna >>, alla natura, la vera e reale nemica degli uomini, chiamati a raccolta dalla << nobile natura >> del genio del poeta che

Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune …. (38)

Cade in tal modo quell'accusa di misantropia di Timandro che, nel dialogo omonimo, in un secolo << dedito sopra tutto alla filosofia >> non sapeva darsi pace dell'odio inspiegabile del poeta verso gli uomini che Eleandro confessava al contrario di amare << Sentite, amico mio. Sono nato ad amare , ho amato, e forse con tanto affetto quanto può mai cadere in anima viva (39) >>.
Tali conclusioni , che a Timandro apparivano contradittorie, saranno chiarite successivamente da Leopardi in un pensiero del '29 ( << La mia filosofia, non solo non è conducente, come può parere a chi la guarda superficialmente, e come molto l'accusano; ma di sua natura esclude la misantropia, di sua natura tende a sanare, a spegnere quel mal umore, quell'odio, non sistematico, ma pur vero odio, che tanti e tanti, i quali non sono filosofi, e non vorrebbero esser chiamati né creduti misantropi, portano cordialmente a' loro simili (40) >> ) che dimostra, ove ce ne fosse bisogno, che la visione della vita leopardiana non si chiuse mai in un pessimismo assolutamente rinunziatario, ma fu sempre pervasa dalla necessità di non cedere alla natura, di affermare contro di essa la nobile dignità dell'uomo innocente eppure condannato al suo inesorabile destino di sofferenza, di distruzione e di morte. Questa è la verità, il vero tragico assoluto: l'unica conclusione dell'esistenza assurda dell'uomo e delle cose è il nulla. È una verità che in nessun modo potrebbe essere elusa, neppure affidandosi ad illusorie consolazioni di natura politico-religiosa come facevano i << Nuovi Credenti >>del suo secolo, contro i quali egli appuntava gli strali del suo unico e necessario << verace sapere >>. Pertanto se Eleandro, rimanendo incompreso, viene descritto come un misantropo da quelli che lo circondano, egli al contrario sostiene di amare i suoi simili proprio perché, in un'epoca caratterizzata dalla simulazione e dalla falsità delle maschere, non nasconde la verità, anzi ha l'ardire di gettare loro in faccia quel vero che il poeta-filosofo, diverso dagli altri uomini comuni e dotato di una straordinaria capacità di vedere, è riuscito a cogliere nella sua tragicità per comprenderlo tutto. È una verità di fronte alla quale qualsiasi individu, anche il più forte e capace di resistere, sarebbe schiantato. Non così accade a Leopardi, come dimostra Tristano nell'omonimo dialogo, il quale dopo aver testimoniato all'Amico la certezza della sua infelicità ( << sono infelicissimo; e tale mi credo; e tutti i giornali de' due mondi non mi persuaderanno il contrario (41) >> ) pur non conoscendone le cagioni, conclude << …vi dico francamente, ch'io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il capo al mio destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri uomini; e ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità, con quanta credo fermamente che non sia desiderata al mondo … (42) >>. Tristano, portatore delle idee del poeta, è <>che senza cedere o venire a compromessi col destino desidera piuttosto la morte che la schiavitù; non diversamente dall'<< uomo libero >> di Amore e morte che, guardando in faccia alla morte, ha il coraggio di gridarle << Me certo troverai , qual si sia l'ora / che tu le penne al mio pregar dispieghi, / e renitente al fato (43) >>. C'è un luogo dello Zibaldone nel quale Leopardi distingue gli uomini in tre categorie in base alla loro capacità di cogliere il valore dell'esistenza e di leggere nel mondo << Ci sono tre maniere di vedere le cose: l'una è più beata, quella per i quali esse hanno più spirito di corpo e voglio dire degli uomini di genio e sensibili, ai quali non c'è cosa che non guardi all'immaginazione e al cuore, e che trovano dappertutto materia di sublimarsi e di sentire e di vivere un rapporto continuo delle cose con l'infinito e con l'uomo, e un vita indefinibile e vaga, insomma di quelli che considerano il tutto sotto un aspetto infinito e in relazione con gli slanci dell'animo loro. L'altra, la più comune, di quelli per cui le cose hanno corpo senza avere molto spirito, e voglio dire degli uomini volgari (…) che senza essere sublimati da nessuna cos , trovano in tutte una realtà e le considerano quali appariscono e sono stimate comunemente (…) La terza e la sola funesta e miserabile, e tuttavia la sola vera, di quelli per cui le cose non hanno né spirito né corpo, ma sono tutte vane e senza sostanza, e voglio dire dei filosofi e degli uomini per lo più di sentimento, che dopo la esperienza e la lugubre cognizione delle cose, dalla prima maniera passano di salto a quest'ultima senza toccare la seconda, e trovano e sentono da per tutto il vuoto e la verità delle cure umane e dei desideri e delle speranze e di tutte le illusioni inerenti alla vita per modo che senza esse non è vita 44) >>.
Non si fa fatica ad indovinare, a proposito di quest'ultima maniera, che Leopardi pensasse proprio a se stesso. Egli era convinto che il poeta, uomo di genio, si distingue da ogni uomo volgare per il possesso di << un'ultrafilosofia >>, che non è altro che una superiore capacità di guardare dall'alto la nullità della vita e delle cose senza inorridire ( << l'uomo caldo di entusiasmo, di sentimento, di fantasia, di genio, e fino di grandi illusioni, situato su di una eminenza, scorge d'un occhiata tutto il laberinto, e la verità che sebbene pungente non se gli può nascondere (45) >> ) e di comunicare agli altri col canto questa tragica scoperta: << Nobil natura é quella / ch'a sollevar s'ardisce / Gli occhi mortali incontra / Al comun fato, e che con franca lingua, / Nulla al ver detraendo, / Confessa il mal che ci fu dato in sorte (46) >>. Ma la poesia leopardiana, anche quando canta il nulla e l'infelicità non induce mai alla disperazione assoluta non fa pensare alla morte, ma contiene in sé una forza attiva e creatrice che , se pure non salva l'uomo dalla dissoluzione e dal niente, serve a consolarlo, come si ricava dalla seguente affermazione del poeta << Hanno di questo proprio le opere di genio, che, quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l' inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad un' anima grande, che si trovi in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggiamento della vita o nelle più acerbe e mortifere disgrazie, (…) servono sempre di consolazione, riaccendono l'entusiasmo … (47) >>. Per Leopardi, dunque, la poesia presuppone sempre e comunque la filosofia in quanto << il poeta e il filosofo nonostante tutto e contro le apparenze dispongono dello stesso "teorein", dello stesso modo di guardare (48) >>; soprattutto per questo gli era possibile formulare la seguente originale identità: come le grandi verità non possono essere scoperte dalla ragione senza entusiasmo di tipo poetico, così non sarà mai poeta perfetto chi non partecipi in qualche modo della natura e delle facoltà del filosofo.
Alla luce di queste ultime considerazioni risulta più giusto, per ribadire la particolare natura della grande poesia del recanatese , nella quale singolarmente si identificano sentimento e ragione , storia d'anima e storia d 'intelletto, orientare in altra direzione la ricerca del cosiddetto" progressismo " di Leopardi, sottolineando piuttosto le straordinarie capacità profetiche di esso: di presentarsi, cioè, quale essenziale strumento di sopravvivenza dei più alti valori della vita dell'uomo, di quelle virtù (tra le quali riconosceva un'immensa varietà e gradazione) che con altra parola generalmente egli definiva illusioni: << Non c'è maggiore illusione, ovvero apparenza di piacere, che quello che deriva dal bello dal tenero dal grande dal sublime dall'onesto. Laonde quanto più queste cose abbondassero, sebbene illusorie , tanto meno l'uomo sarebbe infelice (49) >>.
Nell'ultimo tempo della storia, allorché gli uomini saranno affidati per sopravvivere all'opera profetica di un genio poetico, ad una società giusta saranno necessari i più sublimi e resistenti di questi "enti immaginari": l'amore , l'onestà, la rettitudine, la giustizia, la pietà, la probità, figlia legittima delle prime. Questi valori, indispensabili per rifondare qualsiasi società, sono anche il necessario alimento della poesia. Essi, come nota Severino, costituiscono << l'ultimo respiro della vita prima di andare nel nulla. Il respiro del genio chiude la vita e fa rifiorire per l'ultima volta le grandi illusioni (50) >>. Alla fine della storia, al termine della vita c'è la morte, la distruzione, l'annientamento di questo nostro mondo violento, crudele e senza senso; ma al disopra di questo tragico assoluto del nulla rimane l'arte , sopravvive la poesia per non morire del tutto. Per questo il pensiero poetante di Leopardi che è capace di attingere tale verità ha bisogno anche del falso. Questo è anche il punto in cui Leopardi s'incontra col pensiero di Nietzsche, il più grande profeta del nulla del XX secolo: << Noi abbiamo bisogno della menzogna per vincere questa "verità", cioè per vivere (…)L'uomo deve essere per natura un mentitore, dev'essere prima di ogni altra cosa un artista(51) >>.
Non diversa è la posizione di Pirandello, un altro moderno profeta delle illusioni, che nell'ultima sua produzione, quella del "teatro dei Miti", analogamente a Leopardi ha elevato al di sopra delle ceneri del mondo il messaggio dell'arte, la sola virtù che con i suoi " enti immaginari" ha la capacità di salvarci dalla distruzione e dalla morte. Anche l'autore de I Sei Personaggi, contemporaneamente testimone e vittima del crollo di una società che rovina con tutti i suoi valori, senza perdere la speranza negli uomini, poco prima del caos ha affidato non ai paralogismi del suo filosofare ma alla trasmissione mitopoietica de I Giganti della montagna (1936) la fede nelle più autentiche e incorruttibili virtù dell'uomo, destinate a sopravvivere al naufragio della nostra civiltà. Non c'è altro rimedio per superare il nichilismo se non quello di affidarsi alle illusioni, che sono destinate a sopravvivere oltre la morte, finché l'uomo avrà speranza nell'uomo piuttosto che nei sofismi della ragione. Questo è il senso del seguente pensiero leopardiano che certamente anche Nietzsche e Pirandello avrebbero sottoscritto: << O la immaginazione tornerà in vigore, e le illusioni riprenderanno corpo e sostanza in una vita energica e nobile, e la vita tornerà ad essere cosa viva e non morta, e la grandezza e la bellezza delle cose torneranno a parere una sostanza, e la religione riacquisterà il suo credito; o questo mondo diverrà un serraglio di disperati e forse anche un deserto (52). >>

NOTE

32) C. LUPORINI, cit. p. 121
33) C. LUPORINI, ibidem .
34) V. BINNI, cit . p. 8-9
35) C. LUPORINI, cit. p. 101
36) C. LUPORINI, ibidem , p 102 .
37) A. ASOR ROSA, G. Leopardi, in Sintesi di storia della lette
 


 
il sangue e la storia 
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Roberto Miele
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PADRE MIO BENEDETTO
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Con Padre mio Benedetto, secondo racconto di una Trilogia, cui già appartiene il precedente Bertramka, si precisa, con non poche difficoltà, e pure in modo quasi ineludibile, il progetto presiedente al percorso letterario di Matilde Tortora. Un progetto difficile da aggettivare, così com’è in agguato sulla soglia delle pagine, prossimo a tradire le più ardite speculazioni, testimone del proprio disincarnarsi, di una stilizzazione semantica dalle cui ceneri poi rinascere, come la Fenice, e così estinguere ogni lettura disaccentata.
Riemergono, dunque, le cose di allora, i motivi di un’opera aperta: le suore (già apparse in L’icona), ‘o Ndrione (e della “cammorriata” c’è traccia nello stesso racconto) e Benedetto Croce (I dintorni scarlatti); riemergono, ma ricomposte, alcune ragioni stilistiche (e si confronti, in merito, la prosa di Pane e lapilli).
Così Padre mio Benedetto si snoda nell’arco di quindici paragrafi geometricamente polittici, a guisa di origami (e occorrerebbe al fine una “manata di colla e semmai anche un bel paio di spillette”), tali da esaudire, ultimata la lettura -ma, a ben vedere, quando finisce la lettura?-, una figura poliedrica in equilibrio sul filo sottile della memoria, nutrice cui l’io narrante si affida, dall’inizio, sviluppando il tema dell’orfanità, alla fine, dichiarando la paternità acquisita di Croce, ispiratore e destinatario del racconto.
Cinquant’anni di storia privata, dal viaggio a Napoli, a seguito della morte del padre (appunto l’estrusiva euritmia biografica), al bancolotto di zia Lucia e zio Guglielmo, al Brefotrofio, alla biblioteca, per curare il carteggio inedito di Benedetto Croce (emblema oltretutto teoretico –laddove si evoca il rapporto storicistico tra autore e opera-), rendendo però sempre minimo lo scarto tra puro dato auto-biografico (nell’ambivalenza dettata dal potere della descrizione connotativa) e memoria, tra storia e letteratura.
Dialettica accordata inoltre di agrodolci corrispondenze: oltre a quella suddetta, la seconda grande corrispondenza verte sul tema del viaggio, da Pagani a Napoli, dalla prevedibile immanenza della storia all’imprevedibile trascendenza della letteratura –ed ecco dunque la specificità del timbro paratestuale, quasi si trattasse di una preghiera votata all’attesa dell’esaudibile-; nonché quelle che potrebbero essere definite corrispondenze funzionali, organizzate sull’esempio dell’analogia e dell’associazione: così, gli scanni del treno/del bancolotto/del traghetto impresso nella fotografia; l’articolo apparso su “il Mattino” e l’impostura del membro arrabbiato; la riggiòla/le mattonelle decorate; la trama del film di Truffaut, che da il titolo al dodicesimo paragrafo, con l’esordio del paragrafo decimo; l’acqua dei fiori e i nomi dei commenti antichi; per annoverarne solo alcune; tutte contenute in quella ipertestuale di questa scrittura dal carteggio inedito di Croce.
Ad imbastire tali corrispondenze intervengono i caratteri tipici dell’oralità, salvo utilizzare il discorso indiretto, comunque marginale, per tutti gli altri personaggi passati in rassegna (si noti a proposito la presenza fantasmatica di Diego); mantenendo quindi uno stile “basso” o umile, se si preferisce –secondo tutti i crismi del monologo interiore, della confessione, da ché si tratta appunto di un carteggio nel carteggio, di una voce dalla voce, di un’eco dedicata al lettore modello- che struttura l’intrigo, lo attraversa e scompagina.
Il tono minimalista dello stile, equivalente letterario di un ingenuo disincanto del tempo, sostiene quasi tutte le riflessioni che attraversano e fanno da collante al racconto -così a pagina 21 “nel bianco opalescente o nell’oscurità della camera cranica si pensa?”, a pagina 31 “E da che cosa mai ci ripara la scrittura…?”-, cui fa da contrappunto qualche squisito adagio -a pagina 50 “o, a volte, in mancanza di altro (non volendo altro) stringerselo al petto un libro e ripeterne le cadenze, fare col nostro petto da cassa di risonanza a pigolii di passeri, scricchiolii di arbusti spezzati, sporcarci le mani e il petto di nerofumo, delle impronte di un inchiostro che fu fresco e sempre da allora serba il ricordo del fresco”; a pagina 51 “non sarà che noi vezzeggiamo solamente le cose che non faremo (e ci sentiamo in colpa di non farle) e le persone, che già abbiamo smesso di amare?”, e poco più avanti “forse anche un libro, proprio come accade nei riguardi di una persona in carne ed ossa, bisogna amarlo, per rivolgergli parole, che non siano né diminutivi, né vezzeggiativi, ma parole intere e che abbiano un proprio capo, un proprio corpo e anche (se è il caso) una propria coda”-, e non è solo un caso la centralità della problematica meta-letteraria di tali riflessioni.
Per quanto concerne il ritmo di questa che potremmo definire una prosa incline alla biologia del senso, bisogna evidenziare la predominante ipotattica della sintassi, in cui la principale è retta e distingue chiaramente le subordinate, tant’è che laddove l’intreccio si infittisce queste vengono contraddistinte con chiarezza da una ripresa anaforica ovvero omeoteleuta, a secondo dei casi, della principale (e la reiterazione pronominale del che relativo -per l’estenuante esordio delle reggenti- e dei personali, nonché del polisindeto –tuttavia trasfigurato-, assolvono a questa funzione di raccordo), salvo poi redimere l’impasse di questa contrattualità sintattica a vantaggio di uno slittamento del valore della principale a quello della subordinata, come in un caleidoscopio (e non turbino -ovvero si chiamino pure in causa Swift e Joyce- gli indizi dunque offerti dagli anagrammi, non solo onomastici, presenti dal secondo paragrafo in poi).
“Padre mio Benedetto” traduce così l’inespresso inficiante qualsiasi dichiarazione di amore. Un riscatto tanto sofferto quanto improvviso, contraddistinto comunque dalla presenza indelebile di quella ferita che sigilla l’opera, a sancirne l’ennesimo patto, l’ennesimo segreto condiviso.
 


 
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Massimo Silvestri
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SUL BORDO DI UN ALTRO INFINITO
 
nessuno ti vide volare
con le ali di cera
di conchiglie e piume
tra gli sciami d'istanti
tra gli increduli eventi
e su un piano infinito
in combinazione di forze
nelle forme indecise
nessuno ti vide
tra i cicli di origine e fine.
nel vuoto di un cono di luce
tra gli dei singolari che vissero lì
nella materia assenti
al dolore della tua gravità
tra gli universi in fuga
ormai stanco nessuno ti vide
a ritroso nel guscio del tempo.
ombra bizzarra di Icaro!
con le tue ali di cera
di conchiglie e piume
nessuno ti vide volare
e dove più remoto è lo spazio esterno
e dove l'assoluto regna nessuno ti vide,
nessuno ti vide dove regna l'altrove.
 


 
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Mario Amato
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QUESTA E' LA CITTA CHE A LUNGO
 
Questa è la città che a lungo
Ho amato
Qui scrissi la mia prima
Fiaba
Suggerita dal mormorare
Eterno del fiume
Dai verdi declivi
Felici di vigneti

Fra poco ti vedrò,
Mia Heidelberg,
Ancora entrerai
Nel mio cuore
Rimasto fanciullo
Come quando mi perdevo
Inconsapevole
Nei tuoi vicoli odorosi
Di pane al mattino
Ed ogni angolo
Mi sorrideva

Fra poco ti vedrò
E emozione già
M’assale

Come un convegno
Con il primo amore
 


 
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Massimo Silvestri
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LA TERRA DI NOD
 
gli antri gli intrighi
i ritmi ossessivi
degli dei in frantumi
nudi viandanti in fuga
clandestini sulle vie della luce
e la sequenza delle orme
la trama delle voci confuse
con il sapore di terra
venuta da Nod.
con le danze e i canti
dei gran sacerdoti
una stirpe di mostri
corpi di pietra
sicari mercanti falsari
in sembianze di uccelli
tori immortali
e lo spazio vitale
tutte le forze
un marchio di fuoco
un ferro incandescente
una lama la mano
che placa la mente.
e le ombre inquiete senza peso
senza dimensione.
 


 
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Mario Amato
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LA CAPITALE CHE NON C’È
 
Il mondo ha avuto molte capitali nel corso della storia o forse nessuna. Fu Roma, prima imperiale e poi cristiana, ma prima era stata Atene e prima ancora l’Egitto, più tardi Parigi e successivamente Londra, poi Vienna, ma questo è un punto di vista soltanto europeo, perché il centro del mondo, in senso ideologico, non esiste. Del resto basta una minima conoscenza dell’etnologia per sapere che molti popoli chiamano se stessi “gli uomini” e ritengono che il luogo dove abitano sia il centro del mondo.
Oggi, nell’era della globalizzazione, tutto il mondo è diventato periferia, ma in fondo qualsiasi vita si vive in periferia. Parafrasando Italo Svevo, che diceva che la vita è una malattia perché è sempre mortale, si può dire che la vita è non è mai nel centro, perché c’è sempre un altro centro. La letteratura, più della filosofia, più della scienza, insegna che la vita è di per sé relativa. Più della filosofia, perché i sistemi filosofici, come le religioni – ma anch’esse sono filosofie -, pretendono di spiegare il mondo o di cambiarlo; più della scienza, perché questa pretende spesso di dominare il mondo e la vita. Relatività tuttavia non significa diffidenza, ma sprone alla ricerca, ed anche la grande letteratura è ricerca o narra la ricerca.
Il primo vero romanzo europeo è l’ Odissea, ricerca di una patria e di una moglie, ma anche ricerca da parte di Ulisse di sé stesso. Qualcuno ha scritto che tutta la letteratura altro non è che una piccola nota in margine all’Odissea. È certo un’esagerazione, ma è pur vero che molti scrittori hanno un debito con questo libro, che libro non era, ma narrazione orale. Non a caso Ulisse è il personaggio letterario che ha subito più trasformazioni letterarie di qualunque altra figura. Dante, Alfred Tennyson, Giovanni Pascoli, Franz Kafka, James Joyce, Umberto Saba – e l’elenco potrebbe continuare – fanno i conti con Odisseo e creano altri Ulisse. Anche quando il nome dell’eroe greco non appare, esso è presente come eredità culturale.
È il caso dell’avvocato Galip, protagonista del magnifico romanzo di Orhan PamukIl libro nero(1)”, che ad Istanbul, cerca la moglie ed il cognato, Celal, scomparsi. Nel libro c’è una molteplicità di voci: quella dell’io narrante, quella di Galip, quella di Celal attraverso gli articoli che aveva scritto per il giornale presso cui lavorava, ma c’è soprattutto la voce di Istanbul, delle sue molteplici anime, perché tutti i nomi che la città ha avuto hanno lasciato qualcosa di importante: c’è l’anima araba, che appare al lettore soprattutto nella bottega di Alaadin, bazar in cui si può trovare di tutto a poco prezzo, ed appare ancora nelle statue di legno in cui un falegname aveva cercato di eternare le espressioni del popolo turco; c’è l’anima europea occidentale con cui si convive non sempre in pace; c’è l’anima bizantina nel complicato labirinto di vie in cui s’inoltra Galip; c’è l’odore del mare con la nostalgia per l’oriente lontano. Il lettore viene condotto quasi per mano da tutte queste voci ed odori, fra centro e periferie. Forse il romanzo è un omaggio al genere giallo, ma è anche molto di più: nel capitolo “L’occhio” Galip s’inoltra in una squallida periferia e si avvede che qualcuno lo osserva, ma solo alla fine comprende che quell’occhio che lo guarda e lo scruta nei recessi profondi dell’anima è il suo stesso occhio..
Questo capitolo è una geniale metafora della scrittura, del romanziere che guarda la vita e la rappresenta ed a volte è costretto a rinunciare a comprendere i segni dell’esistenza e forse gli stessi segni che egli incide sulla carta, lasciando ai lettori la loro decifrazione, o semplicemente il godimento della lettura. “Il libro nero”, come tutti i grandi romanzi, parla del senso della vita, ma non dà alcuna risposta. Istanbul è la città ideale per il romanzo attuale; oggi, nell’era della globalizzazione in cui tutte le città si assomigliano, Istanbul conserva l’antico ed il moderno, perché se come diceva Musil l’austriaco non esiste, anche il turco non esiste, perché erede di una molteplicità di culture che si sono intrecciate e radicate nel cuore di Istanbul. Vienna, Praga e Trieste furono capitali di un grande Impero, dell’ultimo sogno di uno stato sovrannazionale, Berlino fu capitale delle sperimentazioni politiche e culturale della Repubblica di Weimar, luoghi che sono ormai storia; la loro vita fremente di allora la possiamo assaporare ormai dalle pagine che i grandi scrittori ci hanno lasciato in eredità. Dal libro di Pamuk invece comprendiamo che Istanbul è ancora una di queste grandi capitali, è ancora un centro, in cui si può parlare dell’essenza della vita.
E dell’essenza della vita ci parla un altro grande libro di Orhan Pamuk, “Neve”(2), in cui un poeta turco, Ka, che vive in Germania, torna nel paese di Kars, isolato dalla neve, per occuparsi di ragazze che si sono suicidate perché costrette a togliersi il velo. Per un occidentale la questione del velo può sembrare solo esteriore, in realtà essa è fondamentale, perché rimanda alle domande che Immanuel Kant definiva inalienabili. Il protagonista si troverà di fronte a sé stesso, diviso tra la sua parte occidentale che tende verso l’ateismo e la sua parte orientale che ama Allah. Il senso del romanzo va ben al di là dei problemi politici che in esso vengono rappresentati.
“Gnoti se auton” (conosci te stesso) era scritto all’entrata della sede dell’oracolo di Delfo, e la lettura di un buon libro è un ottimo mezzo per tale scopo…


1) Pamuk, Orhan, Il libro nero, Torino, Einaudi 2007
2) Pamuk, Orhan, Neve, Torino, Einaudi, 2004
 


 
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Ignazio Apolloni
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LA VERA STORIA DI JACOB LIEBERMAN
 
Quando vide le lacerazioni del museo di latta eretto sulle spoglie di un infinitesimo di secondo che aveva inghiottito milioni di uomini rei di non identificarsi se non con se stessi – secondo una visione apocalittica di chi non riusciva ad entrarci in quella logica – provò un moto di stizza più che di dolore. Forse avrebbe voluto esserci, in quel mucchio di ossa, per poter dire del disprezzo in lui suscitato dalla codardia del branco; ancor più probabilmente per essere sfuggito al caso e al fato. Ora dunque è davanti al museo con il naso all’insù a rimirare la cassa che contiene gli scheletri, gli occhi sbarrati delle fototessere, le missive mai giunte a destinazione, e a domandarsi quali gli impulsi dei visitatori, quali i sentimenti di rivolta.
Jacob Liebermann non aveva ancora sei anni quando bussarono alla porta.
-
Chi è”?
Nessuna risposta, solo un calcio, la porta cede.
Entra un tedesco, e poi un secondo.
Lui fa in tempo a sgattaiolare, a nascondersi dietro la tenda che separa la stanza grande dalla cucina.
Poche parole, urlate. Poi un silenzio di tomba. Adesso è solo con i suoi ricordi, davanti al museo di latta. Sa che là dentro, nel labirinto delle emozioni che prendono alla gola, ci sono più di sessant’anni della sua vita.
Era accaduto a Leopoli.
Bottegaio, suo padre, venditore di candele.
Ad accudire alla casa, a preparare i pasti, sua madre.
Jacob ha sei anni, capelli biondi, vivace.
Sul pianerottolo si danno convegno i bambini del fabbricato di mattoni rossi, rosi dal vento. Lanciano giù cappelli, palle di carta, insolenze ai vecchi – mendicanti o meno che siano. È un gioco cui un po’ tutti gli ebrei del vicinato rispondono con bonomia. Stenta però oggi a ricordare il nome della strada, il nome dei monelli. Soffre di capogiri tutte le volte che tenta di riportarli alla luce della memoria.
È ciò che gli accade quando sta per attraversare la strada. Finirà investito da un’auto di passaggio.

Lo Judisches Museum, ovvero la scatola di latta di Liebeskind. Esempio di pietà; rabbia inghiottita, come succede alle lacrime quando si rifiutano di uscire per non amareggiare le gote e fare gocciolare il naso; maledizione gridata in sordina perché non ti senta chi ti passa accanto. Questa era stata la reazione di Jacob nel trovarsi di fronte quella sorta di sepolcro, il sudario intriso di tutti i peccati possibili commessi contro l’umanità. Non aveva resistito all’imprecazione muta, sorda. Gli si erano però appena mosse le labbra che fu abbagliato dal sole sulla via del tramonto. Anche per effetto del gelo pungente la sua carne invece che cuocere diventò di ghiaccio. Come un automa attraversa la strada, non vede o non si cura del pericolo. La brusca frenata, quindici metri abbondanti, eviterà il peggio – il Liebermann non era venuto a Berlino per farsi schiacciare da una Mercedes Benz grigio metallizzata, dello stesso colore del museo che conserva i resti immaginari dei suoi avi.

Chi è”? sente continuamente rimbombare nelle orecchie da quando ha preso coscienza della tragedia abbattutasi su di lui, lui ormai orfano.
Fu portato in un lager, una volta trovato in strada a fare il mendicante.
Lo curarono con pane e acqua.
Tentarono di rompere il suo silenzio.
Bocca cucita, terrore negli occhi alla vista di un semplice paio di stivali.
Jacob cresce come un qualsiasi albero malsano, un tanto a settimana.
Ha gli occhi del gufo, il naso adunco geneticamente. È il marchio. È ebreo, ovverosia “l’altro”; il polo opposto del magnete. Lo dileggiarono, i più biechi tra i carcerieri. Poi venne il miracolo, lo smantellamento dei campi di raccolta (di “rifiuti”, stando al classico umorismo di stampo ebraico che non risparmia nessuno nemmeno a chiederglielo di grazia). Si ritrovò in strada in una città della Russia di cui non conosceva nome né confini.
Non molto vasta; una chiesa con la croce in cima alla cupola o portata in processione; gente macilenta; barbe; tiare in testa come fossero cappelli.
Si diresse verso la periferia e quindi per i campi.
In meno di tre settimane si ritrovò a Leopoli.
Nessuno a ricordargli chi era stato.
Soffrì per qualche tempo. Inedia, solitudine, paura, rancore contro non sa esattamente chi. Non prova a domandare, a cercare di avere notizie. Si trasforma in accattone, o forse è più vero che non sa né può fare altro.
Un giorno una donna grassa, senza figli, marito scomparso mentre sta al fronte a combattere i tedeschi, lo chiama, gli sorride.
-
Come ti chiami”?
Lui tace, nega addirittura di avere un nome. È di sicuro un trovatello. La donna gli domanda se sarebbe disposto a seguirla in casa sua. Aveva preparato pure il corredo per il nascituro. Era però nato morto.
Jacob si fida, si lascia guidare. Uscirà da quella casa alla morte della donna senza tuttavia averla vista svanire del tutto dai suoi sogni. E infatti non passa notte che non se la ritrovi al capezzale, sorriso felice di aver dato vita a un trovatello.

Adesso che le case sono state rimesse in piedi, i superstiti ritornati ad abitarle, è tutto uno scrollarsi di dosso il senso di pena, la ricerca dell’oblio. Pochi, a cercare tracce; più nessuno a tentare di identificare una screpolatura della facciata di un fabbricato rimasto illeso salvo l’effetto di una fila di schegge. Jacob ha imparato a non temere gli incubi, non si accorge ormai nemmeno di quelle ferite che sembrano ancora sanguinare se gli si ferma a lungo lo sguardo addosso.

All’inizio, al ritorno, lo facevo, e vedevo sprizzare liquido rosso: ma forse era la vernice, la tinta data alla nuova facciata alla quale però erano state risparmiate le ferite perché servissero di monito. Poi, deglutendo fiele e diventando sempre più giallo per il rimorso, ho smesso di legare il ricordo di quella fase della guerra alla memoria di mio padre e mia madre. Ora sono qui, davanti al museo, e stento a decidermi se attraversare la strada o tornare indietro: sapendo però che indietro si torna solo col pensiero”.

Fece più volte il passo; mise più volte il piede giù dal marciapiede per poi ritrarlo. Ad ogni mossa, il pentimento.

E se dovessi scoppiare in lacrime! Se dovessi allagare col mio pianto tutto il museo fino al primo piano, così distruggendo le ultime testimonianze – le poche sopravvissute allo scempio sistematico che se ne è fatto. Se piombassi al suolo o dessi in escandescenze, e con le fiamme del mio rancore per gli imbelli che si sono prestati all’eccidio dei miei parenti trasformare in rogo purificatore libri e carte, bobine e legni, simulacri e reliquie di quel tempo”?

Jacob è confuso. Vaneggia. Gli arriva il capogiro. Si aggrappa al palo di sostegno di una insegna: quella che indica con una freccia l’ingresso all’inferno. Per lui ciò che ci sta dentro, dentro la scatola di latta (segno di precarietà) sono i segni del pentimento di fronte alla catastrofe che lo ha risparmiato.

Mai che la mia madre adottiva abbia sfiorato l’argomento. A tutti a dire che lui è suo figlio, figlio superstite di una guerra senza vinti che non siano coloro finiti tra le fiamme. Le ho sentite di tanto in tanto sulla mia pelle, mi arrossavano il viso; mi scaldavano le lacrime, di notte, quando gli incubi mi apparivano sotto forma di occhiaie più che di occhi di aguzzini”.

Ora è lì, Jacob, venuto da Leopoli a celebrare la sua privata Aliya e non si decide, non sa decidere se chiudere il conto con la storia o aprire un prossimo capitolo.

Intanto dai pullman, compostamente, scendono scolaresche; i tassì dolcemente scaricano curiosi e turisti; le nuvole assaltano il cielo e fanno a pugni per rimanere quanto più a lungo sul lugubre spettacolo di un ricordo alle vittime dell’eccidio di massa che ha colpito anche la famiglia di Jacob. Sa che, tra non molto, saranno scoperte 2.711 lapidi di cemento senza nomi – una per ogni tanti sacrificati alla follia del nazismo, e non solo. Non vorrà esserci. È già tanto fissare, a palpebre alzate – sguardo fisso, incupito sotto il cappello nero di feltro – le spigolosità della scatola di latta e immaginarci la mancanza di campi di fuga che non siano i reticolati o le torrette, o i wolf. Quanti si sono infilzati nel tentativo di scavalcarli; quanti i rimasti fulminati?
Jacob era piccolo allora. Fosse stato catturato forse ce l’avrebbe fatta a infilarsi tra fila e fila di reticolato. E forse suo padre o sua madre avranno pure tentato, per ritornare a rivederlo, a proteggerlo.
Poi la vedova di un soldato polacco... desiderosa di avere un figlio...
È sempre penosa l’indecisione, il non sapere quale sia la strada dritta: quella che ti porta alla verità. Jacob ha letto che per molto tempo l’Olocausto è stato ignorato o negato. Niente documenti che lo dicessero, lo spiegassero. Poi lentamente è montato nel mondo il senso di colpa, è arrivato persino in Polonia e cominciarono per lui altre pene, quasi un rimprovero. Perché è sopravvissuto, a ricordare a sé e agli altri cosa? Non bastava il maligno che aveva inghiottito milioni di polacchi, al di qua e al di là della Vistola; ci mancava solo questo Jacob Lieberman a dirci che il vulcano ha inghiottito pure gli ebrei riducendoli in polvere, in cenere, quando non in magma. Cosa vuole da noi, noi che abbiamo subito la stessa sorte anche se spesso accusati di collaborazionismo?
Ora però è lui a stare davanti al monumento alla crudeltà più efferata che mente umana abbia concepito.

Chi mi restituirà la foto ingrandita di mio nonno in preghiera perché i pogrom risparmiassero i suoi figli; chi mi darà una pagina della Torah di famiglia perché la possa baciare e ringraziare per avermi dato valori morali – imperituro credo nella giustizia divina, la visione di un mondo che è possibile mondare dal terrore? E che senso potrà avere per me entrare nel baule dei ricordi che mi sta davanti; quale sollievo la visita di tedeschi che sicuramente ancora si domandano – e forse tuttora non ci credono – se sia vero che le pagine della storia siano state macchiate, in modo indelebile, dall’ideologia della morte: l’egemonia dell’uomo sull’uomo, la fine di tutto come redenzione dal peccato: ma peccati commessi da chi se il vivere in pace con se stessi e con Dio è stato il nostro imprimatur genetico”?

È dunque ancora fermo sul lato opposto del palcoscenico del teatro della crudeltà: complice Jonesco nella definizione.
Ne ha fatto di strada, in treno e dopo essere passato da Auschwitz. Ha il cuore a pezzi, la mente intorbidita e intorpidita. Le membra fiacche. Chi gli passa accanto lo guarda con commiserazione. Vorrebbe addirittura dargli una mano ad attraversare la strada ma non osa, potrebbe aversene a male perché in fondo non è troppo vecchio né ha la palandrana. Unico segno a dirne la discendenza – senza che tuttavia si possa immaginare ciò che ci sta sotto, quale frattura le sue cellule nervose hanno subito da quell’età di sei anni ad oggi – il cappello di una particolare foggia, nero.

“Perché sono qui”, continua a domandarsi, “e perché dovrei fare l’ultimo passo per entrare nell’avello di tutti i miei misteri, le cose che non ho mai capito, l’odio di cui siamo stati vittime. Quanto diversi gli altri musei, i dedicati alla bellezza, alla genialità. Non sono però riusciti a contagiare chi invece che opere grandiose, monumentali anche se funerarie – ma post mortem – ha concepito al massimo delle camere da riempire di gas venefico. Perché dunque non mi volto e vado via”?

Pensieri torbidi quelli delle domande sul perché; parola difficile, la più difficile alla quale rispondere. Meglio affidarsi alle vicende materiali, decantarle di ogni bruttura, macchia, lasciarsi vivere se non si riesce a vivere.

Jacob, nella lingua latina; Yakob in quella germanica, era nato in un paesino della Pomerania: così almeno gli fu rivelato da un documento sopravvissuto all’incendio della sinagoga, trovato da alcuni muratori cui era stato dato incarico di edificare una chiesa sulle sue fondamenta. Vi si parlava di un tale Jakob Lieberman: sicuramente lui e non un altro vista la differenza di età, tre anni tra i due. Dunque perché firmava Jacob, come gli era stato insegnato a scuola, finita la guerra? Poco importa comunque, lasciamo perdere, diamoci un’altra identità; molto meglio che portare sulle spalle il peso della tragedia. Quando è sabato però accende una candela in bottega. Ufficialmente perché non ci vede bene, la corrente elettrica è insufficiente. Una diversa spiegazione lo porta a convincersi che ciò faccia a mo’ di insegna. La madre infatti, ormai vecchia ma sempre devota al figlio che le è mancato; rimasta vedova – e forse perché sapeva dell’attività del padre – gli ha aperto un negozietto in cui si vendono candele e affini. Gli affari andarono bene, poi sempre meno. Ripreso l’uso delle candele per celebrare la libertà ritrovata o qualche avvenimento di uguale peso – ma in qualche caso si tratta di andare a venerare i morti al cimitero o esaltarsi sentendo la voce possente, amplificata di un cantante rock – quel prodotto ritornò ad essere richiesto. Cosa dunque di strano se, abbassata la saracinesca il venerdì sera lascia accesa dietro la vetrina una candela sempre più spessa a dire che lì dentro, se si vuole, si può trovare cera e miele, il miele e la cera delle api.
Jacob infatti nel negozietto espone anche barattoli di miele.
Non si sposò comunque, non prese moglie colui che un po’ tutti a Leopoli consideravano un trovatello. Tipo chiuso, raramente col sorriso sulle labbra, atteggiamento di chi sta eternamente in preghiera, a chiedere magari scusa di essere nato, o di non essere morto a seguito della razzia commessa anche da alcuni ucraini (al servizio dei germanici occupanti). Le ragazze lo scansano, scansano il suo accento grave. Non sono impaurite dal suo sentirsi quasi un alieno, avere ben altro per la testa, guardare con indifferenza le processioni che gli passano davanti al bugigattolo: sono, più semplicemente, attratte da chi ha fattezze simili alle loro. Le donne adulte invece ne hanno pietà, hanno assimilato – loro, vedove prima ancora di diventare madri – l’atteggiamento di chi lo ha raccolto dalla strada mentre vaga.
Insomma, Jacob né cerca moglie né una possibile moglie cerca lui. È perciò come se sull’altare egli volesse portarci i resti del suo dolore. Eccolo dunque che un giorno, a cose fatte, decide di andare a Berlino. Vuole sapere cosa contiene la scatola di latta.
Ormai sono due ore circa che il poveretto è lì impalato, indeciso se entrare nella gola del Moloch o fare dietro-front, imboccare la Hoffmann Promenade che adduce a Lindenstrasse da Friedrichstrasse. Per arrivarci ha allungato il tragitto. È sceso fino a Praga per poi giungere a Berlino tra scrosci di pioggia che sembrano anticipare le lacrime che verserà. Appannati i vetri – mentre gli altri viaggiatori sonnecchiano o sgranocchiano biscotti – l’Eurocity fila, la storia naviga dentro il convoglio a dire di come diversi ormai siano i tempi in cui i vopos sparavano a chi cercava scampo dalle dittature saltando il filo spinato, il fosso, lo stesso vallo. Ora abbiamo qui l’ultimo sopravvissuto allo sterminio di massa rimasto in Polonia (almeno così lui crede non avendo, per la mimesi formalmente assunta, contatti con chicchessia né dentro né fuori dei confini della patria acquisita) che fa volare i suoi pensieri – tutti tristi – ancor più velocemente del treno ma diretti in Palestina, esattamente nella Galilea senza che lui sappia dove esattamente sia, tanto quanto non gli è possibile definirla o delimitarla con certezza. Lì vorrebbe ritornare, morire, epperò non se l’è sentita mai prima d’ora di lasciare la sua vecchia madre, di abbandonarla nelle mani di chi non ha alcuna ragione per esserle grato. Lui ora quella terra se la sente addosso come polvere o sabbia portata via dal vento impetuoso, furioso, strappata al deserto offeso dall’invasione dello straniero: il legionario romano venuto a rubare loro la fede nell’eterno per imporre quella nell’imperatore.
Come fa a sapere queste cose, lo Jacob? No, non le sa, le sente soltanto sulla pelle, le divora, le inghiotte, gli essiccano la gola tutte le volte che, rimasto solo in negozio a fine serata, accende la candela e la lascia bruciare dietro la vetrina finché non si spenga da sola. Il sabato infatti, con una scusa o l’altra il negozio non apre.

Permette che l’aiuti ad attraversare? Soffre per caso di capogiri? Tituba o vuole semplicemente godersi il museo dall’esterno”?

Chi così parla è una ragazza, giovanissima, in un pessimo tedesco misto a un meraviglioso polacco dall’accento yiddish. Poche parole. Quelle poche parole sono state però sufficienti a dirgli che da oggi non dovrà più sentirsi solo. Come abbia fatto questa creatura a capire la sua titubanza, il desiderio – forse – di lasciare nell’indeterminatezza tutto ciò che lo separa, e separa chi come lui è stato privato dell’identità o della vita, non gli è chiaro, non gli è subito chiaro.

Non sarà un angelo, l’angelo della vita a dirmi in che ancora posso tuttora sperare, e si può sperare che il male venga trafitto dalle saette del bene? Non sarà venuta ad annunciarmi la resurrezione dei giusti, dei trucidati in nome dell’odio”?

Ovviamente la ragazza bionda, avvertita come un angelo che lo invita ad attraversare il Lete è soltanto un’apparizione, un’epifania. Più semplicemente la ragazzina con lo zainetto è una studentessa, una del gruppo scesa dal pullman per una visita quasi d’obbligo a un monumento funerario in onore di vittime innocenti sacrificate alla volontà di potenza, alla superiorità come principio e fine dell’azione dell’uomo sull’uomo.
Facendo a meno di lei, per timidezza o per vergogna di non essere in grado da solo di farlo, Jacob Lieberman inizia l’attraversamento che nelle intenzioni lo porterà verso una fonte vista come lavacro. Scende dal marciapiede in un totale stato di intontimento; percorre meno di un metro; non si accorge che dalla sua sinistra sta per sopraggiungere una macchina; viene investito; resterà comunque illeso. Della sua esperienza di discesa agli inferi mi ha affidato l’incarico di narrare le parti salienti. Cosa che ho fatto in questo racconto per testimoniarne il dramma che ancora lo rende inquieto se non addirittura senza scampo.
 


 
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Franco Araniti
[ frankaraniti@gmail.com ]
 
POESIE A DISMISURA
 
da L’ASOCIALE

Corri di qua corri di là
Pensa a mammà pensa a papà
Mettiti su mettiti giù
Guadagna di meno lavora di più
Guadagna di più lavora mai
Padrone di qua garzone di là
(il figaro non c’entra)
Ahahah ihihih/riso e pianto
Un po’ l’uno un po’ l’altro
Perché altrimenti cosadicelagente
Fai questo non fare quello
Sei luileilaltro. IOSONO
Coniugato dal ritmo dell’asocietà
(e se si offende corro
-sempre correre- e la sparo)
Parentesi tutte calcolate
E intanto comunque sei sempre assassino
Rotolarotolarotola rrumbula
Verso il suicidio? Rotola. Ma
Sei sempre assassino.-Asociale!

A me? Ma se io lAmo
lAsocietà l’umanasocietà
lA libertà l’umanalibertà
lA amore la vivo. Perciò
Non farmi perdere tempo
Lasciami andare adesso
Ho fretta i giorni volano
Gli annitempovita volano
Ho fretta i giorni passano
Gli annitempovita passano
E…
Deve ancora nascere lA uomA.



TRUSCIA

sugli alberi da frutta
truscia
oggi stantia la stagione
nei paesi del terzo e quarto
mondo
truscia
con pance grosse dalla fame
e spunta tra le carie il
verso
truscia
“striscia disoccupato struscia”
con il lavoro ci gioca un padrone
“truscia”
e si diverte abbassando/alzando
l’elastico con la palla del cane addomesticato
truscia
mordigli le gambe santiddio
e fagli cadere quella palla-lavoro
truscia
sali/scendi dietro la mezza porta
sul cataletto boccachiusa è la morta
senza vestiti
senza mariti
senza partiti
è truscia
la tavola in cucina sparecchiata
comesempre sbadiglia solitudine annoiata
truscia maledetta
truscia dialetta
truscia infetta
ronzano sulla morta anche le mosche
pur per loro è truscia e sono losche
truscia
(fonema dialettale italianizzato del rien
francese del poveropoveropovero cretien)
cristiano uoma
cristiano roma
cristiano soma
dove c’è truscia c’è miseria nera
e la speranza è di morire ma di morte vera
ché la vita passò di lì
portando già il tambuto sulle spalle
finché forza sorreggeva la sua schiena
curva e senza ambizioni
.
.
.
salvo che la Truscia non s’aggreghi
e in rivolta si dì/spieghi.