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il sangue e la grotta 
Leggi Scrivi all'autore Alfonso Cardamone IL SANGUE E LA GROTTA
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  registrazione n.94 del 28.2.1972 presso il tribunale di frosinone
direttore responsabile alfonso cardamone
 



 
il sangue e la grotta 
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Alfonso Cardamone
[ a.cardamone@email.it ]
 
IL SANGUE E LA GROTTA
 
"nell'ordine della creazione, che riposa sull'autorità e sulla paternità, essi incarnano l'indipendenza dei figli, l'audacia del genio inventivo, l'esperienza del male e del dolore; fratelli dell'uomo, ne sono gli ausiliatori; il regicidio ha ristorato le loro grandi opere spossate, e la rivoluzione ha soffiato sulle loro ceneri". Chi sono? Sempre per citare le splendide parole con cui Giovanni Mariotti introduce "Solimano e la Regina del Mattino" di Gerard de Nerval, per La Biblioteca blu di Franco Maria Ricci, edizione 1973 (in vero, l'Introduzione non è firmata, ma a chi riferire quelle espressioni se non al direttore della Collana?), "sono i proscritti, i dilaniati, gli errabondi, i non sottomessi", le figure "colossali e melanconiche" che "popolano il vestibolo del diciannovesimo secolo: Prometeo cantato da Shelley, Caino celebrato da Byron, Satana in cui Vigny vedrà il primo ribelle contro la 'noia del cielo' ". E c'è tutto in quelle parole. C'è la noia del cielo, appunto, e la cupa struttura autoritaria e castratoria che l'ordine patriarcale intese dare all'universo a garanzia del proprio arbitrio. C'è l'individuazione storiografica del momento in cui precipitarono in letteratura le forme della ribellione e del riscatto, e c'è il suggerimento del possibile sfondamento oltre la storia nel riconoscimento degli archetipi dei "proscritti", dei "dilaniati", degli "errabondi" dei "non sottomessi". Sopra tutti, l'archetipo di Caino, al tempo stesso connesso con l' "audacia del genio inventivo" e con l'altra e parallela audacia del "regicidio" e della "Sacra Insurrezione". E non leggiamo, infatti, forme proprie del cainismo nel maledettismo di Baudelaire e dei "petits romantiques" e poi di tanti "decadenti", e ancora travestimenti del cainismo nelle tragiche vicende di Edipo e di Antigone, da un'altra e più antica parte, diversamente ma inesorabilmente segnate tutte da una sanguinosa vertigine di regicidio e da una parallela voluttà di assoluto?
Ma andiamo con ordine. Dicevamo di de Nerval e del suo racconto. Qui le ragioni dell'opposizione al cielo sono subito indicate come ragioni di sangue. Da una parte c'è Solimano, che è l'uomo di potere e il saggio filisteo, figlio del fango, discendente di quell'Adamo che subì l'ordine della Creazione; da un'altra, ci sono Adoniram, il fabbro e l'artista, e la regina Balkis, ambedue figli del fuoco, esseri spirituali e "pneumatici", perché discendenti da Caino e, ancor prima -come ricorda la citata Introduzione- "da Lucifero (Eblis in arabo) che si congiunge a Eva sotto forma di serpente (leggenda gnostica)". Balkis e Adoniram non sono figli di Adamo, bensì figli di Eva! Di Eva che non si è data al figlio del fango timorato di Dio, ma a Eblis, il serpente luciferino, l'eterno Avversario, esso stesso ipostasi di Caino. Qui è la diversità del sangue e della sorte per le due genie. Legati ai principi matriarcali del sangue, liberi, per il sangue del serpente, dall'ossequio all'ordine patriarcale della Creazione, essi, i figli di Eva, i loro procreatori ed i loro discedenti, sono eletti/maledetti alla insurrezione. Musici e cantori, cultori del fuoco e del ferro, stranieri segnati per l'eternità dal marchio della diversità e della difformità, sono essi i Mostri, gli Emarginati, i Poeti. Discendenti per linea diretta da Caino, si riconoscono totemicamente nel Drago, l'esule e reietto per eccellenza, Grendel, il Nemico Infernale, l'Orco feroce.
Aveva nome Grendel, / quell'Orco feroce: infame vagabondo / della marca, infestava putrecenti acquitrini, / terraferma e paludi. Per un certo periodo / quel personaggio nefasto si tenne nella regione / della razza dei mostri, da che il Signore / l'aveva proscritto con la razza di Caino.
Nel Beouwlf Caino, allontanato dalla specie umana, è subito ricollocato nel ruolo di progenitore della razza dei Deformi.
Vendicava il massacro, il Signore eterno: / aveva ucciso Abele. Non trionfò della faida: / lo bandì, allontanandolo dalla specie degli uomini, / l'Arbitro, per l'assassinio. Da lui proliferarono/ tutti i Deformi: i giganti, con gli elfi / e coi morti viventi; e con loro i Titani, / che a Dio mossero guerra secolare: ma lui / gliela fece pagare.
D'altra parte, l'ordine della creazione fa tutt'uno con l'ordine della maledizione, tacitamente e rassegnatamente accettato, dopo la cacciata dall'Eden, come pegno della pace con Dio, dalla stirpe di Set, figlio di Adamo e perciò discendente dal fango; ma minacciosamente respinto dal popolo di Caino, che "era stato potenziato in maniera incredibile dagli Angeli i quali con le figlie degli uomini avevano procreato giganti". In un libro incredibile, "II navigatore del diluvio" (Adelphi, 1979), Mario Brelich ricorda come, prima del diluvio ("una ripetizione su larga scala della cacciata dal Paradiso"), "ogni uomo, senza eccezione, nutriva in sé la nostalgia dell'Eden, ognuno aveva una coscienza e un'intelligenza molto sviluppate". Ognuno, ma in massimo grado i discendenti di Caino, nei quali massimamente covava il sapere divino trasmesso dal frutto proibito, e cioè la nostalgia della coscienza dell' "esistenza universale", o della "pienezza dell'essere". E non c'è dunque da meravigliarsi se non soltanto, le zappe e le vanghe, "la cui lunga asta di legno finiva in pezzi appositamente fabbricati in ferro, invenzione di Tubalcain", e ancora le cetre e gli organi, invenzioni di Jubal fratello di Tubalcain, ma "tutto ciò che vi era di bello, piacevole e comodo, e costituiva la gioia del corpo e dell'anima, fosse importato nella dimora dei figli di Set dal lontano paese di Nod", dove viveva la stirpe di Caino. Così come non c'è da meravigliarsi se "quando i discendenti di Caino, arrivarono alla settima generazione", il Signore, sentendosi di nuovo in pericolo, scelse Noè per il diluvio. Noè l'Innocuo, Noè l'Anticaino. Noè che, novello e ancor più sottomesso Adamo, accettando di procreare per il dopo-diluvio una seconda e più imbelle umanità, si era rivelato l'essere umano che "per la prima volta si era tappato l'orecchio davanti alla voce dell'onniscenza che in lui riecheggiava ancora, per seguire l'ordine della ragione datogli dal Signore come maledizione" {la ragione fondata sul timore e sulla colpa!).
Il diluvio spazzò via "i cinocefali, i leoni alati, i grifoni,le sfingi sorridenti e misteriose", le forme della negazione della "forma", dell'opposizione al Cosmo ordinato e perfetto, le forme del sogno e del delirio, destinate a rimanere comunque immortali nella memoria dei Cainiti.
C'è un controdiluvio neIl'epopea del sangue di Caino. Alle acque della seconda cacciata sopravvisse infatti il figlio di Tubal-Kain.
"Mio figlio era appena adulto... e la moglie di Cam, secondo figlio di Noè, lo trovò più bello dei figli degli uomini. Lui la conobbe; ella generò Kus, il padre di Nemrod, che insegnò ai suoi fratelli l'arte della caccia e fondò Babilonia. Nemrod e i suoi fratelli iniziarono la costruzione della torre di Babele, ma Adonai riconobbe il sangue di Caino e tornò a perseguitarlo. La razza di Nemrod fu ancora una volta dispersa…"
Ma, continua la voce del figlio di Tubal-Kain, fu Adonai stesso a dire:
"... da te nascerà un figlio che non vedrai. Da lui nasceranno esseri perduti tra la folla come stelle che errino nel firmamento. Vieni da una stirpe di giganti, e ho umiliato il tuo corpo; i tuoi discendenti nasceranno deboli; la loro vita sarà breve; avranno in sorte la solitudine. Ma resterà nel loro seno una preziosa scintilla dell'anima dei geni;
[la Poesia, l' Arte è quella scintilla che, di tanto in tanto, torna ad accendersi ed a parlare nel sangue come nostalgia/ricerca dell'impossibile pienezza dell'essere]
la loro grandezza sarà il loro supplizio. Superiori agli uomini, ne saranno i benefattori e si vedranno disprezzati. Soltanto le loro tombe saranno onorate... Superiori per la loro anima, saranno trastullo dell'opulenza e della stupidità felice... Giganti dell'intelligenza, fiaccole del sapere... luci delle arti e strumenti della libertà... vivranno disprezzati e solitari. Cuori teneri, saranno straziati dall'invidia; anime energiche... nutriranno la speranza, delusa sempre e sempre rinnovata".
E a completare il quadro del maledettismo, aggiunge Tubal-Kain:
"Geni benefici, autori della maggior parte delle conquiste intellettuali di cui l'uomo è fiero, siamo ai suoi occhi i maledetti, i demoni, gli spiriti del male. Figlio di Caino! accetta la tua sorte; sopporta con fronte imperturbabile, e che un dio vendicativo sia vinto dalla tua ostinazione."
L'ostinazione di Adoniram, l'ultimo rampollo di Kus, nipote di Tubal-Kain, fratello di Nemrod il cacciatore, è anche e sempre nella infinita replica del gesto con cui torna a sollevare la cortina della tenda di Balkis, regina del Mattino, grotta profondissima in cui si confondono i sogni della libertà e dell'amore, tentazione e condizione di ogni assalto al cielo.

Le citazioni contenute nel presente saggio sono tratte dalle seguenti opere:
Solimano e la Regina del Mattino, di Gerard de Nerval (Lbb, F.M. Ricci editore, Parma-Milano 1973), traduzione di Giovanni Mariotti;
Beowulf
 


 
il sangue e la grotta 
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Mario Amato
[ marius2550@yahoo.it ]
 
ECO DI FINE MILLENNIO
 
Nell'anno del Signore (...1...)999 un monaco, come mille altri monaci, procedeva per una fitta boscaglia.
Strascinava i sandali e tremava ad ogni fruscio. In quelle notti dell'anno del Signore (...1...)999 anche il più lieve nascosto rumore echeggiava nei cuori umani quale presagio di sventure prossime e si trasformava nelle menti use a mille fantasie in immagini di distruzione.
Il monaco camminava in compagnia delle proprie orazioni e del rosario sgranato senza sosta da mani inquiete e sudate.
La notte, come un nero sudario, lo avvolgeva.
Dimentico dell'antico ammonimento -di fronte a DIO un giorno è come mille anni e mille anni sono come un giorno (Pietro, epistola seconda)- si figurava i quattro cavalieri della pandemìa, li paragonava alle miniature osservate sui volumi della grande biblioteca del monastero, confondeva i propri passi con lo scalpitio dei destrieri dell'apocalisse, si segnava, recitava il mea culpa, e pure accelerava l'andatura.
E fra una prece e l'altra, fra una ripetizione e l'altra del monito solenne, la mente tornava ad un tempo lontano, alla culla infantile, alle favole ascoltate già nelle viscere materne.
Cercava l'incanto, l'oblio.
Aspettava un lampo che illuminasse la via, e la sperava libera. Più ansiose si facevano sulla bocca le preghiere, più presto il passo; voci si infiltravano nella foresta, mille voci, mormorii, si insinuavano tra i rami, nelle fronde, indistinti, densi di angoscia, si confondevano con il vento, con la nenia del piccolo frate.
Gli arbusti proiettavano scure sagome sul terreno, mille giochi d'ombre, che apparivano e sparivano.
Un fulmine, atteso, temuto, rischiarò il bosco, altre ombre si aggiunsero a quelle dei rami, si protesero nel nero labirinto di linee, inestricabile arabesco nella fievole luce notturna.
Erano paure di un tempo sepolto, ancestrali. Più vicino il mormorio, più confuso con il vento, con le orazioni, più intricate si allungavano quattro ombre e quasi sfioravano i piedi del monaco.
Bruschi gli arti inferiori si arrestarono, le mani smisero l'abituale movimento, e non il sudore, tacquero le preghiere. Un'ansia interna invisibile palpitava nel frate, statua ove batte un cuore, scorre il sangue, fiera in vista della preda dinanzi a bestie cupide di carne.
Sulla terra si proiettavano minacciose le oscure immagini delle miniature dell'antico testo.
Animale in attesa del momento, il monaco tese l'udito. Cercava di distinguere tra i fruscii lontani, gli echi spezzati, il mormorio infranto, i lacerti di parole.
Ascoltò i progetti dei quattro cavalieri... fame... guerra... peste... carestia...
Comprese di essere, piccolo monaco come mille altri in quella notte dell'anno del Signore (...1...)999, lo strumento prescelto dell'eterna battaglia, comprese un soffio di vento tra mille, un alito simile a quello infuso al primo uomo.
E fu uno strisciare di sandali tra il fogliame... e un'ombra con saio e cappuccio si confuse con quelle dei rami e dei cavalieri... e sedette a complotto.
Il monaco, uso al cammino, si propose guida. Ed il male assoluto non seppe riconoscere l'inganno.
In quella notte dell'anno del Signore (...1...)999 una trista processione andò per la boscaglia.
Alla testa di essa un fraticello, come mille altri, ascoltava tutte le voci, udite già nel grembo del mondo, nelle viscere della terra, prima della concezione, ascoltava e ripeteva tutti gli eventi di tutti gli uomini vissuti, di tutti gli uomini a venire, raccontava tutte le storie di tutti gli animali, di tutti gli alberi, di tutti i fili d'erba, di tutte le pietre, di tutte le gocce d'acqua, raccontava tutte le storie del creato. E tesseva con il cantico stretti legamenti intorno ai quattro che lo seguivano, incantati.
E li condusse nel grembo del mondo, ventre di tutte le storie. La notte come un nero sudario avvolse il monaco e i suoi prigionieri.
Dalla caverna ancestrale, dal fondo oscuro della narrazione senza fine echeggiano le storie, sono forse gemiti interrotti, parole frante, sussurri accennati, bisbigli flebili, vagano per i quattro canti che racchiudono gli elementi... e fanno ritorno alla spelonca. Fanno ritorno al monaco. Ed egli, il volto esausto, segnato da rughe di secoli e secoli di continuo richiamati e perduti, ripete con parole nuove, con modi diversi tutte le storie, tutta la storia che i quattro cavalieri hanno il compito di conchiudere, e tuttavia mille e mille volte ascoltano... attoniti.
Essi aspettano una pausa nell'illimitato fluire delle parole, aspettano che il roco brusìre del monaco s'arresti e la storia ponga fine a tutte le storie. E tuttavia esse nascono, crescono, riverberano nel lucore della caverna, si moltiplicano tra gli echi infiniti dell'antro... e l'ultima parola dell'ultima storia è la prima della successiva.
Stanno in attesa della pausa che mai giunge... tutti stanno in attesa.
Il monaco narra e narra, memore che egli è parte del ciclo che la parola tiene in vita, memore della condanna a non poter dimenticarsi, ad incantare, ad incantarsi, narra... mille volte ancora e ancora... sgrana il nero rosario... e come grani di rosario trascorrono istanti, giorni, anni... mille anni ancora e ancora...
Forse recita preghiere, forse ripete l'antico ammonimento -di fronte a DIO un giorno è come mille anni e mille anni sono come un giorno-, forse narra in secula seculorum questa storia... in secula seculorum...
 


 
il sangue e la grotta 
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Michela Cardamone
[ miccar@ciaoweb.it ]
 
MEMA NACQUE E FU GIA' MORTA
 
Quella di Mema era stata una strana vita. Una vita secca, dura, senza dolcezze o cedimenti. Era nata, in una tarda serata d'inverno, quando pare che il sole non debba più tornare a sorgere per le poche ore livide che il giorno gli concede, in una misera casa in montagna, nell'odore del sangue materno frammisto a quello di un maiale appena sgozzato.
I genitori, povera gente priva di cervello, abili solo a pascere pecore e porci e a dissodare l'avara terra del colle, non avevano neanche mai pensato di poter partorire un figlio. E quando la donna s'era accorta di non avere più il ciclo, aveva creduto che finalmente qualche ferita aperta nel suo ventre s'era richiusa, e aveva preso con maggior vigore e accanimento a svolgere i lavori accanto al suo uomo. Questi se l'era andata a prendere nel paese vicino parecchi anni prima, quand'egli aveva già più di trent'anni e cominciava a pesargli la solitudine sul colle. Lì aveva vissuto quasi fin dalla nascita; ce l'aveva portato il padre, un pastore a cui era morta la moglie lasciandogli un bimbo di poco più di un anno. Si erano sistemati in una misera baracca che serviva da riparo durante il periodo della transumanza, con poche pecore ed una scrofa incinta. Da allora non erano più scesi a valle, isolandosi in un esilio volontario che li aveva cancellati dal resto della società civile. All'inizio in paese avevano commentato lo strano comportamento dell'uomo disperato per la morte della moglie, e qualcuno aveva anche tentato di raggiungerlo per convincerlo almeno a cedere il bambino ad un istituto. Ma la strada per arrivare al rifugio era quasi impraticabile e l'indifferenza umana ebbe il sopravvento. Si parlò sempre meno dell'accaduto e presto l'episodio fu dimenticato. Solo quando il piccolo compì sei anni, qualcuno trovò il suo nome nelle liste del comune, si ricordò che doveva assolvere l'obbligo scolastico e avvertì i carabinieri. Un appuntato raggiunse la capanna, ma non trovò nessuno e diede per morti i due.
L'uomo col bambino si era inoltrato ancora più su, verso la cima dove il colle mostrava nuda la cresta, oltre i cespugli di sorbi spinosi che intrecciavano rovi davanti al fitto bosco di olmi e pini strobi, che cingeva a corona la sommità del monte. Nessuno del paese si spingeva mai fin qui, ed anche i pastori si fermavano sempre a mezza costa, perché conoscevano la povertà della vetta.
Il piccolo imparò così a governare il colle, di cui conobbe ogni sasso ed ogni anfratto. Il sole ed il tempo furono suoi maestri, pecore e scrofe lo sfogo del suo sesso.
Col padre aveva costruito un'unica stanza di pietra e fango attorno ad un grande camino, ed erano riusciti a piantare davanti alla casa alcuni semi di grano. Con gli anni il gregge si era decimato riducendosi a cinque pecore ed un montone, in compenso era cresciuto il numero dei maiali. Gli animali rappresentavano la loro unica fonte di vita. Avevano imparato a sistemare la lana delle pecore che tosavano in maniera tale da farne quasi un tessuto e usavano quelle strane stoffe, che cucivano con setole ed erbe resistenti, per farne mantelli e coperte per l'inverno. Mangiavano latte e formaggi, e la carne di pecore e maiali solo quando avevano bisogno di maggior calore. Gli agnellini erano oro, e venivano messi in casa al caldo appena nati, perché crescessero bene e non corressero il pericolo di morire prima d'essere diventati adulti.
Aveva sicuramente più di trent'anni quando, alzandosi un mattino dopo che il gelo dell'inverno pieno aveva indurito i panni in cui si avvolgevano la sera accanto al camino, trovò il padre intirizzito più della coperta che aveva addosso. Aveva visto la morte negli occhi vitrei e nelle membra rigide degli animali, non ebbe dubbi a riconoscerla nel padre. E come era abituato a considerare una iattura naturale la perdita di ogni animale, così fece con quella dell'uomo che era stato l'unico compagno della sua vita sul colle, colui che gli aveva fatto riconoscere le bacche commestibili da quelle velenose, che lo aveva abituato a combattere il freddo e l'umidità insegnandogli ad assorbire il sole fino all'ultimo raggio, che ne aveva esasperato la forza dei muscoli e lo aveva ammaestrato al linguaggio di gesti minimi, essenziali. Scavò una buca profonda lontano dalla casa, vi gettò frasche e rami secchi, vi adagiò il corpo del morto e vi diede fuoco prima di ricoprirlo con la terra smossa. Così aveva visto fare al padre con gli animali che morivano in maniera improvvisa e inspiegabile: il fuoco purifica tutto e porta in cielo il male, disperdendolo tra le nuvole.
Dopo alcuni giorni in cui ebbe modo di assaggiare la solitudine più assoluta, la mancanza del padre, la sua assenza fisica, l'impossibilità di suddividersi il lavoro, pesarono come pietre su di lui. Perciò sistemò bene gli animali nei recinti chiudendo quelli nati da poco in casa, indossò un paio di pantaloni e la camicia che il padre aveva conservato da quel lontano giorno in cui aveva dato l'addio al paese, si avvolse in un mantello di lana di capra e si avviò verso valle dove, a detta del padre, c'erano case e persone come lui. Non era più sceso oltre il bosco ed i sorbi, ma conosceva bene il modo di attraversarli. La sera era limpida e chiara di luna, il freddo gli dava la spinta per affrettare il passo. Andava sicuro, senza sapere cosa cercare, mosso da una certezza che gli nasceva dentro. La vide subito, all'apparire delle prime case: seduta su un gradino, avvolta in una lunga sciarpa nera, gli occhi volti al cielo a scoprire le stelle che, ad una ad una, si accendevano nel buio, le mani che giocavano veloci con due ferri ed un filo di lana. Era lì per lui. Le si avvicinò piano, come faceva con le lepri per prenderle alle spalle senza spaventarle, e lei non si spaventò; girò gli occhi e lo stesso sguardo che fissava il cielo entrò negli occhi dell'uomo e gli si piantò nelle viscere. Egli la prese per mano e l'avvolse nel mantello. La portò sul colle senza fatica, come la cosa più naturale del mondo.
Lei aveva diciassette anni d'età, ma non più di sei come intelligenza. Era nata dopo un travaglio di giorni, in acque verdi, e in quelle ore aveva perso la capacità di ragionare. Ma sapeva muovere le mani, e la madre le aveva insegnato a lavorare la lana con i ferri, quasi per tenerla occupata e non vedersela ciondolare per casa con quegli occhi privi di espressione che sembravano seguirla per ravvivarle il rimorso di non essere stata tempestiva nel momento del parto. In quegli occhi si specchiava la sua coscienza. Quel giorno l'aveva messa fuori prima che il sole tramontasse, proprio per non vedersela tra i piedi, e poi se l'era scordata lì. Quando la mattina dopo vide il letto della ragazza intatto, corse fuori trafelata, sicura di trovarla morta assiderata. E fu quasi con sollievo che ne constatò la sparizione. Chiese ai vicini, più per dovere che per altro, infine andò dai carabinieri a denunciarne la scomparsa. Dopo qualche giorno di ricerche stentate, il caso fu archiviato tra i "morti per incidente" e la madre tirò un sospiro di sollievo.
Così la ragazza si trovò trasportata in cima al colle, quasi a toccare il cielo. Visse il suo rapimento come un evento naturale, come solo i poveri di spirito sanno fare: quell'uomo era sceso su una stella e su quella l'aveva condotta, per portarla nella capanna sul colle. E lì fu subito la sua casa. Tutta l'intelligenza di cui era capace si risvegliò con quell'uomo che aveva i suoi gesti, le sue parole. E scoprirono la gioia di stare insieme, di conoscersi e di provare piacere dai propri corpi. Sgobbavano come muli dall'alba al tramonto, ed ella imparò a seguire l'uomo nella fatica; ma la sera, dopo aver fermato i morsi della fame con il poco cibo di cui disponevano, non si saziavano di conoscersi e di godere l'uno dell'altra.
Passavano così gli anni, uno dopo l'altro, uno uguale all'altro, in un eterno presente. Le stagioni si rincorrevano a cerchio, stringendo i due in una spirale di atti e di fatiche che cambiavano con la durata della luce e del calore. Il sole era per loro regolatore del tempo e della vita. Si alzavano appena l'aria cominciava a schiarirsi e chiudevano l'uscio della casa quando le montagne ancora non riuscivano ad assorbire il rosso del sole morente. Per riprendere, il giorno dopo, allo stesso modo, senza perché, senza nozione di una vita altra, diversa dalla loro. Lì, sulla pelata del colle era il principio e la fine dell'universo intero. E quando, a volte, nelle chiare notti estive, si trovavano a guardare il cielo che ingigantiva su di loro, una strana sensazione di comunanza col tutto li catturava, e si trovavano a contemplare la natura senza alcun motivo, senza scrutare i segni del tempo. Restavano, seduti sull'uscio, vicini senza toccarsi e vibravano con la brezza che filtrava tra i rami del bosco sotto di loro: Erano quelli gli unici momenti in cui i due si allontanavano dallo stato di animalità, momenti lirici, quasi mistici, che li stordivano. Quando risalivano da quello stato ipnotico, si guardavano come estranei, vergognandosi quasi di quei sussulti. Non avevano senso del pudore, ma di quello strano sentire, di quella malia che li catturava e li avvolgeva in un turbinio universale, si vergognavano e ognuno lo nascondeva all'altro. Riprendevano subito dopo gli atti quotidiani: la donna chiudeva la porta e si sistemava per la notte, l'uomo le si stendeva accanto, ma dopo quei momenti l'incontro dei corpi diventava impacciato ed era difficile ritrovare la loro spontanea bestialità.
Quell'inverno, dunque, come ogni volta che la neve ricopriva le montagne vicine giungendo a lambire la sommità del colle, apprestarono ogni cosa per ammazzare il maiale più grasso e conservarne la carne. L'uomo aveva imparato a preparare salsicce e salami dal padre ed aveva trasmesso alla donna questa cultura con una sacralità che faceva vivere ad entrambi i giorni della macellazione come una cerimonia attesa tutto l'anno. Perciò lavarono bene la stanza, sgombrandola delle cose inutili, sistemarono sul tavolo la grossa asse di legno duro dove tritare la carne, affilarono i due coltellacci ereditati dal pastore e attesero che l'aria si facesse fredda e asciutta. Quando giunse il tempo che essi ritennero giusto, nulla faceva pensare che ella fosse prossima a partorire. Il ventre non le si era gonfiato più di tanto, né ella aveva cercato altri segni nel corpo che potessero svelarle il suo stato. Perciò quella sera, preso il maiale per il collo, se lo mise fra le gambe e strinse forte per tenerlo fermo mentre l'uomo lo sgozzava e ne raccoglieva il sangue caldo. E quando sentì un liquido vischioso colarle fra le cosce, ancora pensò che fosse l'animale sotto di lei, che pure era già freddo, e vi restò incollata, piegandosi in due per l'inspiegabile dolore che le spaccava i reni.
Mema nacque così sulla schiena di un maiale appena morto. E la morte sembrava camminarle accanto.
Lo stupore per la nascita della bambina frastornò i due contadini. Entrambi rimasero istupiditi di fronte al grumo di sangue che, caduto dalla schiena del maiale, prese ad agitarsi sul pavimento. Ma fu un attimo. L'istinto li aiutò a superare lo smarrimento iniziale. Nessuno dei due aveva mai visto nascere un bimbo, ma entrambi avevano assistito a mille parti di pecore e maiali. Perciò la donna recise il cordone ombelicale col coltello ch'era servito per sgozzare il porco e lo legò con un nodo stretto sulla pancia della neonata, che, avvolta in una coperta, fu posta in una cesta su un mucchio di stracci sporchi e puzzolenti. Questa fu la sua culla, il suo lettino, la sua seconda pelle. Cambiava posto, dall'angolo vicino al camino alla soglia di casa quando dall'inverno si passava alla bella stagione e viceversa.
Il silenzio carico di fatica e povertà, che aveva caratterizzato la vita dei genitori, l'avvolse fin dalla nascita e le sigillò la bocca, spalancandole al contempo due occhi neri di brace sul misero mondo intorno. Seppe così a memoria il soffitto di travi marce che scendeva rapido dal camino alla porta, imparò a riconoscere i rumori degli animali e delle piante, né si spaventò più dei tuoni o del vento che flagellava la casa nelle lunghe sere d'inverno, quando il padre e la madre dormivano ed ella abituava gli occhi al buio e giocava con l'agnellino ultimo nato che le sistemavano accanto perché si scaldassero l'un l'altro.
La mattina, all'alba, con qualsiasi tempo, la madre si trascinava la cesta fino al posto di lavoro. Dopo averla sistemata sotto un albero se prevedeva bel tempo, o sotto una coperta tesa come tenda per ripararla dalla pioggia, se la scordava per il resto della giornata. I primi pianti di solitudine disperata lasciarono presto il posto ad un lamento continuo. La voce fu la sua compagnia. Imparò a modularla finché divenne il richiamo degli uccelli che nidificavano fra i rami sopra la cesta, o il belato degli agnellini che reclamavano le turgide mammelle delle poche pecore che costituivano il gregge. E fu uccello e agnellino e foglia verde o gialla nell'autunno più inoltrato. Ma mai, finché rimase nella cesta sporca e maleodorante, poté identificarsi in un essere umano.
La madre era troppo indaffarata ad aiutare il suo uomo nella lotta per la sopravvivenza per cercare in lei sentimenti di maternità e, a parte darle da mangiare alcuni avanzi e pulirla quando il fetore dei panni diventava insopportabile, essa era assente per tutto il resto del giorno e della notte quando, esausta per le fatiche che campi e animali richiedevano, si buttava sfinita accanto all'uomo che già russava.
Senza che nessuno si prendesse la briga d'insegnarle, prese a camminare a quattro zampe, trascinandosi dietro lo sporco della casa con le pezze lunghe che la madre le cuciva addosso. A vederla girare carponi per la stanza, sembrava un misero scarafaggio; bianca solo nella pelle del viso, in cui si aprivano, come fari, occhi famelici che accendevano nel fondo una luce ferina. Imparò a fatica a reggersi sui due piedi, e solo verso i cinque anni fu capace di camminare autonomamente, senza strisciare come un bruco o appoggiandosi ai fianchi delle pecore che le capitavano vicino. I primi passi li mosse così, e sembrava di vedere un satiro rovesciato, con busto e testa caprini e posteriore umano.
Ma a parlare non poteva imparare da sola.
Perciò fu muta.
Libera di inventarsi musiche ed immagini e sensazioni, libera d'abbandonarsi alle melodie del vento, ai colori del cielo e della terra nelle varie stagioni, alle più tenere manifestazioni d'affetto verso gli animali con cui imparò a comunicare. E corse con gli uccelli imitandone il volo, si rotolò tra l'erba con pecore ed agnelli, cercando nel loro caldo mantello e nelle carezze della loro lingua quell'amore che non le venne né dal padre né dalla mamma.
Fu figlia del colle, ed esso l'accolse come divinità immobile e avvolgente e le offrì protezione dal tempo e dagli animali più selvatici. E con il colle parlò, come con le bestie, usando il suo corpo e il suo sentire.
Né mai avvertì il bisogno della parola. Le sbarre del linguaggio verbale non calarono ad imbrigliarle il pensiero ed ella, come Lilit, fu libera d'intendere l'idioma del mondo.
Abbarbicati a quel pezzo di terra di cui erano gli unici ospiti, nella casa sul colle lontani dal paese, i genitori vivevano di quello che la natura può dare. Né sapevano che avrebbero dovuto segnalare all'anagrafe la nascita della bambina.
Perciò Mema nacque e fu già morta.
Il nome se lo trovò da sola. Imitando il verso delle pecorelle. "Me…me" furono le sue prime parole e il padre e la madre la chiamarono Mema.
 


 
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Massimo Silvestri
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LUCIFERO
l'Angelo caduto
 
la simmetria spezzata
della voce dei torrenti
di calore e luce,
la forza dei primi istanti
verso un doppio infinito
per una forma e un sogno
nella materia contraddittoria.

Angelo caduto!

stranezza e indeterminazione
nella trama continua
di un vasto pensiero,
pensiero fragile
piccolo e fortuito dio.

inquietante prigioniero!

e come tra più specchi
memoria
ombra di memorie
e memoria ancora.
fluttuazioni
come tra più specchi
e meste lacerazioni.

...e dalle ali spente appena
tutti i lamenti tenui
di un universo provvisorio
e le paure tutte
delle sue
dolenti
creature.
 


 
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Massimo Silvestri
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IL SEPOLCRO VUOTO
 
era stato appena trafitto.
pesava la profezia
di passione violenta
senza possibilità di parola.
le bende si sciolsero
oblique
a difesa sul precipizio rapido.
tutto in poche ore,
fu un lampo
come di cherubino.
poi fu rapito
verso un punto lontano.
naufrago,
su di lui
non era ancora
scritto un rigo.