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supplici e amazzoni - da Eschilo a Diodoro Siculo 
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  registrazione n.94 del 28.2.1972 presso il tribunale di frosinone
direttore responsabile alfonso cardamone
 



 
supplici e amazzoni - da Eschilo a Diodoro Siculo 
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risvolto di copertina
 
NOTA
 
Alfonso Cardamone, saggista e poeta di origini calabresi, con Supplici e Amazzoni – da Eschilo a Diodoro Siculo (andata e ritorno) ci rimette in cammino sulle tracce del «femminino sacro».
Lo stile smagliante di quest’opera facilita l’accesso a rigorose ricostruzioni non convenzionali, mediante le quali è sempre possibile cogliere, nelle immagini del mito, riflessi e ipostasi espressioni e mediazioni dei rapporti sociali tra persone, tra persone e istituzioni, tra persone e natura, in ogni tempo.
 


 
supplici e amazzoni - da Eschilo a Diodoro Siculo 
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Romolo Runcini
 
PREFAZIONE
 
Entrare nella complessa prospettiva di un mondo arcaico di poeti e artisti che generarono i fermenti e le basi della nostra cultura occidentale significa riandare alle radici stesse delle parole e delle immagini in cui siamo immersi. È un viaggio di ricerca attraverso suoni e figure che hanno costruito nel tempo l’asse e le modalità del nostro sentire, vedere e comunicare.
Con Diodoro Siculo e la sua Storia Universale, pubblicata in età preromana, ha inizio –secondo Cardamone- la grande avventura della ricostruzione mentale con prospettiva storica del mondo in cui viviamo. Diodoro riferisce una tale avventura alle origini di una cultura umana che riesce a svincolarsi dalle stigmate caratteriali di una generale evoluzione di razze (animali) solo attraverso la memoria circostanziale degli eventi accaduti nel passato.
Dal culto lunare delle Danaidi, legato al popolo dei Pelasgi, al culto di Ermes itifallico, che giunge fino all’età romana; dalla venerazione della vacca sacra alla glorificazione di Prometeo, il quale strappò a Zeus il dominio del fuoco donandolo agli uomini che lo utilizzarono socialmente, si dipana il lungo percorso della nostra storia di civiltà. Di qui la necessità e l’importanza di raccogliere e testimoniare la presenza dei diversi focolai di cultura civile, religiosa e artistica sorti nell’area originaria afro-europea. In quest’orbita di idee e immagini ormai classificate quali pilastri dell’ingegno umano troviamo certamente: Le opere e i giorni, di Esiodo, l’ Odissea, di Omero e le Storie, di Erodoto, che qualificano la cultura greca come somma delle esperienze sociali e intellettuali del mondo allora conosciuto.
Il lavoro a tasselli modulari fungibili a livello storico-letterario viene composto e sviluppato qui in una scrittura leggera non nozionistica, aperta a riferimenti e comparazioni di tono colloquiale, assai utile a un primo approccio a una materia così densa, articolata e carica di metafore nonché di complessità lessicografiche. Questa via alla conoscenza di un patrimonio culturale che riflette l’origine dei nostri nuovi linguaggi possiede l’indubbio merito di ricordarci chi siamo: persone che parlano di persone, nell’intesa di partecipare a un viaggio verso lidi antichi, sepolti nelle remore della memoria, ma sempre vivi e reali nella ricostruzione ben calibrata di una prospettiva storica.
 


 
supplici e amazzoni - da Eschilo a Diodoro Siculo 
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Ugo Fracassa
 
DI AMAZZONI E SUPPLICI (DI ROM E CIOCIARI)
L'ultimo libro di Alfonso Cardamone
 
Ancora una volta Alfonso Cardamone pone al centro dell’indagine il nodo stretto da mito e tragedia – Amazzoni e Supplici recita l’ultimo titolo – ma non per magnificare, come affacciato al balcone solatìo di un poderoso edificio culturale, le fondamenta della civiltà occidentale, bensì secondo una prospettiva rovesciata, à rébours verso inestimabili giacimenti di passato e di significazione, ammaliato dal fascino ipnotico e fatale delle Origini, come sporgendosi sull’orlo di un imbuto rovesciato, di un cono cioè che smisuratamente amplia il cerchio a contenere l’inconcepibile anteriorità preclassica e preindoeuropea.
Sennonché questa sconsiderata passione per il prima, che è contemporaneamente pathos dell’ormai, di una presente tardività, mira con determinazione ad un ou topos, ad una utopia, parola già fortunata ma oggi desueta e recentemente quanto emblematicamente spodestata dall’ultima moda della nostra industria culturale: l’ucronico, che ne è quasi parodia, un’ipotesi di storia controfattuale che, dall’alto di uno scorante senno di poi, guarda al passato figurandoselo diverso, proietta cioè all’indietro una vocazione progressiva che l’utopia lanciava verso gli spazi inesplorati del futuro.
Quell’imbuto perciò bisognerebbe immaginarselo doppio, in forma di clessidra nella cui strozzatura – tra origini e utopia – noi lettori ci troviamo ingorgati, invitati a condividere la scomoda posizione dell’autore, la posizione di uno a cui il presente sta stretto.
C’è stato un periodo in cui dell’utopia si parlava, alcuni parlavano, apertamente, nominandola (affiora in un titolo della bibliografia del nostro), tracciando mappe e percorsi di avvicinamento. Non è più quel tempo, oggi, e chi ancora ne parla – Alfonso è tra questi, certi suoi versi declinano una “feroce e tenera utopia” – lo fa secondo un gioco di specchi, di riflesso cioè rispetto a un discorso altro e secondo a farsi allegoria. Per l’autore tale discorso prende le forme di una incessante ricerca del principio femminile rimosso dalla società contemporanea - un’istanza d’Anima, dicevo con terminologia junghiana, presentando il terzo volume di quella che è ormai una tetralogia. Tale ricerca si realizza nei modi peculiari di una disciplina che contamina saperi diversi – archeologia, linguistica, mitologia – secondo l’esempio dell’ “archeomitologia”, della studiosa lituano americana Marija Gimbutas (quanto l’impulso a ricomporre i frammenti dei vari specialismi tenda ad un sapere olistico, implicitamente femminile – essendo il femminile il nucleo di questo come dei precedenti saggi - lascio a voi stimare). Siccome, poi, quella tecnica finisce per attivare il versante creativo e poetico del nostro (ovvero per esserne ispirata), ecco che, per Cardamone, la già elaborata definizione andrà aggiornata in “archeomitopoiesi”.
Ciò che conta è che ciascun reperto – l’archeologico per la sua costituzionale manchevolezza, il mitologico per l’infinita diramazione del racconto, il linguistico per la molteplicità delle ipotesi etimologiche – lungi dal sortire una mortifera immobilizzazione del senso, conduce a labirinti di significazione.
Partiamo proprio dall’etimologia – che Savinio, già consapevole della natura allucinatoria delle origini, definiva “illusione di verità”(1) – e dall’etimologia di “amazzone” che più e meglio porta i segni di una sopraffazione postuma perpetrata da un sapere mascolino. È invalsa l’opinione che il sostantivo significhi “priva di mammella” (a-mazos / a-mastos: quella destra, per meglio impugnare lo scudo, la mezzaluna detta “pelta”), accanto ad altre pure centrate sull’assenza (a-maza – lingua caucasica – “non avvezze a cibarsi di pane”), sull’opinione cioè che la prima lettera sia retaggio di un alfa privativo. L’atto di interpretazione linguistica, insomma, va sotto il segno della castrazione, della mutilazione e per anni ha impedito l’affiorare, almeno presso l’opinione comune, di altre letture che sostituiscono a quell’alfa il prefisso am- (appellativo infantile diffuso tra gli ittiti per “mamma”) o ama- (ama – zoosai: “vivere insieme” o ama – zoonais: “con cintura”) a indicare, in luogo di un deficit, di una manchevolezza, una localizzazione (“donna ittita del paese Azzi”) ovvero una dotazione (la cintura amazzonica, appunto).
Eccoci perciò al primo corno della questione, quello soltanto evocato ed alluso nel tema dell’amazzonismo:
L’ipotesi dell’ esistenza del matriarcato [cui il fenomeno dell’amazzonismo sarebbe connesso come tardivo e violento rigurgito] percorre la storia della filosofia da Platone a Hobbes, arriva a una piena maturazione con Bachofen sullo scorcio del secolo scorso [in epoca positivista ed evoluzionista], trova una conferma molto parziale nei reperti archeologici [proprio sulla loro controversa interpretazione si basa la confutazione parziale delle tesi bachofeniane da parte di Pembroke e Wesel] mentre ne ha una più consistente proprio nella tragedia, la quale trae i propri temi dalla mitologia.(2)
Farà piacere notare, nell’era della poltical correcteness e del moderatismo bipartisan, che quell’ipotesi piacque ad Engels come a Julius Evola, finendo per fecondare il pensiero materialista come quello elitista, e di conseguenza le ideologie comunista e nazista. Minimo comun denominatore la critica ad un sistema di democrazia rappresentativa in ragione, da una parte di un comunismo egualitarista e, dall’altra, di valori ispirati alla gerarchia. Al contrario, l’ipotesi bachofeniana di un modo matriarcale (appena digitata, la parola è mutata dal correttore automatico di word in patriarcale) del vivere associato spiacque, dopo un’immediata e immeditata infatuazione, al pensiero femminista. Con più precisione, Francoise d’Eaubonne non contestava l’ipotesi matriarcale in sé, ma il “quadro delicato” di un egualitarismo ludico e pacifista dipinto da Bachofen in Das Mutterrecht; scriveva infatti nel 1972 che: “nella guerra dei sessi lunga e crudele le donne non furono da meno per ferocia disperata” ai maschi.
Tuttavia, provando a emulare Alfonso, mutando qualche passo sul filo di un’acrobatica interdisciplinarietà – a mio rischio e pericolo e senza un allenamento specifico – pare utile citare il paleontologo J. Dastugue (1982) quando afferma che: “se si studia l’era preistorica anteriore all’età dei metalli, si trovano difficilmente fratture del cranio e delle ossa lunghe”. Inoltre è dimostrato dall’archeologia che la maggior parte delle culture egee preelleniche condividevano la caratteristica del pacifismo: Cnosso, Garnia e “innumerevoli altre città e villaggi delle Cicladi, di Creta e anche del continente erano praticamente senza fortificazioni. Soltanto dopo l’arrivo dei Greci noi troviamo mura ciclopiche, i dispositivi di difesa e le fortificazioni di una società maschile armata per la guerra (E. Borneman). Di quelle mura ciclopiche, in quanto ciociari, sappiamo qualcosa e converrà tornarci su. Infine, di nuovo Maria Gimbutas, cara al nostro, afferma che le prime civiltà del Mediterraneo orientale nell’età neolitica, “divenute sedentarie con l’agricoltura e l’allevamento, erano matrilineari, egualitarie, disarmate”. Quanto un simile pacifismo fosse connesso al sistema ginocratico e ad una teofania femminile lo suggerisce anche la scoperta della scrittura Lineare B, che ha consentito al Palmer di individuare nel Wanax, il re che è anche sacerdote, strettamente associato – diversamente dal basileus di tradizione omerica - con Potnia, la Signora, Madre Terra; entrambi ebbero per la prima volta veste greca nell’isola dove i micenei avevano più stretti contratti con l’area religiosa e culturale della Mesopotamia, a Cipro, non a caso uno dei luoghi che ricorre nel saggio di Cardamone.
Il secondo corno della questione, di cui il titolo, concerne forma e contenuti della tragedia greca e, in particolare, è costituito dalle Supplici, protagoniste della tragedia eschilea che, circolarmente, come l’autore stesso suggerisce (in una nota delle ultime pagine, come a dire ai lettori meritevoli) rimandano all’amazzonismo. Le cinquanta vergini danaidi, infatti, che impetrano presso Pelasgo, re ad Argo, ospitalità potendo vantare una lontana discendenza argiva, ma venute di Libia ed egittizzate da tempo, paiono al sospettoso re, cannibali che rifiutano l’uomo: “E poiché so d’Indiane girovaghe issate su femminee selle, su cammelli al galoppo, il cui soggiorno è laggiù, accanto agli Etiopi e poi delle Amazzoni, cannibali che rifiutano l’uomo, a quelle, v’avrei paragonato, se solo foste armate d’archi” (Eschilo, Supplici). La tragedia sarebbe la risposta culturale al trauma della ribellione ispirata a valori delle società patristiche, analoga a quella che, in termini politici, diede luogo alla democrazia ateniese quale forma particolarmente idonea, previa esclusione delle donne, a garantire il consenso.(3)
La “circolarità che continuamente fluisce nel testo” infine svelata, come ricordavo, a piè di pagina 116, è solo uno degli espedienti di quello che già in occasione della scorsa presentazione definivo “saggismo affabulatorio” del nostro. Scientemente aliena da ogni affettazione di specialismo accademico, infatti, la scrittura di Cardamone studioso del mito e della tragedia si caratterizza per la colloquialità del tono, marcata dai frequenti puntini sospensivi che alludono all’oralità e al convivio, patente in formule discorsive come la seguente: “Mah… vediamo di capirci qualcosa” . Insomma ad Alfonso si adatterebbe alla perfezione la definizione che egli stesso dà di Robert Graves, “poeta e cultore di miti”, autore spesso citato nei vari volumi del ciclo anche a scapito di altri riferimenti bibliografici, magari aggiornati all’ultim’ora, come usa nella cerchia di uno specialismo spesso sterile. Lo scambio tra versi e prosa, tra poiesis e logos, è per Alfonso usuale ed incessante, proprio in virtù di quella ricordata “circolarità che continuamente fluisce” (e circa la simbologia femminile del cerchio mi astengo dall’intrattenervi). Valga stavolta un solo reperto, magari non il più perspicuo ma certamente il più aggiornato: “Ama il cielo sacro penetrare la terra; / brama prende la terra di congiungersi a lui”, così Eschilo nel secondo dei soli tre frammenti superstiti della terza tragedia del ciclo delle Danaidi; “tu nausicaa della spiaggia estrema / del mio approdo tu stessa spiaggia e terra / ch’io agogno penetrare”, così Alfonso in un frammento poetico pubblicato nel marzo di quest’anno.
In conclusione mi sarà concesso di svelare un piccolo retroscena; quando Alfonso mi ha chiesto di presentare il suo libro, di replicare perciò l’esperienza già da me realizzata per il volume precedente, ha incontrato da parte mia qualche resistenza. Ancora una volta temevo il rischio e la fatica di sconfinare in ambiti di ricerca apparentemente così lontani dai miei interessi di contemporaneista. Per deformazione professionale, perciò, il mio sforzo è stato quello di attualizzare la materia del saggio, ma ben presto mi sono accorto che quella materia era già presente e viva. Al di là della coincidenza coi versi recenti dell’autore, infatti, ho scoperto che Amazzoni e Supplici, da Eschilo a Diodoro siculo ci parla del qui e ora. Il qui è proprio la Ciociaria delle mura pelasgiche, una terra cioè indissolubilmente legata ad una comune cultura preclassica del bacino mediterraneo. E l’ora, l’oggi, è quello delle migrazioni e delle contaminazioni (Contaminazioni è il titolo di un poemetto edito nel 2002, da leggersi a fianco del più recente saggio), di un’ospitalità cui siamo sempre meno avvezzi. Lascio pertanto all’autore l’ultima parola e a tutti noi – assordati dalle cronache di quotidiano razzismo - qualche secondo per riflettere su quanto si legge a pagina 35:
Riferendosi in modo particolare ai Pelasgi di Lemno, il Semerano ricorda che già in Omero si trova la testimonianza di una loro denominazione, Sinti (Sìnties), che sarebbe voce di origine semitica, forma sostantivale di un verbo che significa vagare errare migrare. Questi Sinti sarebbero i Sàoi di Archiloco e tali denominazioni confermerebbero il significato originario della voce pelasgi: “signori colonizzatori erranti”.

1) “Senza dubbio, quando è in causa qualcosa come la radice, si può dire: cosa si intende per realtà? Ma la risposta non può essere …[interrotto] Nelle radici del lessico non c’è che una quinta parte di realtà. Ma si potrebbe dire: cosa si intende per realtà? Chiunque proponga una forma di radice vuol fare operazione razionale, dato che non è la lingua stessa ad aver mai designato … [interrotto]” , F.de Saussure, Manoscritti di Harvard.
2) G. Galli, Cromwell e Afrodite. Democrazia e culture alternative, Kaos, 1999.
3) Cfr. G. Galli, Cromwell e Afrodite, cit.
 


 
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Renzo Scasseddu
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UN LIBRO, UNA SFIDA
 
Un libro, ed è il quarto, una sfida, ed è la quarta sfida a stereotipi culturali, i quali nonché favorire, vivificare con una corretta, seria e severa analisi le categorie della cultura stessa, la sminuiscono, la mortificano col mistificarne gratuitamente (non ne hanno bisogno!) inutilmente, quindi, archetipi e relative interpretazioni.
Tutti conosciamo la grandezza della cultura greca antica, la quale però, oltre agli aspetti positivi –e son tantissimi e bellissimi, non v’è dubbio–, ne presenta altri meno esaltanti (incesti, matricidi, vendette, fin anche cannibalismo… nel caso di questo libro, le supplici, le ‘eroine’ della omonima tragedia di Eschilo sono di pelle nera, melanthès… – con buona pace di tanti ‘arianisti’) che non vanno assolutamente «imboscati» (L. E. Rossi): fare ciò è Cultura.
E perché Essa permanga tale occorre, metodologicamente, rispettare tutte le categorie della Storia dell’Uomo – che non sono, è naturale, sempre le stesse, tener conto cioè dei ‘filtri’ culturali che esistono tra le varie epoche e che le differenziano; occorre altresì, dal punto di vista del pensiero, bandire ideologismi di qualsivoglia natura.
Questa è la sfida, da sempre e per sempre, di Alfonso Cardamone, il quale in questo saggio, potrei dire, alla greca, in questa ‘fatica’ (athlon equivale a «fatica» ma anche al giusto «premio» relativo), affronta un percorso tutt’altro che semplice, affascinante, però, e coinvolgente, per (ri)condurci alle radici profonde della nostra cultura, alla scoperta della nostra intima identità: ci dice, tanto per citare un esempio, che la cultura greca è di origini afroasiatiche …
L’Autore lo fa con gli strumenti per lui ormai familiari – e finemente ‘comparati’ e messi in gioco – del Mito, della Letteratura, della Filologia, della Antropologia, della Archeologia, insomma con quel ‘sistema’, da codice tucidideo, che una Autorità di questi studi, dall’Autore molto citata, Maria Gimbutas, definisce «archeomitologia» e che io vorrei nominare «archeomitonomia», nel senso della ‘amministrazione’, attribuzione’ ‘regola’ delle categorie in gioco, giusto come significa il verbo greco némō.
Sulla scia di una delle mie letture preferite, sin dagli studi universitari, Forma ed Evento di Carlo Diano, Accademico e sottilissimo Grecista, ho voluto leggere questo saggio di Alfonso Cardamone per ‘pagine parallele’, a mo’ di binario: immaginare due colonne, una col segno positivo (+), l’altra col segno negativo (–): Forma ed Evento, appunto (Diano fa l’esempio di Achille, l’eroe perfetto, adamantino, cristallino e Odisseo, l’eroe del continuo cambiamento).
Vero è che i binari, le rette parallele non si incontrano ma nel nostro caso c’è una guida, un vero e proprio macchinista, Alfonso Cardamone, che fa camminare il ‘treno’ con i suoi passeggeri: la Storia, l’Antropologia, la Letteratura, il Mito… e passeggeri, privilegiati, siamo anche noi che, ben guidati, non leggiamo come elementi ‘diversi’ (quante volte è usata a sproposito questa parola!) Forma ed Evento, cioè Supplici ed Amazzoni, Eschilo e Diodoro Siculo, né le varie figure femminili, nella loro stessa intima natura, ‘positiva/negativa’ (… pelle bianca/pelle nera, pacifiche/guerriere…), a non dire di matriarcato/patriarcato, non li interpretiamo in opposizione, in contrasto, bensì in un tipo di alternanza, di alterità che è proficuo di crescita culturale, da interpretarsi come simbolo, concreto, molto concreto, di Pace e di Vita.
Ecco le due ‘colonne’ e vari appunti che ho annotato e che mi hanno accompagnato durante la lettura (personalissima)

FORMA +EVENTO -
SUPPLICIAMAZZONI
Matriarcato →→←← Patriarcato
Euripide - DiodoroEschilo
Mirina: pace (ecista, fondatrice di città, con un sistema di leggi = nòmoi)
Afrodite, Eurinome "vagante in ampi spazi" (ma anche "amministratrice di ampi spazi", ← némō)
Mirina: guerra
Pelle scura reincarnazione, nei tempi, della Madonna Nera.
Pelasgo - Argo
disc. da I, errante in terra ed anche in cielo (= Luna, Iside, pioggia: hýein = piovere)
Danao - Egitto e Cadmo - Fenicia
discendenti da I
"archeomitologia", Gimbutas: originale metodo di lavoro interdisciplinare - linguistica, mitologia, archeologia e dati storici - dati che riflettono un sistema sociale equilibrato, nè patriarcale nè matriarcale, confermato dalla continuit degli elementi formativi di un sistema matrilineare nell'antica Grecia, in Etruria, a Roma, nei paesi baschi e in altri paesi europei …

"Egizi" sbarcati in Argolide al seguito, o all'inseguimento di Danao appartenenti a genti che intrecciavano origini africane e asiatiche, elementi culturali e linguistici camitici e semitici.
Danaidi benefattrici: d'acqua per l'arido territorio di Argo
… secchio bucato = dono, pioggia (?)

Elena rappresentata s "come Artemide dalla conocchia d'oro", ma lo strumento non vale solo in ambito di 'marginali' lavori muliebri, ben sì, in particolare, per la funzione di 'tessere il cielo, il mondo': potere tipico delle Grandi Dee, nelle loro teofanie lunari, cui spesso vengono rife-rite, paragonate tutte le figure femminili (analogie con le Moire e con Penelope e la 'tessitrice ciclica' per antonomasia che è la Luna)
Danaidi assassine dei propri mariti
… secchio bucato = punizione

Donna = "ambiguo malanno" = Pandora ("tutto dono"), dono del sarcastico Zeus agli uomini, dopo l'inganno di Prometeo portatore di fuoco.
Sulla stessa scia le Danaidi e tutte le donne, destinate solo alla tela ed alla conocchia, emarginate dai diritti dei maschi;…

Elena, pur regale, divina, infida, infedele e fonte di lutti infiniti
Bernal : "L'esistenza, sia in egizio che in greco, di speculari costellazioni semantiche attorno ai concetti di regalità, bara e acqua corrente sembrerebbe ridurre quasi a zero le possibilit di coincidenza casuale".
Accostamenti e mescolanze di costumi e di lingue (etrusco-pelasgico)
… dice Alfonso Cardamone "un gioco di specchi e una corrente di flussi e di riflussi che si riverbera continuamente dai Pelasgi ai Danai e da questi a quelli"


In Esch. l’orgoglio della civiltà greca che distingue Pelasgi e Danai, con il ‘comodo’ riferimento a Iò, greca, che arriva (anche) in Egitto

Popoli di agricoltori che diventano navigatori

Alfonso, per amor di… donna, tralascia - nel novero di una molto frequentata tradizione ‘antifemminista’ - Semonide, l’autore della satira contro le donne, scritta sulla scia misogina di Esiodo.
Naturalmente Alfonso ben sa che dalla sua parte (a favore, cioè, di una tesi ‘femminista’) c’è il ‘rivoluzionario’ Euripide, con le sue eroine ‘fuori dal coro’, come Medea, Fedra…, le quali, ad ogni costo (infanticidio, suicidio, vendetta…), difendono la propria dignità femminile; a non dire delle Baccanti che testimoniano, anche con realistico orrore, l’urgenza di propagandare i riti di una nuova divinità, tutta ‘al femminile’, come Dionìso nonché lo spazio ineludibile della umana, umanissima ‘irrazionalità’…
Per chiudere, un sentito, fraterno ringraziamento per una preziosa, severa e seria ricerca ‘a binario’, ricerca di confronto e non scontro, con significato di convinto e concreto impegno etico e civile, com’è quello della Letteratura.
Grazie anche alla coraggiosa Casa Editrice Pellegrini di Cosenza, soprattutto perché accoglie anch’essa, in un’epoca tutt’altro che letteraria, il libro di Alfonso Cardamone come una sfida: quella al sistema impuro, fagocitante e distruttivo della globalizzazione, un robot che mortifica vieppiù le caratteristiche e le risorse della Identità, della Tradizione, del confronto culturale e civile…
Insomma, dell’UOMO.
 


 
supplici e amazzoni - da Eschilo a Diodoro Siculo 
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Marcello Carlino
[ Marcello.Carlino@uniroma1.it ]
 
UN LIBRO DI CONFINE
 
Non è facile contraddistinguere con un’indicazione di genere Supplici e amazzoni di Alfonso Cardamone. Un po’ saggio, un po’ racconto – di quei racconti che ammettono nel loro svolgersi la figura di un narratario e lo convocano in scena spesso e volentieri –; fondato su di un capitale di letture assai cospicuo, come conviene agli studi scientifici e filologici, e tuttavia consapevole della necessità di intraprendere avventure ermeneutiche anche spericolate, in cui occorre affrancarsi dalle mappe già tracciate e la scelta di direzione interpretativa è d’obbligo, obbligatoriamente dirimente, né può ritenersi svincolata da ben marcati orientamenti di tendenza storico-civile e culturale; stilisticamente incline all’argomentazione e alla dimostrazione, spesso in contraddittorio con quanto da altri e di regola sostenuto, e nondimeno caratterizzata da una propensione tutta speciale per il linguaggio colloquiale, che dà del tu al lettore e non gli nasconde, anzi lo invita a considerare, lasciandovisi andare e godendone, la complessità come romanzesca degli intrecci e delle saghe familiari di dei ed eroi che si rende utile rinarrare; con una sua ben precisa cifra di scrittura, lineare nel suo impianto, eppure ospitale e indulgente verso i modi di una oralità vicina alla logica del racconto di tradizione popolare, Supplici e amazzoni mi piace definirlo un libro di confine, come già è capitato che abbia fatto per altri libri che Cardamone ha scritto e che di questo costituiscono la necessaria premessa. Del resto, nel risvolto di copertina, non si manca di sottolineare come si tratti della «ripresa» di un «cammino» sulle «tracce del femminino sacro», perciò congruente e conseguente a In traccia di luna, pubblicato sempre per i tipi di Pellegrini nel 2006. E infatti, dell’analisi contenutavi, Supplici e amazzoni realizza una sorta di compimento, portando a sviluppo e insieme ponendo in chiaro, a me sembra con tutta evidenza, le ragioni e il senso profondo di una ricerca che sta impegnando Cardamone da alcuni anni. Una ricerca essa stessa di confine, tra mito e storia, così come insiste sui luoghi di confine, per suo statuto, il repertorio di ricostruzioni mitologiche che, quando si voglia arretrare nel tempo e gettare luce su alcune fasi originarie, lontanissime e indistinte, della vicenda dell’uomo, interseca inevitabilmente e stringe in un abbraccio talora indistricabile i documenti che le scienze dell’antichità sono in grado di autenticare.
Trascorrendo da Eschilo a Diodoro Siculo, nominati del resto nel sottotitolo, ma escutendo volta per volta uno stuolo impressionante di testimoni, chiamati alla bisogna in ordine sparso, da Omero ad Euripide, da Esiodo a Erodoto, da Pausania a Strabone, da Igino ad Apollodoro per non citare che i più citati; confrontandone le posizioni e verificando le perizie tecniche a cui ciascuno dei loro referti è stato sottoposto secondo diversi approcci disciplinari (e non v’è dubbio che ad un libro di confine si attagli un’istruttoria plurifocale, condotta da molteplici versanti convergenti: finiscono così arruolati, per consulenze, aggiornamenti recenti di storia greca, studi di paleo e di mito-archeologia, saggi etno-antropologici, testi di critica della letteratura antica, classici di analisi e di visitazione di figurazioni e di racconti mitici con i relativi attanti); sciorinando, non senza un sottile divertimento che il lettore è invitato a condividere, una serie lunghissima di personaggi in sospeso tra mitologia e letteratura, o tra mito e storia, e vagliandone parentele e rimembrandone genealogie (ma, in una breve annotazione straniata ed autoironica, epperò illuminante come si dirà, il lettore è avvertito che è impresa ardua, lasciata per intero alla sua attenzione e alla sua responsabilità, seguirne le trame; e ciò sebbene in appendice si diano schemi e tronchi e rami di alberi genealogici e si segnino su tavole le carte geografiche di percorsi migranti lungo i paesi che affacciano sul Mediterraneo), Cardamone giunge ad una sequenza di conclusioni definite.
Elenchiamone alcune.
Mirina non è solo regina delle Amazzoni e impavida «condottiera di eserciti»; il fatto che abbia lo stesso nome con cui è chiamata la Grande Madre, nonché la sua provenienza dalla Libia e uno sciame di indizi che ne localizzano altrove tratti fisionomici e frammenti di significato esportati e condivisi, autorizzano una serie di inferenze: la prima è il compenetrarsi di figure di marca “femminile” in uno spazio multiregionale e in un tempo che si dilata scavalcando a ritroso la civiltà ellenica, così che se ne può disegnare un unico ritratto del «Femminino», composito e multianime per conciliazione degli opposti, sensuale e materno, ospitale e ferino, forte e lunare, dai lineamenti anche afroasiatici, che affiora tanto in Neith – la Vecchissima, la Madre degli Dei – quanto nella primitiva Atena e nelle tante, più tarde Madonne Nere; la seconda è la revoca, per ciò stesso, della damnatio memoriae toccata in sorte alle Amazzoni e alla dimensione di valore che ad esse si accompagna. Può trarne vantaggio, ed esserne riabilitata, la stessa Elena, vituperata perché fedifraga e additata a responsabile della guerra di Troia, ma in realtà non irriferibile a Iside, invocata con il nome di Elena in Bitinia, e certamente identificabile con le «diverse epifanie dell’antica Dea lunare», se ritorna sovente e si ravvisa di netto, già in Omero, un filo di congiunzione, un trait d’union: «La conocchia non è una semplice conocchia, è propriamente la conocchia d’oro che fa Elena simile ad Artemide, la vergine dea del notturno splendore lunare; è cioè un trasparente emblema lunare, il simbolo che la collega direttamente ad Artemide e, attraverso Artemide, alle più antiche divinità lunari».
Proprio Elena è segnale chiarissimo, in effetti. La civiltà greca ha impronte misogine patenti; e se la Grande Madre è totalità, pienezza come ermafroditica di manifestazioni e di disposizioni umane, di funzioni e di ruoli esistenziali, il mondo greco giunto a noi, quindi tradizionalmente inteso, e idealizzato, frantuma quella totalità, alienandone la misterica pienezza lunare, oscurandone la componente libera e sovrana, ovvero amazzonica, costringendo la donna nelle parti, servili e limitate, di sposa sottomessa e devota. Fuori da questo copione, e non appena accada che taluna esca dai ranghi, rientra nella letteratura il personaggio di Pandora, dispensiera di mali, e si profila per monito l’immagine negativa di Elena, l’innominabile macchiatasi del peccato di tradimento. È nella marginalizzazione delle deità femminili lunari nel pantheon degli dei e degli eroi, o nell’affossamento (che vale, alla lettera, come confinamento ipogeo) della tradizione religiosa e culturale d’appartenenza mediterranea che germoglia su quella semenza; è nella chiave maschilistica del dominio sulla donna che si edificano la civiltà e la storia greca e si produce l’immagine, illusoria e mistificante, di una democrazia in esse compiuta, da indicarsi a modello ancora oggi. Quella di Cardamone è, dunque, la demistificazione di una identità culturale, costituitasi evidentemente sui meccanismi di una dialettica del potere che ha coartato la donna; la sua, in Supplici e amazzoni, è operazione del tipo della critica della metafisica occidentale, considerato che la fondazione dell’Occidente si è soliti situarla nello sbalzo di un’identità greca delineatasi in autonomia spiccata, e solidamente determinatasi.
È dunque la decostruzione della identità autorizzata dalla tradizione ed è la rivendicazione e la rilevazione di una identità altra, da restituire e da schierare, nello stesso areale antropologico facente centro sulla Grecia, e cioè alla fonte della storia d’Occidente e d’Europa, in alternativa all’identità convalidata e ormai consacrata dal senso comune: è questo che impegna il libro di Cardamone e contiene e dichiara la finalità alla quale è volto.
Ad un compito siffatto, per esempio, si prestano – ed ad esse, nel frattempo, si legano altri ricavi consistenti del discorso condotto in Supplici e amazzoni – la verifica attraverso la letteratura del ruolo e delle gesta del popolo dei Pelasgi e la anamnesi della diaspora delle Danaidi, spintesi fino ad Argo.
I Pelasgi, sulla falsariga delle ipotesi di storicizzazione più accreditate formulate di recente, vengono riconosciuti alla stregua di una popolazione-“sostrato”: essi costituirebbero, in buona sostanza, una sorta di serbatoio comune per i flussi di insediamento umano che interessano tanto le terre italiche, quanto i luoghi che sarebbero stati teatro della storia ellenica. Deve accettarsi per corollario difficilmente smentibile, date le premesse, che un tale popolo, con funzione come di dna che impronta i gruppi umani stanziatisi nelle diverse regioni, non può che caratterizzarsi per una “cittadinanza” mista, “comprensiva”, mediterranea, e per una sorta di meticciato culturale che ne giustifica, per altro, la forza di penetrazione.
A questo punto, contrariamente a quanto lascia intendere la tragedia di Eschilo, Pelasgo non appare credibile nella parte, assegnatagli dal grande tragediografo, di chi incarna l’archetipo antropologico-umano della grecità e, nella purezza autoctona e assoluta, alla lettera originale, dei valori di cui è portatore, rappresenta il cominciamento, di precisa determinazione, e il marchio incancellabile di una civiltà totalmente a sé e perciò più ricca di capacità irradiante, l’iniziatore e il garante di una identità che nella sua figura sembra trovare definizione e robusto ancoraggio. Infine, tra i Pelasgi e i Danai, gli invasori, la guerra ha ragioni economiche e di dominio territoriale, quelle di ogni stagione e di ogni latitudine; e non può essere idealizzata, che è ciò che fa Eschilo risolvendo il conflitto in una contrapposizione di modelli, di anime culturali: gli uni e gli altri, infatti, connotandosi per la mediterraneità degli intrecci etnico-geografici e per la multiculturalità che segnano la loro origine, hanno ampi tratti di cultura condivisa sicché, nel loro caso, non può funzionare, se non per il rispetto delle regole di rappresentazione del tragico, lo schema secondo il quale lo sconfitto consegue una vittoria più importante, e di più lungo periodo, affermando la sua cultura e imponendone il valore più alto e infine riducendo a sé la cultura del vincitore.
Nell’attenersi a quello schema, Eschilo ribadisce la cogenza del codice regolamentare e della prassi consueta della tragedia, ma, soprattutto, opera a sostegno del progetto di configurazione e di codificazione di una ideologia specifica della grecità.
Non tuttavia senza sbavature o senza che il rimosso culturale ritorni: ed ecco le Danaidi, finalmente.
Le Danaidi sono, come le vuole la scrittura tragica eschilea leggendone la vicenda in questa chiave esclusiva, le supplici che ritualmente “vengono a Canossa” e si riconoscono nel sistema di valori, peculiari e propri, dell’ospitale e virtuoso Pelasgo – il quale li antepone a tutto e li consacra, non esitando a mettere a rischio la sicurezza del suo popolo: esempio altissimo di democrazia e di fede nei diritti civili – e ratificano, nel mentre, la normazione del ruolo della donna presso la società ellenica e, per futura memoria, nella cultura d’Occidente. Eppure non appaiono veramente cancellati i segni (ne danno avvertenza anche talune spie linguistiche dentro il testo della tragedia, che hanno come la funzione di lapsus o di semafori verdi per il ritorno del rimosso – e del represso sociale) che richiamano una volontà di indipendenza dall’uomo e un bisogno forte di autodeterminazione, che così apparentano le Danaidi alle amazzoni indicando una potenziale convivenza di stato (l’essere supplici non esclude l’essere amazzoni e viceversa; non necessariamente tra l’una e l’altra parte, o ruolo, si dà rapporto asimmetrico o di contraddizione) e delineando un’altra, diversa identità femminile, la quale non rinserra l’apertura, non esautora la pienezza di senso e di possibilità antropologico-umane contenute nelle figure totalizzanti e archetipe delle deità e delle “persone” mitiche del femminino. E giusto queste figure femminili e, ripeteremmo, ermafroditiche di conciliazione degli opposti finiscono evocate e comunque tornano presenti – come per dar forma e saldatura ad una struttura circolare, esse che avevano fatto la loro comparsa nel capitolo iniziale accanto a Mirina – al termine del libro.
Supplici e amazzoni chiama a leggere la “e” del titolo, alla lettera, come reale e virtuosa congiunzione, non come “medio” di esposizione di modalità disgiunte, impersonate da soggetti inassociabili, da tenere ad ogni costo distinti, che sono state valutate e sancite e considerate – nella scala di valori della cultura occidentale che prende le mosse dalla Grecia – sempre benedicendo le “supplici”, maledicendo le “amazzoni” e facendo divieto ad ogni loro contatto o contagio; Supplici e amazzoni mette Eschilo contro Eschilo, il tragico che si lascia sorprendere dai rinvenimenti del represso sociale contro il tragico di una consapevole normalizzazione ideologica e culturale della donna; Supplici e amazzoni pone a fondamento, del percorso identitario in cui siamo, e tutti dobbiamo sentirci, impegnati, un’altra identità di riferimento, femminile e più che femminile.
È ovvio che per ciò stesso, per questi significati forti di cui si rende espressione (ai quali altri, più circostanziati, se ne aggiungono nelle escursioni diramate volta per volta tra mito e storia, racconto e saggio), il libro di Cardamone abbia una sua motivatissima intenzione politica.
Oggi che ci si intrattiene, spesso sventatamente, sulla questione dell’identità e che l’identità è concetto speso pressoché da tutti nel senso della chiusura, del reperimento di un idioletto antropologico-culturale, o della demarcazione e qualificazione localistiche, Cardamone ci invita a considerare, intanto, che l’identità è un motore di ricerca da tenere acceso sempre e dovunque, anche nei saggi d’esplorazione che sembrerebbero mirare altrove e si ritengono disinteressati (non esistono analisi e studi disinteressati, alle corte), ed è, al medesimo tempo, questione che implica un confronto aperto tra le tradizioni pervenuteci e richiede il coraggio di una scelta (richiede la consapevolezza della inesistenza nel lavoro critico di una presunta neutralità o oggettività degli assunti; implica la coscienza del valore politico degli atti che si stanno compiendo, dandosi per certo che è in gioco ogni volta la costruzione impegnativa di una tradizione a cui fare riferimento). La scelta che Cardamone compie, con gesto politico calcolatissimo, sta nel profilare alle radici dell’Europa, alla fonte della cultura occidentale, non una identità escludente (sul tipo di quella affondata nelle radici cristiane, che alcuni poteri forti si battono per scrivere nella carta costituzionale), ma una identità inclusiva. I valori europei che, senza che li si dichiari esplicitamente, sono sul punto di fuga della prospettiva di questo libro, si rifanno, quanto all’origine situata tra storia e mito e quanto alla storia che a partire da essa è ancora da costruire, alla multiculturalità che il popolo-sostrato dei Pelasgi simbolizza, nomade tra le regioni d’Asia, d’Africa e d’Europa.
Quanta rilevanza abbia la proposta, rinvenuta all’origine ma sporta sul futuro, di una siffatta identità plurale, aperta e laica, rivendicata contro l’Eschilo “ideologo” e gli antichi errori della metafisica occidentale, in un frangente come l’odierno nel quale i fondamentalismi stravincono e da ogni parte si interviene a demonizzare l’altro, lo straniero (e come, nel presentare con forza questa sua identità plurale e nel regolare su di essa i suoi atti, l’Europa possa svolgere una grande funzione politica, una tra le poche rimastele nell’epoca della globalizzazione), è finanche superfluo sottolinearlo. È il caso di chiarire, piuttosto, che questa identità plurale è attestata esemplarmente dalle figure del “femminino”, che costituiscono il filo rosso di Supplici e amazzoni e che vi portano a compimento la loro vicenda, dando seguito ad un percorso cominciato nelle opere immediatamente precedenti dell’autore.
Una volontà “femminista” di risarcimento ideale per le libertà rubate, per i soprusi patiti e le “amputazioni” subite in secoli e secoli di storia (la stessa storia la cui culla sarebbe la civile e democratica Grecia dell’antichità classica) sorregge e sospinge la ricerca di Cardamone; ma la riscoperta del «femminino sacro» e la riabilitazione identitaria dei valori che vi sono racchiusi hanno una ragione, più che femminista, di progettualità e di rappresentazione politiche. Il nuovo e il meglio per pensare il futuro sembrano elettivamente consegnati a quanto sin dal principio si raccoglie e si addensa soltanto nei miti femminili che stanno prima di ogni storia (essi intrinsecamente ermafroditici) e nelle divinità lunari: la pluralità ospitale, l’accoglienza dell’altro, l’incontro non riduttivo o uniformante ma produttivo delle differenze, la dismissione dell’assoluto per l’ammissione del relativo, la concordia dei discordi (la congiunzione di norma e scarto, delle supplici e delle amazzoni). Il futuro più abitabile è donna, se donna è segno-“sistema di valori” che comprende la complessità accogliente delle Danaidi, restituite, contro Eschilo, ad una condizione di apertura polivalente, di disponibilità ad una ricca varietà di esperienze e di rapporti con l’altro: questo ci dice Cardamone, volendo far uso di una opportuna semplificazione.
Ci suggerisce anche che per questa pronuncia politica il ruolo della letteratura, che non a caso ha stretta contiguità con il mito, è determinante (si spiegano così il taglio da racconto di molte diramazioni di Suppici e amazzoni, o i titoli dei capitoli che sono rapidi e sapidi trailers metaforici, o il gioco di complicità con il lettore avvertito che il rigore della argomentazione saggistica confina per tratti estesi col piacere della narrazione, così che non risulta, al tirar delle somme, da esso spaiabile – e sollecitato nel frattempo, attraverso l’autoironia delle chiose autocritiche della scrittura, a regolarsi di suo interpretando, e ripassando le aggrovigliate trame genealogiche, e facendosi un suo convincimento lungo tutto il percorso del testo). È proprio la letteratura, infatti, che elettivamente si costituisce sul polisenso (e polisensa è la Neith, polisense le dee lunari, polisense le Danaidi, polisense le figure mitiche del femminino sacro); e che si modella per usi convenuti su di una logica simmetrica fatta per conciliare i contrari e realizzare la concordia discors. È la letteratura che fa conto sulle virtù e incentiva le risorse di una disposizione strutturale all’accoglienza.
Un futuro più abitabile passa anche attraverso l’ascolto attento della letteratura e la sua messa a dimora per la cultura e per la politica: mi sembra che quest’altra faccia di un’utopia possibile e conveniente, da scritturare per far da guida alla prassi, si stagli sullo sfondo di Supplici ed amazzoni.

26 settembre 2008