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Leggi Scrivi all'autore Mario Amato LE CITTÀ OBLIANTI
Leggi Scrivi all'autore Tina Tucci DIARIO
Leggi Scrivi all'autore Stefania Del Bene POESIE
Leggi Scrivi all'autore Mario Amato VISIONE
Leggi Scrivi all'autore Massimo Silvestri NEMESI
Leggi Scrivi all'autore Amedeo Di Sora LA POESIA O " DELL' INUTILITA' "
Leggi Scrivi all'autore Oreste Bonvicini ATTRAVERSANDO LA CITTA'
Leggi Scrivi all'autore Silvana Poccioni IL RISVEGLIO DELLA BELLA ADDORMENTATA
Leggi Scrivi all'autore Silvana Poccioni FILOSOFIA AUTUNNALE
Leggi Scrivi all'autore Massimo Silvestri GENESI 1
Leggi Scrivi all'autore Alfonso Cardamone TRA UTOPIA E DISTOPIA: LA SCIENCE FICTION
Leggi Scrivi all'autore Cristiano Turriziani D.A.F. DE SADE: PER UN’ET(H)ICA DELLA PERVERSIONE NELLE COMPONENTI PSICOLOGICHE E FILOSOFICHE
Leggi Scrivi all'autore Mario Amato PICCOLO RACCONTO DI NATALE
Leggi Scrivi all'autore Alfonso Cardamone IL FANTASTICO
Leggi Scrivi all'autore Andrea Carbonari DUE DISFANTASMATICHE VISIONI
Leggi Scrivi all'autore Andrea Carbonari IL VILLAGGIO
Leggi Scrivi all'autore Mario Amato LE SIRENE DI ALFONSO
Leggi Scrivi all'autore Alfonso Cardamone DAI RACCONTI SURREALI AL FRANGIALLO
 

  registrazione n.94 del 28.2.1972 presso il tribunale di frosinone
direttore responsabile alfonso cardamone
 



 
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Mario Amato
[ marius2550@yahoo.it ]
 
LE CITTÀ OBLIANTI
 
Alfonso Cardamone ha perfettamente ragione quando parla dell'ossessione della città degli scapigliati, i quali sono stati giustamente accesi antimanzoniani, posizione che è costata loro un'ottusa incomprensione da parte di un'Italia poco propensa alla fantasia in letteratura ed incline alla concezione didascalica dell'opera letteraria. È senz'altro vero che l'Italia ha recepito la lezione dantesca critica verso la letteratura cavalleresca -e forse per questo un poema quale Orlando Furioso, che sprigiona una fantasia verticale, non è ancora riconosciuto fra le opere più valide d'ogni tempo- , ma è altrettanto vero che il sommo Alighieri non presenta mai i problemi già risolti, bensì come questioni sulle quali discutere ed interrogarsi.
Alle "città fantasmatiche" vorrei aggiungere la Berlino di "Alexanderplatz" di Alfred Döblin e la Vienna de "I Demoni" di Doderer. In ambedue le opere le città divengono personaggi operanti, vivi, pulsanti. Interessante e nuovo mi pare soprattutto Berlino in Alexanderplatz: la piazza è il centro del romanzo, ma un centro-non centro, ossia Franz Biberkopf vi si trova come estraneo, nonostante sia berlinese. Perché? Egli non è un proletario, ma appartiene ad una classe che in nessun romanzo del Novecento era ancora assurta a protagonista: il sottoproletariato. È vero, Dickens, Hugo, Dostoevskji avevano rappresentato gli umili, i diseredati, gli oppressi, ma non ancora come problema del marxismo scientifico. Nel romanzo di Döblin è questo uno dei temi emergenti, poiché se era possibile per il proletariato operaio acquisire coscienza di classe, era certamente complesso per esseri umani che scelgono di essere stranieri ovunque. La città tuttavia, Berlino in questo caso, non è priva di responsabilità, poiché essa annulla nell'oblio le storie di tutti i Biberkopf, i quali non hanno neanche la dignità di personaggio come Raskolnikov. È disumana e tuttavia affascinante come qualsiasi sfida. È la città del primo ventennio del Novecento, con il traffico caotico, rumorosa, disordinata e … divertente (nell'accezione latina del termine). È una città che gli uomini hanno visto cambiare velocemente e che stentano a riconoscere. Berlino è anch'essa una città scapigliata e negra. È anche, la città, il luogo unico in cui il romanzo può essere ambientato, poiché il narratore osserva gli esseri umani mangiare, camminare, osserva l'intrecciarsi delle loro vite, l'allontanarsi per lungo tempo e il ritrovarsi, il nascere di tensioni e d'amori. Questo affresco cittadino è il modo di narrare di Doderer ne I Demoni, ma Vienna stessa è un demone.


aggiornamento dicembre 2000
 


 
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Tina Tucci
[ c.pizzutelli@libero.it ]
 
DIARIO
 
La mia città

Non è una metropoli,
non ha dato i natali ad uomini celebri.
Ma io l'amo.
Amo il campanile, il Cosa, il suo
traffico, il caos, l'amo, perché
ci abita lui.
Ma non posso nascondere che
in fondo,
la vorrei più tranquilla,
più dolce, più mia.

3 ottobre 1972


Ricordi

Nei miei ricordi di bimba
c'è un uomo di neve.
Un uomo non era, non parlava, non rideva.
Una sciarpa al collo, per tenerlo caldo.
Gli parlavo e lui mi ascoltava, ma non rispondeva.
Il giorno dopo l'uomo di neve se ne era andato;
la sua sciarpa mi aveva lasciato.

4 ottobre 1972


A te

Al mio cuore aspro hai dato dolcezza,
al mio cuore duro hai dato tenerezza,
al mio sorriso spento hai dato luce.
A te che cosa ho dato?
Nulla, nulla al confronto di ciò
che meriti.
Mio grande e tormentato amore.
Amore sbocciato fra i banchi di scuola,
amore sbocciato poco a poco, come
i petali di un fiore che sbocciano
al calore del sole.

31 ottobre 1972


L'orologio del campanile

Il campanile suona: le 10 - le 11 - le 12 …
Suona e non si ferma mai. Le lancette si rincorrono
sul quadrante e rare volte si incontrano si baciano;
ma è un attimo e la corsa ricomincia.
Giorno e notte, notte e giorno, e lui suona
le 10 - le 11 - le 12 …
mai che si fermi per prolungare la gioia
nello starti accanto.
Lui corre, tutti corriamo,
in cerca di qualcosa, di qualcuno, di nulla.

15 novembre 1972


L'ultimo

E verrà l'ultimo giorno che ci parleremo.
Chiuderò gli occhi per sempre
in un sonno lungo e senza sogni,
dove domani non c'è risveglio.
Il sole non scalderà più. La pioggia
non bagnerà più. Dormirò
portando con me tutto di te. Dormirò,
un sonno senza risveglio,
un sonno senza sogni.

24 novembre 1972


Infinito

E penso all'infinito.
Penso a tutto ciò che è infinito e finito al tempo stesso.
Penso al mio amore infinito,
al tuo amore infinito,
penso alla mia disperazione finita,
al mio dolore finito.
E questo infinito ha un volto, delle mani, una voce,
questo infinito sei tu, amore mio infinito.

17 gennaio 1973


Pace

Mille mani scarne che si alzano
verso il cielo. Mille bocche che dicono:
Pace. Mille occhi stanchi
della gente, stanchi di aver versato
fiumi di lacrime, stanchi d'avere visto
morte e sangue,
stanchi di veder divise militari,
un raggio di speranza li rianimerà.
Vietnam. Il tuo terreno è bagnato
di sangue, di odio, di vendetta.
La colpa tua non è, ma dell'odio e del possesso
che è racchiuso in noi. Vietnam.
Pace per i bambini, pace per i vecchi,
pace per le madri, pace per le vedove. Pace
imploriamo per noi e per l'umanità. Vietnam.

19 gennaio 1973


A mio figlio

Un giorno sentirò palpitare in me, nuova vita.
Ogni giorno vivrò per quella vita che sboccia in me.
Io ti amo, ancor prima che tu fossi concepito,
ancor prima che tu fossi una realtà, una dolce
realtà, io ti amo.
La casa sarà piena di te, di te che mi chiami
mam-ma - pap-pa - na-na
Chi sei? Cosa sei?
Sei tu piccolo cucciolo,
sei tu piccolo uomo.
Un profumo dolce di borotalco.
Un profumo tenero.
Un gridolino, un lamento. Mam-ma-

5 febbraio 1973


Io e te

Sono triste questa sera.
Sono triste per amore.
Tu lontano dai miei occhi.
Tu lontano per amore.
Sono triste, perché non ti vedo.
Sono triste, perché sei lontano.
Sono felice quando ti vedo.
Sono felice quando ci amiamo.

6 febbraio 1973


A mia nonna

Mille rughe stanche solcano il tuo viso.
Le tue mani si uniscono in grembo, stanche.
I tuoi capelli bianchi.
Con il camminare lento e trascinato.
Ti ricordo sempre così.
Con i tuoi grembiali neri.
Con il parlare dolce in ciociaro.

16 febbraio 1973
 


 
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Stefania Del Bene
[ valchiria.db@tiscalinet.it ]
 
POESIE
 
Complice la notte…

Complice la Notte
Non penso, sento
Respiro questo soffice buio
Che placido s'insinua
A placare l'inconscio
Ricolmo di turgido odio

Complice la Notte
Non mi torturo, mi esploro
Inoltrandomi nel sinuoso
Arcano del mio io
Io, silenziosa visitatrice
Del dedalo incantato

Complice la Notte
Non mi nego, mi offro
Rispondo languida al suo abbraccio
Tenebroso e vorace

Complice la Notte
Non mi nascondo, mi svelo
Sensuale dea della Luna
voluttuosa Vestale del sacro tempio

Complice la Notte
Non sogno, oso
Come solo l'invisibile Notte
Sa osare…


Crepuscolo

Nulla sarà più come prima
Anche l'impalpabile aria
Lo sussurra all'orecchio

Nell'eco si annulla la voce
Di ciò che è stato e mai più sarà

Ascolta la magia del crepuscolo:
Ali leggere, fendono il cielo
Sublimando la quiete sovrana

L'incanto fissa l'istante prima che muoia
E giaccia solitario
Come un foglio dimenticato sullo scrittoio

Mentre frammenti di parole
Si dissolvono
Sbriciolate dal tempo


Immemore

Se correre nuda a perdifiato nel bosco
Così improvvisamente
selvaggia e primitiva
Graffiata dai rami protesi
Sferzata dal fogliame intricato
Potesse spezzare il fluire del tempo
Disperdendo nella folle corsa
Ogni vincolo, ogni singola percezione
Di un principio e di una fine
E polverizzare la memoria
Come un pensiero inghiottito
Dalla sabbia del deserto,
Allora si, che ormai immemore
potrei fermarmi
Catturando nell'aria che respiro
La vera essenza dell'essere
Non più prigioniera del tempo
Non più schiava del divenire
Mai più dominata dalla morte.
 


 
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Mario Amato
[ marius2550@yahoo.it ]
 
VISIONE
 
Ti ho visto
Fanciulla
E più e più ti ho sognato
Fra grigio strepito di città
Sola
Di nero vestita
Uno sguardo lieve
Fra noi
Ignoti per l’eternità
Mi sono perso
Nelle striature dell’iride

Ti ho visto
Fanciulla
Ed ho recitato
Mille versi di mille poeti
Hai studiato poesia
Nei giorni di scuola
Nelle mie passate esistenze
Il verso che ti commosse

Ti ho visto
Fanciulla
Ed ho immaginato
Mille paesi incantati
Io amanuense
Che copia fiabe
Lettera per lettera dai tuoi occhi
 


 
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Massimo Silvestri
[ mose@email.it ]
 
NEMESI
La sorella oscura del sole
 
immutabile
in lenta rotazione oscura
vaga la sera
e la città cinge
infrange le sue mura
e schiuma
in forme assorte
aloni
e echi rotti
e vibrazioni
e l'eternità distratta
costringe in folle lotta
alla gravità che incombe
e i residui istanti
strappati al tempo
espande in universi nuovi
umilia in stato di quiescenza.
vaga la sera
infrange le sue mura.
caotici sistemi
pensieri ribelli
vicini
troppo
ancora
all'alba del creato.
e vaga
sorella oscura del sole
con la paura con il terrore
come il pensiero vuoto
come il freddo
come un'ombra.

leggendo LA LUCE DELLA NOTTE di Loredana Rea
dalla prima riga "nell'incertezza della vaga luce della luna"
 


 
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Amedeo Di Sora
[ teatrodellappeso@libero.it ]
 
LA POESIA O " DELL' INUTILITA' "
 
Mi piace principiare questo mio breve intervento con una definizione della poesia che proviene da un grande artista polacco scomparso da qualche anno, maestro della scena teatrale e non solo: Tadeusz Kantor. Cito dallo scritto I territori verticali della poesia dell'amico Alfonso Cardamone che è contenuto nella pubblicazione comune del 1989 dal titolo Labirinti di letteratura e di teatro (Ed. Dismisura): " La poesia viene non si sa da dov e al suo sopraggiungere il tempo e il luogo cessano di esistere . La poesia conduce alla porta della Grande Signora della Morte e dell'Amore". Ho voluto iniziare con queste parole di Kantor perché esse attribuiscono alla poesia un'origine misteriosa, un potere magico, una dimensione altra e la capacità di coniugare "ciò che è in basso con ciò che è in alto", ovvero: l'Inferno e il Paradiso.
Per me la poesia è innanzitutto un gioco. Solo giocando, infatti, si perde la radicata convinzione che ciò che ha senso sia più importante e determinante di ciò che non ne ha. Solo accettando fino in fondo la scelta del non sapere, il poeta si cala negli inferi, penetra la propria morte, si pone alla ricerca della vera notte, dell'altra notte, consapevole del fatto che il significato drammatico dell'esistenza non risiede nell'incertezza e nel dubbio della salvezza (come secondo la tradizione religiosa), ma nel semplice fatto di esistere. La poesia, intesa come gioco, è un'attività inutile, nel significato che Georges Bataille attribuiva a quest'aggettivo, e cioè di quello che al bambino è permesso e che all'adulto è proibito in quanto ormai è cresciuto e deve servire.
Tra la poesia e il negativo esiste un rapporto profondo: la parola poetica (come l'opera d'arte in generale) si costituisce come tale proprio nel rifiuto del linguaggio positivo e servile dell'economia e della logica. La poesia è un linguaggio libero da intenzioni utilitarie e progettuali: essa è la perversione e il sacrificio delle parole. Perversione perché, come ha mostrato Mallarmé, distrugge le cose che nomina nel loro valore usuale; sacrificio perché è l'espressione nell'ambito del linguaggio di grandi sprechi di energia. All'interno di questa accezione della poesia si colloca l'esperienza estetico-politica, ormai trentennale, della rivista Dismisura diretta dal già citato Alfonso Cardamone e della cui redazione, da un ventennio circa, faccio parte, la quale indica nell'alterità la proprietà specifica dell'arte, in quanto essa è dispendio, negazione della negazione, utopia concreta. Pur nella consapevolezza che l'arte, nell'ambito della dismisura, non può rinunciare ad una regola e ad una misura, per non ridursi a mormorio confuso, grido inarticolato o sterile silenzio. E il negativo non si sceglie, si espia. Come scriveva Bataille: "Se non si espiasse, (esso) avrebbe qualche punto di appoggio, cercherebbe l'impero, la durata. Ma l'autenticità glieli rifiuta: esso non è che impotenza, assenza di durata, distruzione piena di odio (o gaia) di se stesso, insoddisfazione". Un'insoddisfazione che neanche l'amore può colmare, a meno che esso non sia l'approvazione della vita fin dentro la morte". In questo senso la poesia è un'accensione dismisurata del desiderio erotico che tende alla fusione di Eros e Thanatos.
La poesia è altresì attesa ("sono innamorato? sì, poiché attendo", scriveva Roland Barthes in Frammenti di un discorso amoroso), capace di garantire la durata inesauribile dell'avventura, che non si definisce come aspettazione di qualche cosa di noto o di conoscibile, ma semmai è uno stato d'animo, una condizione atematica. La poesia è assenza, intesa come facoltà di non farsi travolgere dalla meccanica delle cose e di mantenere desto il senso dell'attesa.
La condizione del poeta è per me quella dello straniero che partecipa dei simulacri della realtà. Come il dandy egli è un esule, che ovunque avverte il senso dell'inappartenenza in questo mondo. Come il dandy è uno straniero che partecipa non solo al dispiegarsi delle trame del sociale, ma anche al farsi e disfarsi della propria coscienza e dei propri sentimenti. E come il dandy il poeta conosce il valore dello "stile" e della "forma", sa praticare l'arma dell'ironia e dell'autoironia ("le persone serie - era solito ripetere Marcel Duchamp - sono dei potenziali tiranni").
La poesia "autentica" non può non essere "inattuale". Essa deve segnare una profonda differenza nei confronti dell'ambiente della poesia attuale, infestato da pseudo sperimentatori algidi ed impotenti, da rovinosi pterodattili in cerca di vanagloria da premio letterario di terz'ordine, da giovani-vecchi bramosi di aureole da supermarket: individui che con l'autentica poesia non hanno nulla a che spartire perché essa è ancora, nonostante tutto e tutti, grumo sanguigno, parte maledetta, solitudine e disperazione.
La poesia non può che essere, oggi, lucidamente disperata. Fin dai tempi di Leopardi e di Baudelaire sappiamo, d'altronde, che i soli versi credibili sono quelli malati, quelli che fioriscono nei rovinosi deserti della nostra cosiddetta "civiltà". In quest'era "globale", contrassegnata dalla cifra totalizzante della merce e del denaro, la poesia si rivela sempre più inutile: è dispendio, atto escretorio, riso e pianto, sospensione del tempo reale, parola smarrita e ri-trovata, autentica e non omologata. E chissà se ha ancora ragione il grande Majakovskij, uno dei miei amori poetici più vibranti, ad affermare che le parole dei poeti "mettono in moto/per migliaia di anni/milioni di cuori".
 


 
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Oreste Bonvicini
[ oreste58@ciaoweb.it ]
 
ATTRAVERSANDO LA CITTA'
 
"Alla Madonna del Monserrato
la spagnola pietà edificò
l'alessandrina conserva"


Nomi di paese:
Alessandria
nell'identità odierna e sconosciuta.
Nomi sulle cassette della corrispondenza
sulle porte sbarrate e chiuse.
Le inferriate blindate
sulla via battuta da pochi passi:
negozi
con orari assurdi.
Lingue incomprensibili
sulle labbra di volti levantini.

Il colore della pelle.

Sui tetti delle case esagerano parabole
rivolte verso invisibili fonti.
Satelliti
vertici geostazionari sul nostro capo:
riflettono segnali lontani.
Il caos delle teletrasmissioni
che urlano di guerre.

Tu sai, -hai detto-
la furia omicida
non indossa
i panni della pietà.


E la pietà presto si nasconde
nell'oblio del tempo.
Ma l'amarezza stende un velo sulla memoria.
Perché?

Eppure la storia,
crudele questa storia degli uomini,
raccontata dalle immagini
vedute e rivedute
ripetute
rivissute,
nutrendo illusioni
vorrebbe forse poter mutare
il correre degli eventi.
Educazione.
Civiltà?

Nomi sconosciuti
in questa pomeriggio
attraversando la città.

Ho dimenticato le origini delle mie illusioni.
Presuntuosamente
ho creduto le mie parole
potessero scalfire
la scorza inattaccabile della città.
Le città stanno morendo.
Lasceremo un segno?

Ecco, entro in libreria.
La musica accompagna tra scaffali
gravidi di libri e fotografie.
Mi angoscia l'idea
aver creduto un giorno
leggere il mio nome
tra nomi centinaia sconosciuti
e pochi troppo noti.

Chi legge ancora?
O scrivere è furia personale
che subito consuma e scema?
Forse chi scrive non rilegge.
Aspira all'Olimpo della memoria.
Quanti attraverseranno
l'impercettibile frazione dell'infinito?

La vita appesa ad un filo.
La vita delle parole
poco più di un sospiro.

 


 
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Silvana Poccioni
[ g.bucci@tin.it ]
 
IL RISVEGLIO DELLA BELLA ADDORMENTATA
 
...e il cantastorie iniziò il suo racconto:

Scura in volto e minacciosa, la fata cattiva guardò la piccola Rosaspina, che dormiva tranquilla e ignara nella culla, e le lanciò la sua maledizione: un giorno la principessa si sarebbe punta con un fuso che l'avrebbe uccisa.

Ma la dodicesima fata, che aveva ancora in serbo il suo dono, trasformò il presagio di morte in un sonno di cent'anni.

Rosaspina crebbe e la triste profezia si avverò. Il fuso era sinuoso e girava veloce. Volle provare a prenderlo in mano e, mentre una gioia indicibile le invadeva il cuore, si punse. Sugli occhi le cadde oscura la notte e per cent'anni non vide che buio.

Tutto intorno a lei si fermò. Sotto le palpebre chiuse la Vita si era distesa al suo fianco e aspettava con lei che arrivasse il termine dato per risvegliarsi.

Il sole non tramontava e la luna immobile tra le stelle vestiva di luce argentata valli e colline. I fiori tenevano aperte le loro corolle e i colori tingevano i prati senza stagioni.

Nel sonno sicuro scorrevano i giorni, i mesi, gli anni. Nulla mutava dentro il suo cuore. Rimanevano uguali a se stessi uomini e cose, e non solo le forme esteriori restavano identiche, ma anche pensieri, emozioni, promesse e ideali. Al risveglio avrebbe trovato immutato il suo mondo, com'era nei patti.

E dopo cent'anni, com'era nei patti, un principe venne a svegliarla, ma nulla era più come prima.

Il principe non era né biondo né bello e il castello in rovina era pieno di gente che non conosceva. Rosaspina si aggirava nelle stanze che un tempo l'avevano vista felice e le scopriva ormai vuote e polverose. Nemmeno gli oggetti più amati riconosceva e seppure qualcuno poteva sembrare più noto di altri al suo sguardo, non riusciva per questo a parlare al suo cuore.

Mentre vagava con l'animo colmo di muto sgomento, vide in fondo ad un lungo corridoio oscuro un enorme specchio, in cui si rifletteva la sua immagine, sempre più grande e nitida man mano che si avvicinava. Ad ogni passo nel petto i battiti del cuore divenivano più veloci e le risuonavano come tamburi nelle orecchie . Poi di colpo tutto si fermò e nel silenzio l'immagine nello specchio parlò, con la voce di Rosaspina invecchiata di cent'anni.

"Non esistono le fate, né buone né malvagie. Gli incantesimi non sono nient'altro che le scelte umane, e da chi le fa vanno accettate, siano giuste o sbagliate. Il fuso che affascina prillando allegramente può pungere e uccidere, ma non è un sonno di cent'anni che ci ridà la vita né il bacio di un principe, che non sarà mai più lo stesso della fiaba. Guardami negli occhi adesso, con coraggio, e leggerai la storia senza veli di Rosaspina, che aveva voluto sfidare il destino giocando col fuso e poi si era illusa, dormendo, di ritrovare al risveglio immutato il suo regno."
 


 
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Silvana Poccioni
[ g.bucci@tin.it ]
 
FILOSOFIA AUTUNNALE
 
Sul cornicione
qualche foglia secca di gerani
una cicca spenta di sigaretta
e un passero che tenta col becco
il filtro biondo di nicotina
per convincersi
con un po' di fantasia
che la fame può farlo
commestibile
basta volerlo.
Più in là
il tronco spoglio del salice
non più piangente
dopo la salutare potatura
salvo le poche tracce
delle sue lacrime ingiallite
sparse qua e là sull'erba.
Ridono
tra il verde bruno e l'ocra
le bacche
provocatoriamente rosse e corpose
di un falso melograno.
Meraviglioso
Autunno.
 


 
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Massimo Silvestri
[ massimo.silvestri@bms.com ]
 
GENESI 1
 
e gli universi il costruttore pose
in qualità rarefatta
di forma e di energia
nel nucleo splendente
con i semi del principio.
pose dentro le misure
di spazio e tempo
d'invisibili pianeti
di materia oscura
con i probabili strappi
tra l'ignoto e il vuoto che la luce
aveva timore a superare.
nella danza di durata infinitesima
tra l'essere e il morire
pose l'eternità e l'istante
accanto al mare delle particelle effimere
al collasso ultimo e puro
al disordine fatale.
nel labirinto degli universi disperati
plasmò la gravità
e la scolpì nel tempo
infranta già in una selva di zeri
e di infiniti inutili
issata già sulle spalle di mutevoli giganti.
dentro uno spasmo singolare
infine mescolò le ombre
dei gorghi e dei globuli stellari
con la polvere esalata dalle altre stelle
e lacerò un punto e il nulla
sporgendo nel vuoto circostante.
tra configurazioni indecifrabili
dilatò e concentrò immense schiere
di universi paralleli
e con soffio solitario
quel vecchio primordiale
congiunse e fuse l'origine e la fine.
 


 
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Alfonso Cardamone
[ a.cardamone@email.it ]
 
TRA UTOPIA E DISTOPIA: LA SCIENCE FICTION
 
Chi, ponendosi alla ricerca di risposte convincenti e non corrive, intendesse approfondire gli ambiti di significazione, anche i più riposti, impliciti in quel fenomeno letterario e, per varie forme, artistico che va sotto il nome di “science fiction”, non avrebbe che da sfogliare (e non certo sbadatamente) il libro intitolato, appunto, “Science Fiction”, a cura di Franco Monteleone e Cecilia Martino, pubblicato da Bulzoni nell’ottobre dello scorso anno.
L’opera, che si presenta come una raccolta di saggi e interventi sul tema, viene proposta nella sezione Studi sul cinema della Collana “I libri dell’ Associazione Sigismondo Malatesta”, ma in realtà è sufficiente scorrere l’indice generale per capire, già alla prima occhiata, che si è andati ben oltre il semplice ambito cinematografico.
Dal saggio introduttivo di Romolo Runcini (La locomotiva e l’elfo. Tecnica e fantasia nel cinema di fantascienza), che fornisce le coordinate fondamentali della SF, come “ultima fase diegetica del fantastico”, sia per quanto attiene al piano filmico che a quello letterario; agli interventi conclusivi di Michele Fadda («Where Am I?» Gli incerti epiloghi dello sguardo e dell’identità nella SF hollywoodiana contemporanea) e di Vivian Sobchack (Love Machines. Spielberg/Kubrick, Artificial Intelligence and other Oxymorous of SF Cinema), che apre squarci inquietanti “sull’immaginazione tecnologica … dell’America contemporanea e sulle sue visioni inconciliabili e irresolute di un futuro impossibile e disumano”; la raccolta allarga e distende l’indagine critica fino a coinvolgere la SF nelle dinamiche politologiche (G. Cremonini, Fantastico fantascienza fantapolitica), o in quelle mitopoietiche (F. La Polla, L’alieno dai mille volti. Mito e SF), o ancora nel rapporto presente-futuro (C. Pagetti, Il futuro immaginario della fantascienza. Vivere un altro presente), proiettandola magari sulle frontiere del virtuale e del cyberspazio (interventi di V. Fortunati, G. Canova, M. Spanu), indagandola nelle relazioni tra fantascienza e orrore (P. Rouyer, Le sang de la nouvelle chair. Le gore dans la Science Fiction) e, infine, negli aspetti tecnici degli effetti speciali (M. W. Bruno, SF & SFX. Il ruolo degli effetti speciali).
L’asse portante dell’opera è comunque costituito dal saggio di Romolo Runcini, che trova una significativa complementarità in quello di Pagetti. Non a caso, infatti, le conclusioni vicendevolmente si completano.
La SF, analizzata nelle sue implicazioni politico-sociali, configura, in ultima istanza, come scrive Runcini, “l’enigma radicale del nostro tempo”, la domanda su quale sia “il confine fra reale e irreale”. E se Runcini conclude sostenendo, con apparente paradosso, che “Oltre le soglie del Terzo Millennio la SF, come ultimo racconto fantastico, si rivela, dopo l’inevitabile esaurimento della prospettiva realistica giunta agli estremi del minimalismo, il solo genere artistico e letterario in grado di interrogare gli abissi del reale”; Pagetti gli fa eco dichiarando che “Lo scrittore –anche e forse soprattutto lo scrittore di fantascienza- può rappresentare un’alternativa all’incubo del presente e, in questo modo, restituire all’utopia il senso di una speranza di riscatto di fronte ai fallimenti più clamorosi della Storia a lui contemporanea”.
In realtà, i due saggi, procedendo lungo percorsi segnati da topoi invertiti (quello di Runcini dalla letteratura al cinema, quello di Pagetti dal cinema alla letteratura), incardinano ambedue i rispettivi itinerari di ricerca sulla dialettica utopia/distopia, come centrale alla definizione sostanziale del complesso diegetico della Science Fiction.
Se la SF è spesso raffigurazione di un ipotetico futuro, è vero però che questo futuro, per Pagetti, “è un copione che viene continuamente riscritto e modificato in base al suo ipotetico rapporto con il presente”: “Il futuro inseguito dalla fantascienza non può essere altro che un presente modificato”. Significativa variante dell’utopia o della distopia novecentesca, il futuro immaginato dalla SF “vuole essere esplicita riaffermazione di una ideologia capace di denunciare i guasti del presente e di individuare le responsabilità storiche e politiche di chi detiene il potere”. Dunque, accentuazione della funzione politica della fantascienza, come “vocazione non soltanto di denuncia, ma anche di proposta e di alternativa”. Ed ecco che, in questa prospettiva, “le immagini del futuro e i miti dell’origine finiscono per sovrapporsi e per convalidarsi a vicenda”.
Esattamente come sostenuto nel saggio d’apertura da Romolo Runcini con le metafore della locomotiva e dell’elfo. La prima, già immagine forte della «railway mania» dell’età vittoriana, al tempo stesso “simbolo vivo di potenza tecnica” e veicolo di “timori di una eventuale perdita del … controllo sociale”, definisce simbolicamente l’ambiguità dell’ “impatto della macchina sulla scrittura letteraria e filmica” della Science Fiction nel suo sviluppo storico. La seconda, “stereotipo popolare di antiche presenze magiche”, legate agli aspetti più oscuri e intimi di una natura elementare e selvaggia, finisce per coagulare “scenari e desideri infantili di libertà, solidarietà, fantasia”, offrendo alla SF “un’ampia risorsa naturale di immagini e sensazioni disposte a mantenere in campo il giusto equilibrio fra Tecnica e Fantasia”. Da Metropolis di Lang, del 1927, il cinema di fantascienza rappresenta il genere che “con maggiore ampiezza e profondità” esprime “lo stato di spaesamento di fronte all’ambiguità e alla minaccia globale degli eventi”, dalla paura della «bomba» degli anni Cinquanta, alla mentita pacificazione del mondo seguita alla caduta del muro di Berlino, fino “alla complessità ed enigmaticità della condizione umana ormai soggetta alle sempre più rapide e violente spinte della mutazione antropologica e culturale della nostra civiltà telematica”, responsabilmente testimoniata, ai nostri giorni, secondo Runcini, dalle esperienze cinematografiche di registi come Salvatores, Cronenberg, i fratelli Wachowski.


marzo 2004
 


 
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Cristiano Turriziani
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D.A.F. DE SADE: PER UN’ET(H)ICA DELLA PERVERSIONE NELLE COMPONENTI PSICOLOGICHE E FILOSOFICHE
Il fallimento della morale comune e il trionfo dell’ O-scena ripetizione dell’ ir-rappresentabile nell’ Opera Sadiana di Carmelo Bene
 


“Il teatro di Carmelo Bene è evento. Non che si tratti di un momento particolare della storia del teatro; è invece, nella storia, l’ evento stesso del teatro. Rivelazione su un modo apocalittico di quanto accade senza mai essere cominciato, senza mai essersi ripetuto.
Antistorico, il teatro di Carmelo Bene lo è nel senso più ORIGINARIO: facendo della rappresentazione la storia di un non – luogo, provoca il non – luogo della storia“.

Camille Dumouliè “Carmelo Bene il teatro senza spettacolo“ Marsilio ed., Venezia 1990.

Un teatro subordinato al testo “è un teatro di idioti, di pazzi, di invertiti, di pedanti, di droghieri, di antipoeti di positivisti, in una parola di Occidentali“.
Antonin Artaud “Il teatro e il suo doppio“ ed Einaudi (in traduzione)

“Il discorso non è nell’ essere parlante“
J. Lacan – Scritti ( in trad. ) – ed Einaudi

“7.Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.“
L. Wittgenstein “Tractatus Logico – Philosophicus“ – Einaudi

Prendendo le debite distanze dal “teatro della crudeltà“ di Artaud(1), primo metodo di “sperimentazione“ sonora di un teatro d’ equilibrio tra significante vocativo e significato d’ argomento, “abla – tivo(2)”, Il teatro di Carmelo Bene, evento – spettacolo, risulta sicuramente la forma d’ arte più vicina alla concezione che, questo elaborato, vuole esprimere con il termine: Sadiano.
Il teatro – evento, non luogo del Logos, già detto, perché ac – cade(3) ripetutamente nella storia disinfestata dal permanere paradossale del Geist(4), viene fagocitato e rigettato su un pubblico “spaesato“ di uditori dalla voce – suono di Carmelo Bene; cosi come, l’ Opus Sadicum non va, stilisticamente, intesa come scrittura im – pressa, nata cioè da impressioni, ma un riflettente - si che trova la sua autoreferenzialità nell’ Altro del discorso.
In parole povere: due arti, quella di Bene e quella del nostro Divin Marchese, speculari, nel senso che si riflettono nelle caratteristiche di soggetti rappresentati dalla continua mancanza del Sub – jectum(5) stesso; che non è Totem, bensì nascondimento, tabù(6) del non poter – si dire che diviene, nella propria rappresentazione una sorta di semi – tacere.
Ingerire, fagocitare, e ri – gettare: ecco, in sintesi, il “lavoro“ meccanico, da macchina, che l’ attore, agente di (s)cambio, si trova costretto a fare per sopperire alla devianza patologica della mera rappresentazione teatrale: schema grottesco dell’ essere, noi stessi, una parodia.
L’ andare Oltre (Über) che ci ri – manda su (Oben) quella linea (Die Line) (7) di confino che viene ad essere la nostra carica “positiva“ e loquace di soggettivismo votato al dover apparire senza saper di essere chissà cosa; la maschera dalla quale giammai potremmo scappare che ci porta, in primis, ad inscenare lo squallido luogo di noi stessi tramite l’ azione recitata, presenza – immanenza del Verbum teatrale(8), palinsesto del dramma – Comoedia.
Sade scrive un sorpasso; e il teatro di Bene, lo attua allo stesso modo in cui codesto viene a nascere.
La com – presenza dell’ autore nel testo de – limita, di per se, un’ assenza forte. V’ è l’ autore solo quando non c’ è l’ opera; ma quando si in – scena l’ Opera l’ autore viene a mancare.
Cosi Sade scrive recluso, nascosto nelle fortezze o celle di manicomi senza avere volto, senza essere per – sona; Cosi Carmelo Bene attua lo sconvolgimento del se stesso. Dallo Ça parlè Lacaniano, volge attraverso un Ça manque di natura post – esistenzialista.
Corrode la scena per essere corroso; vive, per la morte del teatro come luogo di misure.
Cosi come nelle Centoventi giornate di Sodoma di de Sade v’ è, nell’ atto, caduta improvvisa dei ruoli assegnati e la denigrazione dell’ autoreferenzialità dell’ Io agente in tanti piccoli e ironici io agiti, cosi nel teatro – evento di Bene v’è il superamento del “Double“: del “Doppio“.
Doppio come “logica delle parti“, scissione Archetipica di quell’ Una pars che continua a ribadirsi nel non dire nulla perché soap – portatrice della Colpa scissa e introitata nella coazione a ripetere dell’ Alter Ego: L’ (H)Uomo.
La necessità insita in questo gioco è, ancora una volta, l’autoreferenzialità del termine; v’ è sempre una parte x, che si deve (Du sollst!) autodefinire, o meglio, presentare ad una y, per riba – dire a se stessa, che si è nell’ incertezza di uno spazio presunto seppur predefinito.
salve, sono il dottor x, piacere di conoscerla. Chi è lei?
Io sono l’ ingegnere y, lavoro per conto del dottor z, proprietario dello stabilimento c sito in via d nella città e, etc…
Autoreferenzialità come “schema mo – rale“, fattore fondante del nostro linguaggio ci rinchiude nella logica dell’ “autos da fè“ degli attributi dell’ essere: diabolici, perché gettati doppiamente (ancora!), mascheramenti di una realtà che potrebbe o non essere (aut) (9) o essere, di matrice Altra.
Dal momento che si accolla l’ onere gravoso di testimoniar–ci come persone giuridiche, automaticamente, Amor nefas, di – veniamo portatori sani di un male incurabile: il linguaggio.
E ci muoviamo, o meglio, le nostre azioni sono mosse da questa “arma a doppio taglio“: il dir – si che deve scovare sempre l’ autoreferenzialità dell’ oggetto stesso!
Il linguaggio: questa prostituta di cui, noi tutti, siamo clienti !
Carmelo lo sapeva Bene!
Una “vita“ votata all’ annullamento di se stesso non dentro ma, semmai attraverso una riformulazione dell’ opera; cosi come Sade, entrambi si muovevano in spazi ben definiti. altra era la mera vita biologica che dovevano svolgere, Altro era la “carriera artistica“, consapevoli entrambi di urlare nel pozzo e di scrivere al buio.
Carmelo come Donatien: entrambi sorvegliati e puniti(10).
Da chi ? da che cosa ? Dai “sentieri interrotti“ della Lengua vulgaris
(linguaggio “d’ uso e consumo“ che, nel nostro vascello Occidentale è anche lingua d’ arte); dalla mancanza del terzo orecchio e dalla in – gerenza degli altri due: centri di sviluppo di un potere votato al successivo tra – dirsi delle voci; conseguenza del traviamento delle coscienze nella confluenza illogica e patologizzante della “Coscienza comune“.
Giustificata giustificazione del “fare attraverso il dire“ rendendo norma la peculiarità del discorso forte, fondato, (per forza) sempre contraddittoriamente sulla ragione debole che, volentieri, tende a mutare in dogma di fede!
Paradosso di Zenone; “l’ Achille del linguaggio“
V’ è l’ esistenza di una svariata infinità di linguaggi, che testimoniano una infinità variabile (variante data dalle Forze agenti! ) di costumi e costumanze e un “unico“ modo di intendere un fattore che partendo dal biologico lo nega per elevare L’ Homo. humus al “deplorevole“ stato di Vir – tuoso facendo ‘sì che venga a cadere il suo stesso principium individuationis all’ interno delle Specie e dell’ universo: il suo Ethos: la sua Di – mora.
La morale è il luogo dell’ erranza; di quell’ erranza che rende l’ uomo spaesato. E il mezzo dell’ erranza è la tracotante im – manenza del linguaggio: “passaporto del senso“.
La voce di Carmelo Bene è il melo – dramma della lingua.
In lui s’abbandona il signum e senso e avanza Nietzschianamente, con passi di colomba(11), “la musica che sta dietro le parole“
“[…] la passione dietro questa musica, la personalità dietro questa passione: quindi tutto quanto non può essere scritto. Per questo lo scrivere ha cosi poca importanza“
..
Riferendosi indirettamente all’ o – scena (cioè fuori scena) ir – rappresentabilità dell’ arte Sadica nell’ Opus di Carmelo Bene, Sergio Colomba nel suo articolo intitolato: “La voce come consolazione metafisica del misfatto teatrale ovvero: un orecchio in più“(12), scrive:
Manfred (Carmelo Bene) è una voce.È un’invenzione vocale che vive di vita propria; la tecnologia, per Carmelo Bene, è la proiezione dell’ irrapresentabile. Carmelo Bene non vuole rappresentare, non intende comunicare nulla […]
Bene ha portato alle estreme conseguenze, quanto già era contenuto in Romeo e Giulietta., in Riccardo III ed in Otello: la cui musicalità interiore e segreta intrecciava sottilmente e fondeva armonicamente due registri. Quello della voce – linguaggio – musica […] ; e quello della musica vera e propria, contrapposta alle acrobazie vocali ed alle dissonanze del virtuosismo apparente dell’ uomo - orchestra Carmelo Bene. Questo secondo registro spesso si inseriva quasi violentemente nell’ altro, per frantumare la resistenza dei concetti, il pericolo delle concettualizzazioni[…]
Per Carmelo Bene il personaggio non esiste da sempre […] cosi come non esiste l’ attore, manca “Lacaniamente“; e Bene testimonia questa assenza, la esibisce, la moltiplica in scena[…]
Carmelo Bene, dice Gilles Deleuze, grazie a tutto ciò che ha fatto può rompere con quanto ha fatto[…] segna allora in assoluto l’ inizio di una nuova possibilità di espressione, mentre per chi ascolta significa un modo di rapportarsi attivamente con la musica. Ma la ricerca di Bene è condannata alla dannazione perpetua dell’ eterno ritorno[…].
In Manfred l’immagine è passata interamente nel sonoro, il suono stesso, la voce diventa personaggio. Grazie a Schumann, al quale più che a Byron Carmelo Bene rende omaggio e servizio, la larva del mago Manfred e l’ ambigua oscillazione in cui fluttuano tutte le assenze verbali dei suoi rimorsi e delle sue sensazioni, […] si fondono in unità musicale.[…]
È la poetica dell’ indisciplina, più che quella della interdisciplinarietà […] la musica di Schumann è tutt’ altro che computerizzabile, rifiuta la sistemazione della centralità significante; la voce di Carmelo si iscrive da parte sua nell’ “irrapresentabile“, in quella particolare dimensione drammaturgica cioè in cui conta più quello che non si vede, e in cui si muove l’ attore che non sa dirsi […]
Strana sorte, dice Carmelo Bene, quella dell’ arte. Sempre al suo meglio nei periodi tirannici, mentre nel sistema democratico qualunque manifestazione teatrale si fa sciaguratamente rappresentazione di stato; a quale Medici sarebbe saltato in testa, si chiede, di controllare le rughe sulla fronte della Notte michelangiolesca?[…] la democrazia, dice ancora Bene, è il tramonto del diverso.
[…] Carmelo Bene ha sempre voluto fare “ un teatro per pochi in un teatro di molti “, Manfred costituisce una sintesi anche da questo punto di vista. […]
Scandalosamente proporsi: ecco l’ oscenità di Carmelo Bene che svela , mostra al pubblico il suo “ desiderio titanico di trascendenza”.
Eliogabalicamente darsi tutte le sere: ma chiuso nella privatizzazione più esasperata, in cui coincide sia l’ essenza romantica del nero superuomo Manfred, sia la lotta del Soggetto per svincolarsi dalla Storia, per uscire dal mondano. Deconcettualizzato tutto, liquidato veramente il pensiero, recuperato lo spirito della musicalità e non della musica, la finzione viene soppiantata. Gli affetti, come dice Deleuze, diventano modi; le emozioni cioè corrispondenti, si fanno modi vocali; questo, che è di un’ importanza fondamentale, non fa certo allievi: “Basta appena (dis)fare se stessi“.[…]
3. La comunicazione è qualcosa che va da un “ esterno “ attore cioè che porge la voce in modo quanto mai rassicurante, distante, ad un altro “ esterno “, fino all’ ascoltatore che quella che riceve. Incipit Carmelo Bene, dice Klossowski, e questo processo di mediazione comunicativa si trasforma radicalmente.[…]
Carmelo Bene è lui stesso sintetizzatore
(a mio avviso da poter intendere anche come sùn tèsis: concettuale e di mero instrumentuum vocalis) butta quasi delle schede dentro di sé, le parole invece di dirle le ingoia. E non è. questa, storia di oggi. Qualcuno a proposito di Pinocchio scrisse: “Magico, si recita addosso“[…]
Bene vuole arrivare all’ eroe come sincerità, per dirla con Carlyle. Cominciando ad usare la voce con tutti gli echi oceanici che risiedono in una sola modulazione di frequenza di essa, in un’ altezza di suono, in un silenzio, egli tocca un vertice che si può paragonare, come altezza di rivelazione, all’invenzione dello Sprechsegang Schönberghiano. Finalmente si può giungere a capire, dice Bene, quale implosione ed esplosione di suoni, quale pandemonio di orchestre secolari, ciascuno di noi ha dentro”.
Sade prossimo
al suo Bene.
Immagini proponibili, sicuramente, ma di per sé insite nello spazio letterario che è impossibilità, per l’ autore, di un contatto con la vita stessa e la realtà dei personaggi; asetticità data dalla cruenta de – scrizione fagocitata dalla deglutizione dell’ aborto mancato che è, la concettualizzazione sulla quale si fondano le regole e la giustizia sulla terra; tra simili cosi diversi !
La scrittura di Sade rigurgita ciò che l’ umanità ingerisce; cosi come il teatro di Bene fa con la lingua.
Di un Flusso di sensi e significanti ne fa un Flusso sonoro: testimonianza asettica, anch’ essa, della Voluntas di ri – nnegare il tracotante permanere della scena teologica come luogo del Lògos dove, ripetutamente, s’ inaugura, ac – cade, la storia del testo.
La sintesi teorica di questo concetto è tutta Platonica; del Platone del Fedro: “Appena scritto il discorso si sparge dappertutto e passa indifferentemente tra le mani dei sapienti e quelle dei profani, e non sa distinguere a chi si deve e a chi non si deve parlare“.(13)
Ecco perché, di necessità virtù, l’esigenza dell’ invenzione Beniana dell’ attore come macchina attoriale che sappia non recitare, rappresentare, inscenare,o, ancor più grave, ricordare, ma o- scenamente dire per flussi annullando la possibilità di essere colti nell’ evento.
Eccone una delle sue tante traduzioni: “[…] Finalmente, una trasmissione impossibile, anacronistica.(14)
…Ecco non dico niente. Sto precisando in voce che non dico niente. Un non dico niente che, così, risuona. Non dico niente.
Soffio di vento…divento soffio. Importa solamente come suono, questo non dico niente. Anche se orale, è niente fuori da timbro e tono. Aria d’ ascolto emessa da un pensato, logico senso, un no.[…]
Mi sono degradato anche a poeta…ho scritto la voce, troviera di un poema “ il mal dei fiori “, perché leggere è scrivere, il soltanto lettore è un fuori tema, è un parvenue davanti ad un foglio sempre più sbiancato…

Foglio: sbiancato dall’ eco d’ ogni io o stuprato dal passaggio dell’ Ira funesta che è descrizione di luoghi del non; che è condizione unica, possibile d’ espressione costretta e reclusa; che è nichilismo senza redenzione(15).
Ecco, come da titolo, l’ O – scena ir – rappresentabilità in Bene e de Sade: la consapevolezza, unica e confrontabile con il nostro spazio d’ azione al di là degli “spazi artistici”, d’ esser – ci come larve nel putrido nascondiglio del ventre della terra matrigna.
Scriveva Antonin Artaud nella poesia: Fête règence” (Festa della reggenza): “La même boufissure immense / qui vous empêche de penser / Ch’ange en danse votre dèmence / Hommes, ô larves du crèè (16)
E l’ O – scenità del tutto è il nostro recitare a soggetto ciò che ci accomuna: la nostra perenne mancanza: il vivere per la morte……
Al Soggetto senza protesi: Carmelo Bene è, da me dedicata, questa breve digressione.
Grazie Carmelo…


NOTE
1) A. Artaud (in trad.) “Il Teatro e il suo Doppio“ Einaudi, 1975
2)“Que Abla“ cit. da L. Buñel riadattata con il termine “si parla addosso“ da G. Dotto in “Vita di Carmelo Bene“ – Bompiani 1998
3) AA.VV “Carmelo Bene il teatro senza spettacolo“ – Marsilio ,1990
4) cfr G. W. F Hegel
5) dal latino; nel senso di “gettato – sotto”; “subalterno“; “posto – sotto“.
6) Rim. a S. Freud “Totem e tabù“ – Mondadori, 1999
7) rim. a M. Heidegger, E. Junger “Über die Line“ – Reclam V. (trad it. ) “Oltre la linea“ – Adelphi, 2000
8) cfr il saggio di M. Grande, Il soggetto senza protesi in “C. Bene – La voce di Narciso" – ed Politeama, il Saggiatore, 1982
9) rim a S. Kirkegaard e all’ “Hamlet“ di W . Shakespeare riveduto e corretto con variazioni e voce da C. Bene nello spettacolo “Homelette for Hamlette“, 1987
10) allusione all’ opera di M. Foucault.
11) Cit da F. W . Nietzsche “Also Spracht Zarathustra“ – Reclam V.(trad. it.) “Così Parlò Zarathustra" a cura di G. Colli M. Montinari – Adelphi
12) in "C. Bene – la voce di Narciso –" Il Saggitaore, Politeama, 1982
13) Platone “Fedro“ – Bompiani testo a fronte, 2001
14) Radio 3. Quattro momenti sul nulla – puntata radiofonica dedicata a Carmelo Bene di Maurizio Grande. Ottobre 1996
15) cit. da un saggio del prof. Leonardo Samonà “Nichilismo senza redenzione“ presente nel volume curato da R. Bruno e F. Pellecchia “Nichilismo e redenzione“ – Franco Angeli, 2003
16) “La stessa ampollosità / che vi impedisce di pensare / muta in danza la vostra demenza / Uomini, o larve del creato“ da “Festa di reggenza“ presente nel volume “Artaud: poesie della crudeltà“ trad. e note di P. Di Palmo – ed Stampa Alternativa
 


 
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Mario Amato
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PICCOLO RACCONTO DI NATALE
 
Mancavano pochi giorni a Natale e Frenzifré, che già conosciamo da un precedente racconto, s’aggirava nella sua casa in cerca di un dono. Come aveva fatto già tempo addietro, si recò nella soffitta, forse per pensare, forse perché credeva che quel luogo gli suggerisse un’idea. Quanti ricordi lo assalirono! In un angolo riposava un trenino elettrico, in altro una palla sgonfia, a destra un tamburo, a sinistra una trottola e …in un cantuccio giacevano i primi bellissimi libri, i cui colori adesso erano un po’ sbiaditi. La memoria corse a quel tempo, allorché si sedeva sulla sua piccola poltrona a dondolo e cullandosi sfogliava i piccoli libri per ore ed ore. La sedia era ancora là, ma era ormai troppo grande per sedersi ed allora prese posto per terra ed afferrò uno di quei piccoli volumi. Lo aprì con un senso di rispetto e cominciò a sfogliare le pagine piene di figure e di parole. Le prime parole lette, il primordio della vita dello spirito, un inizio sommesso e delicato, come passi in punta di piedi! Dal piccolo volume, oltre ai ricordi, emergevano figure, emergevano nel senso letterale del termine, perché era uno di quei libri per bambini dotati di strutture di cartone in rilievo: una mucca, un agnellino, un castello. Ad uno ad uno guardò tutti i suoi libri, quelli dell’infanzia e quelli dell’adolescenza, quando le parole incise sulla carta lo trasportavano in mondi meravigliosi ed egli diventava protagonista d’avventure senza fine: traversava oceani su navi di pirati, conosceva mondi e popoli diversi, s’inoltrava in foreste selvagge, trovava tesori su isole sconosciute e tante altre fantasie. Da lontano giunsero i tocchi della campana della chiesa del borgo…uno, due, tre…dodici! Era mezzanotte! Quante volte s’era destato nelle notti di Natale ed aveva udito rumori di passi felpati prima su nel soffitto, poi in sala da pranzo, ma mai s’era alzato vedere chi fosse entrato in casa e del resto lo sapeva: un vecchio signore con la barba bianca, vestito di rosso, che se ne va in giro per tutto il mondo sulla sua slitta trainata da renne parlanti allo scopo di portare doni a tutti i bambini del mondo!

Oh fosse davvero così! Guardare la felicità di un bambino che riceve un dono apre l’anima. Il regalo può essere il più bel giocattolo del mondo o una trottola di legno o una caramella, ma il vero dono è la felicità del bambino con il suo sorriso, che è il sorriso di un angelo. Che tutti i bambini del mondo possano ricevere un dono nella notte di Natale!

Era ormai tardi, la casa taceva, dalla strada non giungeva più alcun rumore, Frenzifré stava seduto con le gambe incrociate, i libri giacevano sul pavimento, quando entrò dalla finestra, che pure era chiusa (!) una folata di vento e sfogliò l’unico volume rimasto chiuso, che restò aperto ad una pagina raffigurante una distesa di girasoli.

Era il primo libro ricevuto in dono, forse a Natale, forse in un’altra occasione. Frenzifré ricordò, non certo quando aveva avuto quel regalo, bensì un personaggio della sua vita che per lui era semplicemente l’uomo dei doni.

Ogni notte di Natale un vecchio signore dai capelli bianchi si recava a casa sua e recava un dono raccontando che quel giorno egli non aveva acceso il camino in modo che Babbo Natale potesse scendere e mettere sotto l’albero addobbato un regalo.

Quel ricordo lo trasportò in altre terre, perché c’era dell’altro: il vecchio signore viveva con una donna che veniva da un paese lontano, da un paese, ella raccontava, dove i campi erano ricoperti di grano e di girasoli ed il cielo era di un azzurro intenso. Questa donna aveva in quel paese due nipoti circa della stessa età di Frenzifré e Babbo Natale o Dit Moròs (così lo chiamava la donna) non dimenticava mai di mettere sotto l’albero i doni per quei due bambini lontani.

Preso da quei pensieri Frenzifré non s’era accorto del trascorrere del tempo e già la luce dell’alba penetrava nel soffitto.

Infine scese, indossò il suo abito da viaggio e si recò alla stazione, dove acquistò un biglietto per una terra lontana.

Seduto nel suo posto accanto alla finestra Frenzifré guardava scorrere il paesaggio dinanzi ai suoi occhi curiosi ed ecco finalmente il paese dei girasoli, che in verità in quel tempo era coperto di neve, ma il cielo era davvero di un azzurro intenso come raccontava la donna dei doni.

Giunto a destinazione, incontrò per la prima volta i due nipoti della donna ed io non so in quale lingua parlarono e come fecero a comprendersi, ma so che tutti e tre sapevano che ogni notte di Natale un vecchio signore dalla barba bianca scendeva dal camino di un altro uomo e portava un dono solo affinché essi sorridessero felici.
 


 
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Alfonso Cardamone
[ a.cardamone@email.it ]
 
IL FANTASTICO
Questioni Metodologiche
 
Quando, il 30 ottobre 1938, a New York, Orson Welles mandò in onda il suo eccezionale adattamento radiofonico della War of the Worlds di Herbert George Wells, empiricamente attestò essere la paura elemento basilare del fantastico.
Non l’unico, ma certo, assieme all’incredibile veicolato dal messaggio, tra quelli imprescindibili a definirne la sfera di connotazione.
La gente che fuggiva terrorizzata alla radiocronaca dello sbarco degli alieni, testimoniava il panico, l’angoscia, il brivido inquietante, che coglie al momento in cui l’ordine delle cose a cui si è abituati viene perturbato dall’improvvisa e sconvolgente apparizione dell’incredibile.
Si potrebbe dire che l’esempio del geniale esperimento di Welles valga come esemplificazione delle teoria del fantastico elaborata da Todorov, basata, appunto, sul principio del perturbante.

Non a caso, Maurice Beutler, curatore della voce Fantastico dell’Enciclopedia Einaudi, con riferimento all’esperimento di Welles, così riassume:
"si assumerà il momento dell’esitazione a credere nella presenza effettiva sulla Terra dei mostri verdi, come quello in cui passa il brivido del fantastico. Fantastico sarebbe, in questo caso, l’incredibile sfumato di paura prima che esso si affermi (falsamente) come realtà terrificante (o al contrario si riveli puramente immaginario)".
Todorov Tzvetan, in La Letteratura fantastica (1970, trad. 1977), parla del concetto di hésitation, sostenendo che elemento fondante del fantastico sarebbe l’esitazione tra due diverse spiegazioni, quando nello svolgimento dell’intreccio di una storia occorra un elemento perturbante: "In un mondo che è sicuramente il nostro, quello che conosciamo, senza diavoli né silfidi, né vampiri, si verifica un avvenimento che, appunto, non si può spiegare con le leggi del mondo che ci è familiare. Colui che percepisce l’avvenimento deve optare per una delle due soluzioni possibili: o si tratta di un’illusione dei sensi, di un prodotto dell’immaginazione, e in tal caso le leggi del mondo rimangono quelle che sono, oppure l’avvenimento è realmente accaduto, è parte integrante della realtà, ma allora questa realtà è governata da leggi a noi ignote... Il fantastico occupa il lasso di tempo di questa incertezza… Il fantastico è l’esitazione provata da un essere che conosce soltanto le leggi naturali, di fronte a un avvenimento apparentemente soprannaturale".
Sulla base di tale definizione, lo studioso costruisce una tassonomia dei generi, segnando una distinzione tra "fantastico" da un lato, "strano" (se si opta per una spiegazione razionale degli eventi), e "meraviglioso" (se si accetta una visione sovrannaturale del mondo) dall’altro.

Ma al concetto todoroviano di "esitazione" noi preferiamo quello di "sospensione" proposto da Paola Di Natale nel suo saggio “La valenza conoscitiva del fantastico” (1995), che vale a rimarcare “la valenza positiva e costruttiva dello sconvolgimento provocato dal fantastico all’interno dell’architettura razionale consuetudinaria”.
Notevole si dimostra, come vedremo, la portata epistemologica (e cioè metodologica) di tale sostituzione.
Per il momento, atteniamoci, metodologicamente, alle conseguenze logiche derivanti dall’accettazione del principio di perturbazione come fondamento del fantastico.

Una prima conseguenza –come sottolinea Beutler- è che per situare il fantastico è “necessario risalire alle conoscenze e alle credenze, proprie di ogni epoca, relative a ciò che può o non può avvenire”.
Questo assioma che cosa comporta? Comporta, per esempio, che, se ci attenessimo rigidamente ad esso, dovremmo ritenere che quando naturalisti antichi e medievali descrivevano mirabilia e miracula, non li concepivano come fantastici, perché mirabilia e miracula non potevano turbare la coscienza di un mondo in cui sovranatura e natura erano indistinte.
In egual modo, ci porterebbe a pensare che “per chi crede ai fantasmi, il fantasma non è fantastico”, e che la “letteratura di edificazione”, da parte sua, a rigore, non è neanche essa il fantastico.
E questo perché il “meraviglioso, che è adesione alla sovranatura, anche se è terrificante, non è a priori il fantastico, che si presenta invece come la messa in discussione di una credenza”(Beutler).

Ma di fronte a tanta apoditticità, ci sia consentita una prima osservazione:
A noi pare che, se il fantastico è fondamentalmente definito dall’irruzione del fattore di perturbazione, esso dovrà essere ammissibile, in linea generale, come momento critico, sia quando irromperà in un sistema razionale d’interpretazione e di spiegazione del mondo, sia quando lo farà in un sistema di spiegazione meraviglioso, cioè irrazionale, in cui tutto è possibile, qualora comunque un elemento sopraggiunga a modificare il sistema delle attese preesistente.
Alcune considerazioni, infatti, si impongono, consigliandoci cautela nell’accettazione rigida dell’assioma:
1) Se un dubbio sussiste, per esempio nella letteratura popolare di taglio meraviglioso, nonostante la comune credenza nei mirabilia e nei miracula, riguardo a prodigi particolarmente spaventosi che si manifestino nel corso della narrazione; o se la fede, nella letteratura di edificazione, “è contaminata dalla malafede, se l’incredulità si mescola alla credulità” (Beutler), allora mirabilia e miracula non potranno non essere percepiti che come fantastici anche in siffatte realtà narrative.
2) E ancora, ci sono critici (come la Di Natale) che a ragione, a noi pare, rompono questo genere rigido di appartenenze, sostenendo che gli esseri mostruosi, “di cui sono popolati il mito” da una parte e “la letteratura fantastica” moderna da un’altra, “-sia pure con differenze notevolissime di significazione e spessore tra i due ambiti- traducono sempre in maniera paradigmatica la tensione dialettica … tra ciò che è considerato normale e ciò che viene percepito come alieno; ipostatizzano, nella forma dell’ibridazione, il conflitto tra l’umano e l’extra-umano”. In altre parole, anche in quei momenti della storia dell’umanità, in cui il sovrannaturale non era distinto dal naturale, comunque una differenza tra l’umano e l’extra-umano veniva avvertita come perturbante e di questa perturbazione i mostri erano il segnale più evidente.

Con i suoi mostri, la letteratura fantastica del moderno si collega alla cultura antica” –scrive la Di Natale-, in cui il teras(il prodigio, il mostruoso) ”è il segno dell’enigma e del prodigioso per eccellenza, che il sapiente è chiamato ad interpretare e a decifrare
Si pensi, tra gli altri, suggerisce la studiosa, all’ Odradek del famoso racconto di Kafka, Il cruccio del padre di famiglia, in cui la struttura dei procedimenti simultanei di costruzione e de-costruzione della rappresentazione, di indicazione e precisione definitoria di particolari uniti all’indeterminatezza del complesso, apre la porta all’irruzione del visionario, “nel duplice senso, richiamato da Todorov, per cui la visionarietà è intesa sia come grado superiore del vedere sia come falsa visione e negazione del vedere stesso”. O, ancora, al Colombre dell’omonimo racconto di Dino Buzzati, l’indicibile mostro da cui il protagonista, Stefano Roi, sarà perseguitato per tutta la vita, un “essere in cui si fondono tratti ‘riconoscibili’ con caratteristiche fantastiche: «è uno squalo tremendo e misterioso, più astuto dell’uomo», con «muso da bisonte», «bocca che continuamente si apre e si chiude», «denti terribili»”, ma che «nessuno riesce a scorgere se non la vittima stessa e le persone del suo stesso sangue»: ancora una volta un procedimento di costruzione e de-costruzione che usa e fonde elementi riconoscibili ed elementi che ne sfumano la connotazione realistica. È un pesce «sinistro», che non ha “consistenza alcuna al di fuori della «visionarietà» concessa alle vittime predestinate”, le quali, comunque, non appaiono “in grado di decifrare i segni ed i messaggi che provengono dall’oltre-reale”. Chiarisce la Di Natale: “Le attese consapevoli del protagonista, e con lui del lettore, risultano spiazzate: sulla linea del meraviglioso le polarità si invertono, i significati slittano a seconda dell’angolo visuale, i segni apparentemente univoci consentono un’interpretazione ambivalente; nell’opaca densità del reale si aprono degli squarci che offrono una via d’uscita dalla limitatezza di ogni rappresentazione e di ogni giudizio. Qui veramente … sta la valenza conoscitiva di un testo come questo: nel suggerire inquietanti possibilità di transcodificazione dei dati esperienziali secondo prospettive che si aprono l’una dentro l’altra e non l’una in successione all’altra; nel configurare la necessità di ricostruire una leggibilità del mondo secondo un diagramma non lineare; nel chiudere sia pur provvisoriamente il circuito tra pensiero semantico, che distingue logicamente, e pensiero simbolico, che congiunge ed unifica, tra razionalità ed analogia; nel ricomporre la polarità di quello che Edgar Morin ha definito «doppio pensiero» (Morin, 1986)”. E in ciò sta, appunto, secondo noi, la maggiore produttività del concetto di sospensione rispetto a quello di esitazione, venendo esso a costituirsi come la dimensione del fantastico che interviene a stabilire “una relazione di tipo epistemologico tra due modalità diverse della conoscenza”, un arco “che congiunge il reale, o meglio l’effettuale, con l’incredibile”. Così il fantastico si fa movimento vivo che (cito letteralmente dalla Di Natale) “dinamicizza la ragione e fa approdare ad una dimensione dalla quale è possibile «vedere con nuovi occhi» (Musil, 1976)). In altri termini, la ragione viene strappata a se stessa e trascinata lontano, deraglia dai binari consueti, vede rompersi le simmetrie; ma dal «disordine» logico –la sospensione- si genera un nuovo equilibrio a livello superiore: dopo aver danzato sull’abisso, la ragione ritorna a se stessa e ri-fonda il reale nella direzione della complessità”.

Tornando, infine, alla relazione di filiazione del mostruoso fantastico moderno dal teras della cultura antica, diremo insieme con la Di Natale, che è indiscutibilmente vero che non si dà teratologia (e cioè scienza e conoscenza del mostruoso), nella cultura antica, che non abbia per qualche verso “rapporto con la conoscenza delle cose oscure, che non sia anzitutto scienza dell’ermeneutica” (e cioè della retta interpretazione di pensieri e credenze anche misteriose). Sempre il mostruoso è portatore di una significazione che allude metaforicamente sia a una conoscenza “altra” del reale, il quale così si appalesa per quello che incredibilmente è, e cioè esso stesso vero labirinto inestricabile, in cui l’inverosimile si nasconde nelle pieghe dell’insospettabile quotidiano -rassicurante e perciò fallace-, e sia a una conoscenza altra di noi stessi, altrimenti inconoscibili a noi stessi. E, in questo senso, il mostruoso non può non essere considerato già interno alle categorie del fantastico, in quanto segnalatore dell’infrazione di un ordine, produttore dell’apertura di uno iato nell’ordine del sapere. Ed anche se è vero che, per noi uomini del moderno e del postmoderno, il fantastico è qualcosa di molto affine con la suspense, come “sfida all’ordine accettato delle cose” (Beutler), sarebbe probabilmente sbagliato, in quanto effetto di un riduttivismo miopemente classificatorio, escludere, per eccesso di rigore, dalla dimensione del fantastico ogni discorso attinente a mitologie e misteri, che formalmente sono di diritto ascrivibili all’universo del meraviglioso.
In verità, il primo codificarsi della letteratura, come sistema di segni che segnali il cortocircuito tra umano e oltreumano, terreno e oltreterreno, in una parola, lo shock del confronto mortale-immortale, si fonda su quella che ho altrove definito la “tavola dei segni di Kessi il Cacciatore” (in A. Cardamone-A. di Sora, Nuovi labirinti di letteratura e di teatro, 1994). Di questo antichissimo mito ittita ci si dovrà occupare anche per evidenziare gli elementi di suspense e di fantastico teratologico in esso già presenti, archetipi imprescindibili per ogni avventura letteraria in cui si faccia esperienza delle modalità attinenti al fantastico-meraviglioso.

dello stesso autore vedi anche su "Tracciati"
Un convivio di sogni

su "The Open Encyclopedia Project"
Fantastico teratologico
La Science Fiction tra letteratura e cinema
 


 
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Andrea Carbonari
[ nc-carbonan@netcologne.de ]
 
DUE DISFANTASMATICHE VISIONI
 
Architetture interne (dettate in sogno da A.C. ad A.C.)

Strutture da riequilibrare
che di continuo cedono;
geometrie perfette che si perdono
in qualche punto dell'infinito
di cui ignoriamo memoria;
pilastri che si sgretolano,
tetti che si scardinano
lasciando entrare mostri
ed imprevisti,
mentre aggrappati alle ultime travi
tarlate
della misura
ci illudiamo che ancora esista
un'architettura interna della vita
riuscita almeno in solida facciata.



La fanciulla e la farfalla

La fanciulla sul filo è già farfalla
sulla spalla si posa di un bambino
a te vicino e subito lontana
salta, balla, alia, gioca a campana
colori beve di profumi e mete
più non conosce.
Ma se scende impigliata è nella rete.
 


 
fant)a(smatico 
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Andrea Carbonari
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IL VILLAGGIO
 
Il villaggio

Ai confini del mondo, in un paese così grande che sembrava sconfinato, viveva un cavaliere, tanto saggio da saper regnare senza far uso delle armi, tanto ricco, da possedere ville, castelli, palazzi, e tanto amato sia dal popolo, che lo stimava per la sua fermezza come per la sua dolcezza, e sia dalla moglie e i tre figli, che ritenevano fosse un gran dono degli dei, stargli accanto notte e giorno.
Il cavaliere, una volta raccolti successi, allori e onori, e raggiunta ormai l’età di inoltrata maturità, pensò che fosse saggio ritirarsi dalla scena, lasciare la conduzione del regno ai tre figli e dedicarsi maggiormente alla sua amata, al giardino e alle letture.
Una vita del tutto contemplativa non si addiceva certo agli impeti di un cavaliere, che, sebbene da tempo avesse deposto cavallo e armatura, sentiva incedere dentro di sé i morsi dell’azione e gli scalpitii di ricerche, conquiste, scoperte; nello stesso tempo capiva però che il suo tempo era passato e che era il caso di far tacere sproni e passioni, in lunghe passaggiate tra le braccia dell’amata e i colori profumati dei suoi immensi giardini.
Tuttavia, proprio come succede a un cavallo, quando briglie e redini non tengono e si spezzano per l’imbizzarrirsi di slanci interiori, così gli occhi del cavaliere, inquieti, curiosi, penetranti, non riuscivano a rassegnarsi alla vita domestica e, se non potevano più cavalcare, decisero almeno di inoltrarsi tra la rumorosa vita del popolo.
Fu così che il cavaliere, all’insaputa della sua consorte, ogni sera al crepuscolo, travestito da contadino, fabbro o mercante, si mescolava alle chiacchiere dei suoi paesani, al vino delle feste di piazza, all’allegrezza dei fantolini cinguettanti e ai corpi di belle etere dalla pelle vellutata e luminescente, per suggere ancora quel nettare della vita che, altrimenti, gli passava accanto, ma senza nemmeno sfiorarlo.
In questo modo il cavaliere, di giorno saggio e misurato, si imbeveva, di notte, come tutti gli uomini che vanno spediti senza voltarsi, di vizi, lascivie e depravate dismisure, che lo facevano sentire uno qualunque in quello sconfinato mare di vita vera.
Tra una chiacchiera, un bicchiere ed un frusciare di seducenti nudità, gli era giunta all’orecchio la notizia che si era sparsa tra i suoi popolani.
Si vociferava infatti di un paese, o meglio, un villaggio, oltre gli ultimi confini dello sconfinato paese del cavaliere, in cui, si diceva, regnassero felicità, pace e armonia inimmaginabili e da cui nessuno si spostava mai per andare altrove; chi vi era giunto, non era mai più tornato indietro e questo era certo segno chiaro ed inequivocabile di quanto felici si poteva essere in quel villaggio.
Il cavaliere, sempre più incuriosito e interessato, si intrufolava in ogni dove, bettole, scantinati, soffitte, vicoli, sottoscala, per sentire parlare i suoi sudditi del prodigioso villaggio, e ne venivano fuori di tutti i colori:
- dicono che vi si arrivi attraverso una scalinata infinita!
- Ma come è possibile che tanti ne parlino, se nessuno è mai tornato indietro a raccontarci come è veramente questo villaggio?
- Eppure sono in tanti, quelli che vi si dirigono...senza lasciare traccia!!
- Raccontano che lì non bisogna lavorare per vivere, e tutti hanno almeno una casa e non c’è differenza fra ricchi e poveri, cavalieri e sudditi.
- E non c’è invidia e tutti sono felici per quello che sono e basta!
- Senza parlare, i cittadini di quel villaggio, si capiscono ugualmente e godono di una pace ed un silenzio, che noi ce li sogniamo!
- Si è sentito riferire che gli abitanti, là in quel villaggio, si nutrono di cibi speciali, fatti di niente, eppure non hanno mai fame...
- Già, mai fame di soldi, fame di successo, fame di potere, fame di gloria...
- E che villaggio è mai questo, se tutti sono così felici? Felici di quel poco che hanno e di ciò che non sono...
- Felici solo di abitare il villaggio, da cui non fanno ritorno...
- Frottole! Sono tutte invenzioni, nulla più!!
Il cavaliere, tanto attratto da tutte quelle chiacchiere quanto disorientato, non sapeva più cosa pensare. Eppure, se se ne parlava così di frequente, qualcosa di vero doveva esserci! Magari non ci saranno tutte le meraviglie di cui il popolo, facile preda di furbi imbonitori, favoleggia, ma di per sé il villaggio da qualche parte dovrà esistere! E se non esisteva entro i confini del regno del cavaliere, doveva proprio essere qualcosa di speciale!
Non stette lì a pensarci più di tanto, ma decise che se tutti ne parlavano, se tanti vi si incamminavano senza tornare indietro, lui, che era il cavaliere, doveva assolutamente prenderne possesso e verificarne di persona la favola o la realtà.
Quella sera stessa, dopo essersi ristorato tra le fresche carni di Leida, la più giovane tra le sue etere, ed aver chiesto alla sua consorte di poter restare solo per la notte, fece sellare dal suo servo di fiducia il bianco Fulmine, puledro snello e scalpitante, indossò l’armatura nera a lui cara, perché con essa tante battaglie aveva vinto e la sentiva foriera di buoni auspici, si infilò in testa l’elmo piumato, di un nero ancora più cupo, e, come se avesse venti anni in meno, spronò Fulmine al galoppo e scomparve, oltre il nero della notte, verso gli ultimi confini del suo regno, accompagnato soltanto dal bianco della luna e dalle stridule voci di gufi e civette.
Cavalcò per tutta la notte il cavaliere nero, illuminato dal bianco della luna piena e da quel suo unico e ossessivo pensiero: trovare il villaggio da cui non si ritorna; cavalcò sino a dove gli alberi si fanno sempre più radi, le foglie all’accartocciarsi stridono e il freddo cala implacabile; cavalcò oltre l’urlo delle acacie falciate dal tempo, dove i gusci di cicale sono scheletri di geroglifici cristallini incavati in filamenti di vitree ragnatele; cavalcò oltre ancora gli ultimi confini dei suoi regni e dei regni conosciuti, fin quando anche l’aria nera della notte si fece densa, pesante, impenetrabile, come un muro di marmo ferrigno che a fatica riusciva ad incrinare; e cavalcò tra le crepe aride di profonde muraglie, tra voci frante, ombre asfissianti, e cavalcò sino ad un fitto nero di nebbia, tanto che non sapeva più se stesse cavalcando su terra, acqua o aria; né sentiva più lo scalpitio degli zoccoli: forse stava cavalcando senza cavallo, ma cavalcò nel nero di quella nebbia fitta e sabbiosa, finché non gli entrò tutta dentro e si accorse che, completamente accecato, continuava a cavalcare, riuscendo a far curvare il cavallo che non percepiva più, su quella strada che non vedeva più e che forse non c’era.
Come un cieco sicuro del fatto suo, perché dentro di sé vede meglio ciò che l’illusione del fuori nasconde, continuò a cavalcare convinto che quella, senza case colline e quotidiane costrizioni, proprio quella fosse la via che dall’inganno consueto del mondo che ci illudiamo di conoscere portasse verso il villaggio oltre gli ultimi confini.
Il nero della nebbia che gli era entrato negli occhi e nella corazza, pur non impedendoli, gli appesantiva però i movimenti, tanto che gli parve di cavalcare, senza corpo e senza cavallo, quel nero denso e coriaceo, che lo stava quasi pietrificando. Con un ultimo sforzo sovrumano riuscì a spaccare quel muro di nero e di nebbia, che, come tanti mattoni di una gabbia, lo stava soffocando e varcò l’ultimo degli ultimi confini di ogni regno come se fosse a cavallo di una crepa di quel muro, costruito di nero e di nebbia.
Una volta al di là del muro, il bianco Fulmine riprese la sua andatura di trotto sostenuto, anche se un po’ stanco, e al cavaliere parve aver ritrovato corpo, occhi e coraggio.
Il nero di nebbia, seppur diradatosi, formava una foschia di vapori caldi e schiumosi che si confondevano con il grigio pumbleo del cielo e di una distesa incolore.
Tra il nero della foschia e il ferrigno incolore di quel luogo sconosciuto, il cavaliere distinse un unico sentiero, che appariva e spariva, che c’era e già non c’era, ma che da qualche parte avrebbe portato.
Prese allora a cavalcare per quel sentiero, quando, di colpo, dal nero della foschia ecco avvicinarsi una vecchina, ricurva, rugosa e ricoperta di veli; più si avvicinava al cavaliere e meno questi riusciva a vederne i tratti, che, tra curve, rughe e veli, comparivano e scomparivano, proprio come il sentiero.
Il cavaliere provò a domandare qualcosa a quella vecchina che, nel suo esserci e non esserci, tirava dritto per la sua strada, incurante di tutto e presa soltanto dalle sue litanie, che, con voce stridula e lontana, andava ripetendo:
«Nulla nostro che sei nel nulla, sia nullificato il tuo nulla, venga il tuo nulla, sia fatta la tua nullità, come nel nulla di sopra così nel nulla di sotto, dacci il nostro nulla nullidiano e rimetti a noi il nostro nulla come noi lo annulliamo per i nostri altri nulla, e non ci indurre in un oltre nulla, ma liberaci dal nulla. Allun.»
Pur non capendo proprio nulla di quella litania del nulla, il cavaliere pensò che la vecchina dovesse provenire dal villaggio misterioso, visto che tanto la sua apparizione, quanto le sue litanie erano del tutto incomprensibili a occhi ed orecchi umani.
Di colpo, infatti, ecco apparire dal nulla, forse da quel nulla invocato dalla vecchina, un paese con tanto di strada principale, piazza centrale, chiese e mura medievali, ma così avvolto in un cielo grigio con qualche sprazzo bianco, da sembrare di fumo, di nulla, inesistente.
Eppure il cavaliere sentiva il rumore degli zoccoli del suo cavallo e vedeva quei grigi palazzi di pietra ergersi davanti ai suoi occhi, anche se tutto sembrava di una immobilità del tutto innaturale.
Per non turbare troppo quella quiete eterna, il cavaliere scese dal cavallo e proseguì a piedi, cercando di capire in che posto era capitato.
Guarda a destra, guarda a sinistra, niente, non si muove una foglia, non si vede traccia di vita. Prosegue verso la piazza che, coperta dal cielo plumbeo, sembra una bara, con quelle sue perfette e rigide dimensioni rettangolari, anche qui niente e nessuno.
Anche l’aria sembra cristallizzarsi in un vetro duro da rompere; aria di vetro che gli impedisce di andare, gli ferisce gli occhi, anch’essi vitrei.
Così, per sfuggire a quella sabbia di arido vetro, si volta e per un attimo, che a dire il vero gli parve un’eternità, e l’immobilità di quel nulla vitreo e quadrato si scioglie in immagini, suoni, odori di una vita del tutto ignorata.
Dell’attimo il cavaliere cerca di coglierne tutto il succo e scruta quel marasma di vitalità dietro di sé con avida intensità di occhi curiosi: alle sue spalle tutto un mondo crepita, si agita, freme.
Per capire meglio la meraviglia di quell’attimo, il cavaliere gira completamente la testa, senza rendersi conto di aver infranto anche l’osso del collo, mentre il resto del corpo lo trasporta, inevitabilmente, in avanti e verso l’aridità di quell’aria di vetro.
Tanto meglio, pensa! In questa posizione può osservare con maggiore attenzione l’attimo di vita alle sue spalle e non curarsi del corpo che procede in avanti.
Ma cosa c’è di tanto strano e particolare in quell’attimo dietro di lui?
Il cavaliere si inoltra nel momento per decifrarne volti e luoghi. E più si inoltra, più l’attimo si dilata, più la testa, dopo essersi del tutto separata dal resto del corpo, vaga all’indietro, più la piazza si anima di rumori, cose, colori.
Vede la bottega del ferraio, in cui aveva imparato l’arte di ferrare il cavallo, di fabbricare su misura spade e lance; rivede il ferraio, con il pensiero lo abbraccia, sorride e dice:
«Mastro ferraio, che piacere rivedervi!! Sono io il „signorino Cavaliere“, come mi chiamavate voi, mi riconoscete? E cosa fate qui, e, ditemi, dove siamo?»
Ma quello non risponde. Sembra non aver affatto notato la testa del cavaliere che scruta il retro di un momento; continua a lavorare, a sudare e a imprecare.
Poi la visione si allarga, il cavaliere riconosce alberi, case, tetti, palazzi, colli lontani e volti vicini, che improvvisamente gli rivelano il mistero del momento:
„Ma certo! - pensa - Ora ci sono! Questo deve essere il mio paese natale. È qui, tra queste case, questi cipressi, questi palazzi, questa piazza e questi colli che sono nato e cresciuto! E tutto, TUTTO, sembra essere rimasto come allora, anche la gente: il ferraio, il bottaio, il mercante, il ciarlatano. Che sia questo il villaggio che sto cercando?“
Di dubbio in dubbio il cavaliere riconosce amici di giochi, amori di gioventù, gialli e rossi dagli intensi profumi, fanciulle che garriscono distese al carminio dei tanti crepuscoli che non finivano mai, e prati di parole a raccontar le stelle, le imprese, le avventure e faremo...andremo...combatteremo...troveremo....sì, troveremo...ma che cosa? Sembrava facile, allora, la felicità, come l’odore del grano illuminato dalle lucciole o il profumo di uva fragola che scorreva tra i seni di quelle fanciulle sotto le stelle.
Essere presente di quel passato lo inebriava e lo sconvolgeva, soprattutto quando vide sfilare davanti ai suoi occhi i genitori in abiti regali e se stesso, fantolino, saltellante qua e là come un leprotto.
Non disse niente. Il passato non poteva rispondere, né poteva tornare, ma da esso si usciva soltanto, sempre e comunque.
Così tutte quelle immagini, di colpo, si ridussero ad un punto nero e la testa, come l’elastico di una fionda che ha lanciato il sasso, tornò nella sua consueta posizione: sul collo di un corpo nero che cavalcava su di un cavallo bianco, mentre dietro il nero nulla aveva cancellato ogni traccia di quel paese del passato, che forse non era nemmeno mai esistito.
Ma se il passato poteva essere soltanto l’illusione di un momento visto di spalle, il villaggio da cui non si ritornava doveva essere solido e reale, come il suo corpo ora intatto e proteso in avanti.
Senza perdersi d’animo il cavaliere riprese il suo viaggio e, cavalca cavalca, una nebbia striata dai molti colori lo avvolse in un vortice, da cui era impossibile liberarsi.
Dal vortice di quell’aria, cavallo e cavaliere, furono trasportati in balìa di onde e correnti a innumerevoli miglia di distanza, di cui non tenevano più i conti, tanto che più volte il cavallo aveva cambiato pelle, sì che da bianco si era fatto grigio, marrone e nero, e anche al cavaliere sembrava di esser morto e rinato cento e cento volte.
Sebbene a tratti si attenuasse, il vortice non voleva placarsi, mentre con aria, venti e mareggiate di nebbia striata andava sempre più assumendo le dimensioni di un nuovo paese.
Un paese in cui alberi, case e strade cambiavano continuamente natura, in una danza di trasformazioni che coinvolgeva anche le persone.
Il cavaliere si ritrovò al centro di una piazza, più alta, più bassa, con quattro pietre, una chiesa, tre palazzi, e poi case, grattacieli, cubiche costruzioni interscambiabili, tetti apribili, in cui entravano ed uscivano insetti metallici che trasportavano altra gente e di nuovo cenere e pietre.
Alla ricerca del suo cavallo, ma nessuno sapeva dirgli né dove fosse, né cosa fosse, il cavaliere fu preso da un altro vortice: un ballo inebriante e sensuale, sempre con una dama diversa, di cui sentiva l’ansia delle carni, ma se la fissava negli occhi un bagliore di nero accecante gli impediva di vederla.
Era come se si sentisse immerso in un mare di cecità fuggitiva, come fuggitivo era il giro di danza; e più annaspava cercando di aggrapparsi agli occhi e ai tratti invisibili del volto della dama, più percepiva la loro fuggevolezza, e così in quel rinnovato nero impenetrabile, ma in qualche modo riflettente, rivedeva le sue età passate e l’adolescenza della dama, la sua e la di lei fanciullezza e quel momento di fuggevole inganno e poi, sempre più nero, sempre più niente, mentre intorno tutto continuava a trasformarsi, a cambiare.
Da un passato che non c’è più ad un futuro che non c’è ancora: forse questo e questo soltanto era quel ballo, una dimensione di sospensione tra due assenze; un niente di mezzo.
Poteva essere questo quel villaggio da cui nessuno tornava? Il cavaliere non fece in tempo a chiederselo, che un passo di danza più veloce del precedente lo spinse fuori dall’orbita di quel mondo in incessante divenire, rimettendolo in groppa al suo cavallo bianco, su una delle strade del suo regno, al di qua degli ultimi confini.
Era la strada di casa. Quindi partire non era servito a niente, non aveva dato un senso alla sua ricerca, né più saggio ora era destinato a tornare!
Dovevano essere trascorsi tanti anni dalla sua partenza, magari anche secoli e forse addirittura millenni, visto che aveva attraversato paesi passati e futuri oltre gli ultimi confini del regno, in un viaggio nel tempo più che nello spazio.
Dovevano essere trascorsi tanti anni, anche perché si sentiva affaticato, stanco e vecchio, ora che oltre al peso dell’armatura, gli era divenuto insopportabile quello della barba e delle ossa scricchiolanti.
Altrettanti innumerevoli anni erano passati per il cavallo, oramai larva di se stesso, che si trascinava scheletrico in avanti, più per forza d’inerzia e dovere di ubbedienza al sovrano, che altro.
Entrati per la porta principale del regno, nessuno li riconobbe; ed anche il cavaliere stentò a riconoscere il suo paese, tanto era cambiato.
Sospinto da un procedere ignaro anche a se stesso, il cavallo si accostò a quello che rimaneva della reggia ormai diroccata, e di colpo si accasciò, stramazzando a terra.
Quando il cavaliere riaprì gli occhi, si accorse di non essere più a cavallo del suo Fulmine, ma disteso su un giaciglio di paglia, all’interno di una semplice e spoglia catapecchia e rinfrescato dalle cure amorevoli di due mani ruvide e callose.
«Su, prendete qualcosa da bere e da mangiare - disse la contadina che lo stava accudendo - chissà da quanto tempo siete in questo stato, pover uomo!»
Il cavaliere, che non aveva neppure la forza di parlare, rifiutò con un gesto quell’acqua e quel pane.
«Siete un mendicante, vero? - Insistette la contadina - E dovete avere penato molto, vero? Ma ditemi, cosa cercate nel nostro paese, oramai abbandonato da Dio e dagli uomini? Oh...scusatemi...siete così malridotto che non potete certo parlare. Ma allora..prendete un po’ di pane, bevete quest’acqua..è bella fresca! Oh...perdonatemi, sono una stupida e parlo troppo. Forse voi volete soltanto riposare ancora, è così?»
Il moribondo annuì con gli occhi; con quell’ultima forza che gli restava.
Ma quando la contadina aprì la porta della catapecchia per uscire, il cavaliere vide entrare un vento gelido e luminosissimo; dall’intenso profumo di limoni e scrosciante di insolita e fresca gaiezza, che intorno a lui prese a infondere forma e volume a cose, persone, animali, strade, palazzi: insomma un intero villaggio di vento, di ghiaccio, di gialli profumi e azzurre frescure.
Ma fu un attimo, poi quella gaiezza così intravista sparì, sommersa da un buio pesante che impediva al cavaliere di riaprire gli occhi.
Eppure continuava a vederlo quel villaggio e riconosceva amici e familiari scomparsi da tempo, e volute di tempo passato che giocava a fare ritorno, e cari volti d’immortale amore, che tanto disteso era, quanto inimmaginabile; e gente, animali, piante, sassi e spiriti venivano da ogni dove per popolarlo e renderlo sempre più allegro, quel villaggio, ma anche sempre più enorme e indefinito e nero.
Erano sprazzi di visioni fulminee che il cavaliere aveva, perché poi dal bianco abbagliante al nero più opprimente i suoi sensi percepivano continue e repentine variazioni e oscillazioni e capovolgimenti.
L’aveva cercato oltre i confini dei confini del suo regno sconfinato, quel villaggio, e ora, proprio ora, alla fine della sua vita, eccolo lì, vicino a lui, il più vicino di tutti, che cerchiamo senza mai trovare, finché non arriva lui a trovare noi, magari proprio quando non lo cerchiamo più; era lì, inafferrabile e inconcepibile; bianco, colorato, profumato eppure nero e invisibile: non è altro che il prossimo villaggio, posto alla fine, oppure, chissà! all’inizio, del viaggio più breve e più lungo che si possa mai immaginare.
 


 
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Mario Amato
[ marius2550@yahoo.it ]
 
LE SIRENE DI ALFONSO
(Ad Alfonso Cardamone, che conosce i gorghi del fantastico)
 
Alfonso, esperto pescatore di mare e abile nuotatore (precisazione quest’ultima che sarà utile in seguito al lettore), guardò dal molo, dove si trovava con sua fida canna, verso il mare e fu affascinato dai riflessi giocosi del sole che iniziava la sua lenta discesa.
Il mare era, per così dire, la seconda patria di Alfonso, o forse la prima, considerando che i genitori per battezzarlo lo avevano immerso nell’acqua che bagnava il litorale vicino alla loro abitazione. In questa terra del Sud la costa era composta di scogli insidiosi che sembravano tuffarsi a precipizio nel profondo azzurro marino.
In casa, una casa bianca come ogni altra, tutto parlava di mare: dalle pareti, interne ed esterne, ciondolavano corde, canne da pesca, ancore, reti; ai muri erano affissi quadri che ritraevano grandi cetacei o vascelli e grandi navi; negli scaffali carichi di libri la grande quantità di volumi riguardava il mare: c’erano testi di tecnica di pesca, di carte delle correnti di tutti mari conosciuti, naturalmente non mancavano “Moby Dick”, “Ventimila leghe sotto i mari”, l’ “Odissea” e “Robinson Crosue”. Insomma la sua casa, in qualsiasi stanza, odorava del pungente profumo salmastro del mare, lo stesso, caro lettore, che andando avanti nella lettura sentirai anche tu.
Anche i libri per bambini narravano fiabe di mare; il preferito di Alfonso era un testo in cui c’era la raffigurazione di una sirena dai lunghi capelli biondi fluenti fino alla coda. Il bambino era capace di soffermarsi per ore su quell’immagine e non lo distraevano i moniti dei genitori che lo avvertivano di non naufragare nel mare della fantasia e di restare invece ben ancorato alla realtà.
Spesso di notte, non importa in quale stagione si fosse, Alfonso bambino si destava e correva agli scogli dove aspettava il ritorno dei pescatori, annunciato dal luccichio delle lanterne delle barche in lontananza. Alfonso sognava di poter avventurarsi anche lui un giorno nel mare ignoto. Venne quel giorno ed altri ancora e venne poi il giorno in cui Alfonso andò via dal luogo natale. Egli tuttavia non si allontanò mai del tutto dal mare.
Torniamo dunque al molo, dove Alfonso stava pescando, anzi non stava pescando, perché nessun pesce abboccava, a causa forse del fatto che non spirava il benché minimo alito di vento e l’acqua era quasi ferma.
Alfonso guardò i riflessi del sole cadente nel mare e gli parve che quelle linee tremolanti formassero la sagoma di una sirena e che là ove più si raccoglieva la luce si snodasse una lunga chioma bionda. Forse era la luce del tramonto che faceva navigare la fantasia di Alfonso, ma pure nel punto dove ancora la sagoma di luce si muoveva – e solo in quel punto -, si muoveva anche l’acqua. I riflessi non spostano l’acqua.
Un tremore attraversò Alfonso, ma pure un sentimento diverso, un’attrazione invincibile; si guardò intorno: nessun altro essere umano si trovava in quel momento nelle vicinanze, né si udiva alcuna voce, solo il sommesso mugghiare del mare; il sole stava abbandonando quella parte di mondo e prima che s’inabissasse completamente Alfonso si tuffò.
Due, tre, quattro, sei, innumerevoli bracciate verso la sagoma di luce, ma non c’era più nessun riflesso da inseguire e non restava altro che tornare indietro, verso la terra ferma e sicura, ove sogni e realtà non si confondono. Solo quando si voltò per intraprendere il viaggio di ritorno, Alfonso si rese conto di essersi allontanato considerevolmente e di trovarsi in mare aperto: non si vedevano neppure le luci del molo, che a quell’ora, in cui l’oscurità avanzava anch’essa a grandi bracciate, dovevano essere già accese. Nel cielo spuntavano le prime stelle e la grande luna.
Alfonso non s’intimorì, fidando nella sua capacità di nuotatore e nel mare calmo; e del resto sapeva bene da quale fossero i quattro punti cardinali. Iniziò senz’altro a nuotare di buona lena.
Il mare è un amico, quando regala nutrimento e quando dona immagini indimenticabili agli innamorati, ma è infido e spietato e tradisce anche i suoi più passionali amanti.
All’improvviso Alfonso si sentì tirare verso il basso, verso le profondità del mare e s’avvide che intorno a lui l’acqua girava in un terribile vortice, mentre più in là il mare era rimasto quieto. Senza agitarsi troppo provò con tutte le sue forze ad uscire dal gorgo mortale, ma più forte delle sue braccia e delle sue gambe era il risucchio. Provò più volte finché fu esausto; guardò le stelle in cielo e le luci, ora sì esse apparvero, del molo e disse addio a tutto questo mondo meraviglioso, pensando che la sua vita era iniziata in mare e in mare sarebbe finiva. Nel momento in cui stava dicendo questo addio si sentì preso le ascelle e portato dolcemente verso la riva. Quando finalmente i suoi piedi poterono toccare il fondo si voltò e nel riflesso della luce lunare vide il volto sorridente di una bionda fanciulla che si allontanava verso il mare aperto ed era il viso che tante volte da bambino aveva osservato sul libro di fiabe di mare.
Trascorsero molti anni e Alfonso aveva dimenticato questo episodio, ma l’amore per il mare sopravviveva. Di nuovo si trovava a nuotare in alto mare, quando scorse uno scoglio isolato, sul quale scorse una bionda fanciulla seduta ed intenta a leggere un libro. Lunghi capelli biondi le coprivano i seni, mentre il resto del corpo era invisibilmente immerso nell’acqua. La fanciulla sorrise. Era la stessa giovane che aveva trascinato Alfonso dal gorgo fino alla riva. Egli nuotò precipitosamente verso l’isolotto, ma non trovò altro che un libro di fiabe aperto su una pagina che ritraeva una sirena dai lunghi capelli biondi.

23 luglio 2008
 


 
fant)a(smatico 
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Alfonso Cardamone
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DAI RACCONTI SURREALI AL FRANGIALLO
 
Frangiallo, opera giovanile di Libero de Libero (1903-1981), messa in scena il 19 gennaio 1929 da Anton Giulio Bragaglia al Teatro Sperimentale degli Indipendenti di Roma, non è testo di immediata e soddisfatta comprensione.
Al fine di accostarla senza troppo correre il rischio di fermarsi ad una riduttiva suggestione meramente impressionistica, sarà opportuno provare ad analizzarla verificandone contenuti e forme, ambienti e personaggi (come e fin dove sarà possibile) a fronte del complesso dei temi fondamentali della poetica deliberiana. Naturalmente, richiamando in primis quelle cifre che –giusta la lezione di Gaetano Mariani(1) , a cui direttamente e senza veruno ritegno ci rifaremo nelle sommarie note generali che introdurranno il nostro ragionare intorno al Frangiallo - risultino condivise sia dall’esperienza del poeta De Libero che da quella del prosatore.

Intanto, la concezione della natura;
Quindi – e in stretta connessione – la concezione dell’uomo o, per meglio dire, della vita dell’uomo.

Se è vero –come nota il Mariani- che il poeta De Libero aspira ad una visione della natura che sia apportatrice di una serenatrice certezza e di una personale conquista dell’anima; è anche vero che a tale visione egli perverrà, e a costo di molta fatica e sofferenza, solo con il canto di Ascolta la Ciociaria. Nelle prime poesie –apprendiamo,dunque- e, ancor di più, nelle prime prove di narratore, la natura gli appare quasi sempre velata da una venatura d’ombra, come colpita da un’ancestrale maledizione, da cui tende faticosamente a svincolarsi.
Non a caso –si ricorda- Oreste Macrì parlò, a questo proposito, di valli castigate d’inerzia, terre che si pascono di erba avara, mari soggiogati dalla luna. E, per fare un esempio, il sole non è descritto come astro di incontaminata lucentezza, bensì come macchiato di “oscuro splendore”, espressione costruita, come ben si vede, con un oxymoron che comunica un indiscutibile connotato di aridità, di malattia. Ecco, nel quadro di quello che è stato definito il fervido analogismo della poetica deliberiana, non casualmente, aggiungiamo noi, l’oxymoron viene a marcare una delle principali crifre stilistiche della formazione letteraria del nostro.
E come la natura, che –sempre ricorrendo al Mariani- gli si manifesta tormentata intimamente, costantemente corrosa da qualcosa di oscuro, così gli appare la vita dell’uomo, corrosa dall’insopprimibile piaga della morte: “la morte finisce per annidarsi nella vita stessa, regolarne il ritmo, scandirne i momenti”. Così, inevitabile è per il poeta l’esperienza del dolore, che dall’autore si trasfonde, sin dalle più giovanili prove, anche nei personaggi che popolano le sue pagine di teatro e di narrativa.
Si veda, a questo punto, in modo particolare, L’uomo dalla faccia guasta (giugno 1928), la cui vita è indubbiamente un’angosciosa eredità di sofferenza e di incurabile malattia, che ne condizionano l’esistenza: Nutrito del male che aveva consumato la famiglia, era cresciuto vecchio e senza sangue, il corpo tarlato e insensibile, le braccia logore, le mani legnose e senza tatto che si piegavano monche; il volto fradicio e duro, gli occhi sempre aperti perché senza palpebra (oltre che un individuo disgustoso, guardando alle spressioni che abbiamo sottolineato si direbbe ancòra un grottesco insensibile burattino; ma su questo aspetto torneremo più avanti nel nostro discorrere).

Nella narrativa –e segnatamente in quella degli esordi- la presenza corrosiva della morte come inguaribile malattia, si connota più densamente dei toni del macabro, del grottesco, del deformante, del caricaturale. E ciò spiega il titolo di questo nostro intervento: “dai racconti surreali al Frangiallo”, che non pretende certo giustificazioni dal ricorso ad una linea di sequenzialità “cronologica” (alcuni scritti essendo coevi del Frangiallo, mentre altri ad esso di poco posteriori), quanto piuttosto da un gioco di reciproci richiami che dai racconti possono ricondurci alla commedia, alla sua atmosfera, ai suoi personaggi, alla sua stessa trama, a meglio chiarirne il senso di appartenenza ad un comune universo di scelte culturali e letterarie.

Racconti surreali, quelli tra il 1928 e il 1935? Surrealista il Frangiallo? Qui non dobbiamo scomodare una presunta, e impossibile, linea di appartenenza e neanche di filiazione diretta, né tantomeno una professione di fedeltà paradigmatica al movimento surrealista francese. Se pensiamo al Surrealismo come al movimento che esaltò con assoluta determinazione anche teorica l’onnipotenza del sogno, la forza liberatrice dell’erotismo e del desiderio, la valenza rivoluzionaria attribuita (in tutti i sensi, artistici culturali politici) all’irrazionale, allora siamo ancora decisamente lontani dalle atmosfere delle prose deliberiane. Ma Franco Fortini ci ha reso avvertiti che, comunque, accanto a questi aspetti, come dire, primari del Surrealismo, pure s’accampava, nei suoi autori, artisti e poeti, una sorta di tanatofilia, di passione malata, di attrazione fatale per la morte, documentata non solo dalle opere di molti pittori surrealisti, ma anche dall’ enorme cumulo dei testi e delle liriche «automatiche(2)» . E inquietante è il giudizio del critico, secondo il quale da tutto questo materiale spirerebbe un alito di deposito da rigattiere, di spoliario, di crematorio abbandonato da ultimi reparti in fuga(3) .
E, in realtà, il sogno, nella sua duplice natura ad un tempo fisiologica e simbolica, può essere convincentemente espressione sì di desideri e di pulsioni/aspirazioni ad una pienezza di vita, che ambiscono ad essere liberati dalle repressioni e frustrazioni imposte dalle regole morali, sociali, culturali, politiche di una società repressiva, ma anche, e diversamente, mascheramenti delle pulsioni di morte, prefigurazioni dell’oscuro richiamo della morte (nei Racconti surreali(4) , così come nel “Frangiallo”, per esempio, si può anche morire nel sonno e del sonno!).

Così, in De Libero, non sono rari i riferimenti ai depositi da rigattiere, agli immondezzai, ai detriti da crematorio.
Brancona, il pupazzo enorme di un racconto pubblicato nel dicembre del 1928 (Brancona regina), dal corpo largo e nutrito e dalla nascita incerta (così come pupazzo e burattino dai natali incerti si presenta nella commedia Frangiallo), forse poteva essere stata ritagliata da un rigattiere, in notti insonni, da invernali coperte imbottite, luride e gonfie; e l’ Uomo dalla faccia guasta (giugno 1928) fu cenciaiolo notturno, con un pezzo d’immondizia in bocca. Altrove, anche i mondezzai scontano (o beneficiano) della concezione ambigua, complessa e contraddittoria, abbiamo detto oximorica, che il De Libero ha della natura e dell’umano: così sotto il sole possono diventare addirittura prati favolosi fioriti di vetri colorati (in Appunti per una fanciullezza del 1929), oppure possono costituire una delle vie – l’altra è il cielo, in trasparente e anche simbolica contrapposizione-, vie passibili di essere intraprese dai rimasugli dei capelli delle donne che si pettinano al sole e che si alzano tenui dalla via e nell’aria (in Acquario, 1929); dove i capelli, fluttuanti tra il più alto (il cielo) e il più basso (gli immondezzai) sono, qui come anche e soprattutto nel Frangiallo, trasparente medium di forte valenza erotica, come a dire che l’eros può prendere indifferentemente ora l’una ora l’altra strada.
Comunque, non sarà senza senso se la Stanza semibuia del Quadro Secondo di Frangiallo, dove il protagonista incontra la madre che non ricorda di avere, viene descritta come la stamberga di uno stracciarolo.

L’espressione “la madre che non ricordava di avere” introduce un altro tema e fondamentale intorno al quale si costruiscono le atmosfere psicologiche sia della commedia che dei Racconti: il motivo che Giuseppe Lupo ha chiamato il “naufragio della memoria”(5) .
Come il giovane Casildo del racconto L’uomo dalla faccia guasta, che non si sforza di ricordare la madre e che, quando l’Uomo gli disse che gli era padre, pianse a lungo, perché non lo riconosceva; così Frangiallo neanche ricordava che avesse mai avuto una madre. Questo naufragio della memoria è spia di un disancoraggio psichico più generale, di una vera e propria disposizione al sonnambulismo, che dai racconti tracima nel Frangiallo e da questo a quelli. Qui si tocca con mano –come altri ha già rilevato(6) - sia la prossimità di De Libero alla linea della corrente poetica orfico-surreale, sia “il debito contratto con i pittori della Scuola romana”.
A proposito di questo debito, sarà opportuno evidenziare che non sono pochi i passi che nei racconti sembrano ispirati direttamente da figurazioni ora metafisiche alla De Chirico, ora surrealiste, ora ispirate al dinamismo futurista, ora rimemorate su una suggestione macabra della classicità: si veda, ad es., l’espressione Ora la luna si teneva nelle mani la testa tra la folla dei castani, del racconto Storia di buttero (1929, marzo), che non può non richiamare le due maschere lunari del “Mosaico delle maschere” dei Musei Capitolini, qui reinterpretate e tuffate in un’atmosfera da incubo lunare in cui non a caso gli occhi del cavallo sono in fine pietrificati dal fascino meduseo della luna.
La pietrificazione. Il sonno. Il sonno, che a volte può avere una valenza erotica -si veda il più antico dei racconti, La mia statua e la sua (primo aprile 1928), dove del protagonista leggiamo: Anch’io mi addormentavo un poco e mi svegliavo con la bocca assetata. Non c’erano fontane ed ella mi faceva bere ai suoi seni duri quasi brocche di rame (e la funzione erotica del sonno qui è preceduta e preparata dall’insistenza sul motivo sensuale della cura dei capelli femminili: con i capelli mi puliva il volto rugiadoso, e se li pettinava e li intrecciava a piccole trecce, motivo infinite volte modulato nel Frangiallo, e si pensi all’ambigua sensualità della fanciulla Fuzzella, sempre alle prese con pettini e capelli), il sonno –dicevo- il più delle volte è porta all’incubo, alla metamorfosi che pietrifica o mummifica. E’ un corpo mummificato anzitempo, quasi un santone di villaggio, leggiamo nell’ Uomo dalla faccia guasta, che è quasi una parodia dello stesso Frangiallo. E, infine, il sonno è preparazione, stadio e persino compiuto stato di morte. Non suda più, è caduto nel sonno dice, nel finale del Frangiallo, il Ragazzo, quando Lero, il vero o falso padre che lo aveva corrotto, finalmente muore.
Lero è un personaggio chiave della commedia: se da una parte è quasi una trasposizione perfetta dell’ Uomo dalla faccia guasta (la sua faccia nera è consumata da un’ignota malattia e, come quello, egli guarisce solo succhiando salute dal Ragazzo), dall’altra condivide significativi tratti tipici dello stesso Frangiallo (non ha palpebre per piangere, non ha bocca per ridere, i denti gli ridono senza labbra, come una statua, appunto, o un burattino, quasi una versione macabra e lugubre del Frangiallo pazzerello e danzerino).
Quando Lero s’irrigidisce nella morte, Frangiallo, al contrario, che era una specie di grottesco burattino di terracotta, rinasce uomo fatto di carne nel letto dell’ostessa Mitirda.

La carne –ecco- è la vera ossessione sia di Frangiallo che di Lero e di tutti i personaggi della commedia, nonché dei racconti surreali. Carne come cibo di cui ingozzarsi, carne come corruzione e malattia, carne che si gonfia e imputridisce. E carne, ancora, come sensuale ostia salvifica, che trasforma e rende uomini.

Ecco, questa è la parabola di Frangiallo, alla cui natura e alle cui vicende non sono estranee quelle parallele di Brancona regina o dello stesso Uomo dalla faccia guasta dei cosiddetti racconti surreali, ambedue ricollegabili per aspetti diversi, ma complementari, alle peculiarità individuali e distintive del personaggio Frangiallo.

1 ) Si veda Gaetano Mariani, Libero De Libero, in Letteratura Italiana – I Contemporanei, v. III, Marzorati, Milano 1969.
2) Si veda Fortini-Binni, Il movimento surrealista, Garzanti, Milano 1977.
3) c. s.
4) Si veda Libero De Libero, Racconti Surreali, a cura di Giuseppe Lupo, Nino Aragno editore, Torino 2002.
5) Si veda Tra visioni e metamorfosi: Libero De Libero narratore surreale, introduzione di Giuseppe Lupo ai Racconti Surreali.
6) c. s.