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  registrazione n.94 del 28.2.1972 presso il tribunale di frosinone
direttore responsabile alfonso cardamone
 



 
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Zelinda Carloni
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LA DIMENSIONE DELLA DISMISURA
 
Per alcune nature la battaglia appare essere una sorta di destino connaturato con la propria esistenza, anche loro malgrado. Ma non tutti i terreni di scontro sono ugualmente impervii; la scelta del campo diviene la discriminante, il dato qualificativo del loro stesso essere e operare.
E Dismisura si colloca sul crinale, impervio certo, ma senza dubbio di chiara qualificazione, dello scontro non più demandabile e non più equivocabile tra l'arroganza plateale e imbecille dei più, assoggettati per incapacità o per malafede ad una "ratio" altra dall'uomo, e la tensione ineliminabile di chi a questa "ratio" contrappone la propria natura (e la propria scelta) come coscienza intima del mondo e dell'essere uomo, come momento in cui la "qualità" stessa di ciascuno affronta lo scontro con le armi che le sono proprie: la poesia è quest'arma, la poesia è per Dismisura la dimensione stessa del misurarsi, ma, come le è proprio, misurarsi lacerando, stridendo ferendo e ferendosi.
La poesia è rivolta, la poesia costringe lo sguardo a guardare i contorni del mondo obbligandoli a nuove dimensioni, umane, ché dall'uomo vengono, ma che dell'uomo hanno esplorato le profondità più scomode e riposte. La poesia è rivolta, perché è sovvertitrice, è lo scandalo del morbo infame (si punisce il poeta con la cecità: così impàri), è l'atto gratuito e improduttivo che orgogliosamente s'impone.
La poesia è rivolta, ma la rivolta è lacerazione, è strappo, è necessità, è sangue: è il dato di ricostituzione di un nuovo equilibrio su di uno arrogantemente sbilanciato: è il sogno di ricostituzione dell'unità: è l'imporsi sovrano dello slancio verso l'annichilimento ma anche verso la ricomposizione di una nuova essenza: necessità di riconoscersi negli atti: l'imporre agli uomini la loro stessa grandezza: riconoscere la virtù.
La dimensione di Dismisura è la poesia, la poesia è rivolta, la dimensione di Dismisura è la rivolta, la sovversione intrinseca da sempre legata all'antico sogno dell'uomo di ritornare ad essere ciò che forse non è mai stato: il costruttore di sogni, l'architetto demoniaco e formidabile che sfida le leggi e la storia e ne svela gli inganni; il raggiungimento di uno scopo finale, di un obiettivo prestabilito è trascurabile per la poesia come per Dismisura; è invece "necessario" che si ponga il conflitto, è ineliminabile che si ponga: è la condizione stessa dell'esistenza di chi conosce il sangue e la storia.
 


 
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Alfonso Cardamone
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DISMISURA A DISMISURA - 1
posidone e i sette a tebe

Parte Prima
 
Eteocle: -Uomini di Cadmo! Dire pronti rimedi, via via: è dovere, per chi è attento, fedele ai suoi impegni di Stato. Dal ponte pilota il paese, manovra la barra. Ciglia immote, inquiete. Senza riposo .
Che parole son queste con cui, dalla Rocca Cadmea della città di Tebe, si rivolge Eteocle, re ed usurpatore del diritto a governare del fratello, a una folla di giovinetti e di anziani (gli uomini validi impegnati tutti sulle mura, alla difesa)? Parole con cui inizia Eschilo la tragedia I sette contro Tebe, ultima della sua trilogia edipica. E che parole queste altre con cui il Secondo Semicoro chiude la medesima tragedia?
-Noi siamo con lui (con Eteocle). Come lo Stato e come il diritto comanda. Sì -dopo i Celesti, e il trono di Zeus- quest'uomo strappò dall'abisso il paese di Tebe: l'avrebbe inondato marea forestiera d'armati. Senza riparo
Una metafora marinara apre la tragedia, una metafora marinara la conchiude. La prima, atta a rappresentare e ad esprimere Potenza e Dominio (del reggitore dello Stato), la seconda a significare Violenza (degli assalitori di Tebe). Ma ciò che soprattutto sorprende è che per l'intero arco della tragedia sempre Potenza-Dominio e Violenza vengono rappresentate ed espresse da metafore e similitudini attinenti al mondo marinaro o, comunque, delle acque, salse o dolci che siano.
Ecco il Messaggero, venuto ad Eteocle a recar nuove dal campo, dove i Sette si preparano all'assalto, invocare il re come colui che, dotato di buona esperienza di manovra alla barra, sul ponte, abbia, egli solo, la possibilità il compito ed il dovere di rafforzare la chiglia di Tebe, prima che turbini raffica di Ares, poi che pronta è l'armata argiva ad arrecare tempesta mugghiante come marea in terraferma. Poco più avanti il Coro delle Vergini tebane, atterrito dal fragore che s'alza dal suolo calpesto dallo stuolo incalzante dei cavalieri, paragona la dilagante armata nemica di gente al galoppo a marea vasta che, fulminea, straripa dal campo. E le Vergini un'appassionata preghiera levano agli dèi affinché dalla città minacciata volgano via la sorgente atra tempesta. Mentre alla loro commossa fantasia le elmicrestate squadre dei nemici, che frementi nell'aria alzano soffi rabbiosi di morte, appaiono quale spumeggiante marea di eroi che, rigurgitando, accerchia la cinta. Ed a quale repertorio di immagini fa ricorso Eteocle quando aspramente redarguisce il Coro che, a suo giudizio, indebolisce la difesa? Leggiamo:
- S'è mai visto il nostromo scovare rimedio che salva, sbandando su e giù per il ponte, con lo scafo spossato sull'abisso che bolle?
Né diversamente si comporta il Coro nella sua replica:
- Ma io venni di volo agli idoli antichi dei Potenti. M'abbandonavo agli dèi: fuori, tempestava le porte, ruggiva tempesta omicida.
E sono ancora le Vergini tebane che, precorrendo la fine della città col pensiero, vedono i prodotti della terra, i doni della zolla, prossimamente ridotti a rovina di frutti confusi, per terra… piombare come impasto opaco, immenso… in cieche fiumane.
Più avanti, Eteocle, che ha appena assimilato gli assalitori a una ciurma riarsa dalla febbre del male, viene ancora una volta invocato dal Messaggero, a conclusione dell'episodio della rassegna degli episemi degli scudi, come colui che ben sappia provvedere a guidare lo Stato al suo porto.
E, infine, la stessa lotta feroce che l'un contro l'altro oppone i re fratelli, vera radice della minaccia che rischia di travolgere Tebe e lo Stato, così viene rappresentata dal Coro:
- È un abisso. Risacca di mali c'inonda. Flutto che piomba. Eccolo, svetta il seguente, culmina in tre, e rigurgita alla fiancata di Tebe.
Mentre maturano ormai -peso che schiaccia- gli epiloghi delle imprecazioni antiche, anche il luogo comune della sapienza antica si volge a cercare immagini del tipo che abbiamo detto:
La rovina sfiora la miseria e passa: ma l'abbondanza spessa, carnosa, d'uomini incontentabili produce lanci di zavorra, dal ponte.
Dalla metafora d'apertura in avanti Tebe è -possiamo ben dire con Ezio Savino, di cui abbiamo seguito l'ottima traduzione garzantina- scafo di nave in acque agitate: il testo risulta trapunto "di metafore continuate, che si muovo tutte in una stessa area semantica... l'idea di una periclitante instabilità è ottenuta attraverso parole che riguardano l'imbarcazione, la navigazione, la tempesta". A noi resta da aggiungere solo che quella instabilità della nave/città/stato, provocata dall'urto della Violenza esterna contro la Potenza e il Dominio, prerogative massime del despota/pilota, risulta ulteriormente aggravata da una latente irrisolta doppiezza ed ambiguità interne. Ma vale la pena, intanto, notare che anche quando la battaglia si è finalmente placata e la folata arrogante di guerrieri nervosi è stata definitivamente respinta dai difensori delle sette porte (consumato il duplice sacrificio con cui Eteocle e Polinice, dandosi l'un l'altro morte, hanno portato a compimento la maledizione di Edipo), Tebe, ormai salva, viene assimilata a nave che miracolosamente, dopo spaventevole tempesta, torni a posare sopra un mare in bonaccia.
Tebe naviga in pace. Tra gli schiaffi dell'abisso agitato, non stiva acqua la chiglia.
È verosimile -ci chiediamo- che questo ossessivo paesaggio metaforico, questo orizzonte ristretto al mondo delle tempeste equoree siano da addebitarsi ad un accumulo casuale o ad una inadeguatezza della fantasia creatrice a sua volta limitata da un bagaglio retorico inusitatamente modesto? Come se un poeta grandissimo, quale Eschilo, non potesse contare su altre frecce al suo arco, per conferire evidenza persuasiva ai concetti di Potenza-Dominio e di Violenza, che questo ricorrere e rincorrersi di immagini legate all'acqua e solo all'acqua. O non sarà piuttosto più ragionevole, oltre che più giusto e più rispettoso del genio poetico di Eschilo -genio, anticipiamo, profondamente legato alla concezione misterica del sacro- pensare all'opposto che quell' orizzonte particolare, quell' apparente monotonia di riferimenti siano il frutto di precise rigorose intenzionalmente allusive scelte di stile e di poetica? Ma di quale poetica e di quale sfera di allusività e di connotazione?
Un primo dato da cui partire ci è offerto dalla stessa storia personale di Eschilo, a cui toccò in sorte di avere i natali in Eleusi, principale centro dei misteri legati alla celebrazione dei riti in onore della Grande Dea. E che tale sorte non fosse stata insignificante nella formazione spirituale del poeta è indirettamente dimostrato dalla fioritura di leggende che già in periodo classico crebbero intorno alla figura del poeta ricollegando a quei misteri i casi particolari della sua vicenda umana. Una, in particolare, ci sembra significativa: quella che lo volle protagonista di un processo di empietà "che gli sarebbe stato intentato per aver rivelato i misteri di Eleusi e che sarebbe stato causa del suo esilio nel secondo soggiorno in Sicilia" (R. Cantarella, Introduzione alle Tragedie, Torriana, 1989). E se pure si dovrà convenire con altri circa l'infondatezza di quell'avvenimento, resta il fatto che non sia assolutamente da ritenersi trascurabile il ricorso disinvolto della tradizione ad un assioma che veniva evidentemente dato per scontato. L'iniziazione di Eschilo ai misteri eleusini sarebbe stata in effetti considerata cosa talmente ovvia e risaputa da autorizzare operazioni fantasiose di ricostruzione di eventi decisivi della sua vita (come appunto il secondo viaggio in Sicilia) proprio a partire da quell'assioma. Ora, noi sappiamo che l' "avvento" (l'eleusis appunto) più importante dei Misteri Eleusini e, forse -come aggiunge Graves in I miti greci, Longanesi 1983- anche degli Istmici, era la cerimonia celebrativa dell' Anno Nuovo, durante la quale una processione di fiaccole salutava l'ingresso, nel tempio dedicato alla dea Demetra, del Fanciullo Divino, recato dentro un cesto di vimini da mistagoghi vestiti da pastori. Trascurando per il momento il personaggio del Fanciullo Divino, concentriamo la nostra attenzione sulla Grande Dea di Eleusi. Brimo veniva chiamata, la dea "furente", ed i misteri ne celebravano, in occasione dei festeggiamenti propiziatori dell' Anno Nuovo, il matrimonio rituale e simbolico con il proprio paredro, premessa all'immediata nascita miracolosa del Fanciullo Divino. Ma Brimo non è altro che una epifania della Gran Madre Demetra, la Grande Dea pre-ellenica delle civiltà matriarcali e matrilineari dei paesi intorno al Mediterraneo. E se anche lo sposo con il quale la "dea furente" si univa, nei recessi del tempio, durante i Grandi Misteri, nel mese detto Bedromione, era conosciuto come Giasio o Trittolemo o Zeus, la verità è che il primitivo paredro della primitiva Demetra era Posidone. Il nome Posidone, o Poseidone, infatti, trarrebbe origine da un titolo religioso pregreco Posei-das, forma vocativa stabilizzatasi nell'uso, del tipo "Oh Marito (Signore) della Terra". Anita Seppilli, in Poesia e magia (Einaudi 1962), ha riferito l'interpretazione del Kretschmer, suffragata dalle ricerche linguistiche dello Schachermeyr, secondo cui il suffisso das, derivando dalla radice pregreca da (per cui Damater=Demeter=Madre Terra), qualificherebbe il primitivo Poseidone come il "Signore (Marito) della Terra", divinità dunque originariamente terrestre e ctonia. Il confronto con testi religiosi e poetici emersi dagli scavi di Ugarit, sulla costa siriana, di fronte a Cipro, confermerebbe la correttezza di questa interpretazione, proponendo la figura di.un dio della fertilità Aliyan Ba'al, "dio sotterraneo, e in particolare delle acque sotterranee, che porta il titolo di Ba'al Ars, 'Signore della Terra' (o Ba'al zebul 'Signore della profondità della terra')". Un confronto tra Posidone e Aliyan Ba'al si gioverebbe sicuramente dell'ulteriore connotazione di quest'ultimo come dio che "estende il suo dominio anche sul mare, perché le coste fenicie si distinguono per una particolarità ben nota agli antichi: le sorgenti d'acqua dolce emergono da entro il mare stesso lungo le coste". Ma anche volendo evitare di inoltrarci ulteriormente, in compagnia della studiosa di Poesia e magia, nel ginepraio di questo spericolato confronto tra il nostro Posei-das pre-ellenico e la divinità infernale di Ugarit che gli corrisponderebbe, resta documentato il fatto che il nome di Posidone (o di una corrispondente divinità equina, come equino già dovette manifestarsi il dio stesso) appare mischiato, nella cosiddetta "tavoletta delle offerte di Pilo", tra altri nomi di divinità coinvolte in un quadro estremamente significativo. Infatti, dalla tavoletta "risulta che santuari con ricchi doni erano dedicati alla Potnia -la Signora- accanto ad un wanax, il signore, l'antenato, il re della casa o dinastia". Il che ci riporta ancora una volta al rapporto tra il primitivo Posidone e la primitiva Demetra. Infatti, in Arcadia, a Telpusa, si venerava Demetra Erynis, l'irata (corrispondente all'antichissima "Demetra Nera" dalla testa equina del santuario ipogeo di Figalia, sempre in Arcadia) che, per sfuggire alle insidie di Posidone, si era trasformata in giumenta. Il dio infoiato non si arrese e, trasformatosi a sua volta in stallone, riuscì a possederla. Dall'unione animalesca delle due divinità nacque il cavallo archetipico, Arion o Erion, il magico cavallo dalla criniera nera, alato, immortale, che incontriamo anche nei Sette contro Tebe, cavalcatura di Adrasto, e che scorgiamo ambiguamente accennato anche nel nome, Melanippo, dell'eroe tebano opposto a Tideo. Da allora i cavalli, i cui zoccoli lasciano un'impronta falcata, sacri a Posidone, lo furono anche alla Dea Luna, una delle incarnazioni della Grande Madre, la Triplice Dea. In un altro mito, Posidone seduceva Melanippa (Cavalla Nera!), che gli partoriva due gemelli, successivamente esposti sulla montagna, e che -secondo quanto riferisce Graves- era rappresentata come la Madre Terra accovacciata nell'atto di presentare i gemelli dell' Anno Nuovo ai pastori, come rivelazione dei suoi Misteri. E può risultare interessante che, secondo Kerènyi, Posidone, in quanto sposo violento della Terra, "né serviva unicamente la donna, come gli esseri meramente fallici, né era un signore sovrano come Zeus": egli "stava in mezzo a questi due generi: quello dei servitori della Grande Madre e quello del padre olimpico". Così come a noi appare stare in mezzo -senza comparire- alle due schiere che si affrontano sotto Tebe nella tragedia di Eschilo. E non solo: ché il suo stare in mezzo ci sembra la chiave interpretativa dello stesso messaggio complessivo della tragedia.
 


 
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Alfonso Cardamone
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DISMISURA A DISMISURA - 2
posidone e i sette a tebe

Parte Seconda
 
Ma, prima di procedere oltre nell'esame del significato che può avere nei Sette l'invisibile, eppure condizionante, presenza di Posidone, facciamo un passo indietro e torniamo ai misteriosi recessi del tempio di Eleusi, là dove, in occasione della celebrazione della nascita dell' Anno Nuovo, come abbiamo detto, si svolgeva una processione di fiaccole. Ebbene, Graves ci avverte che il nome di Labdaco, genitore di Laio e secondo la tradizione mitologica nonno di Edipo, significherebbe "aiuto con le torce", allusione diretta a quella sacra processione, che salutava l'ingresso nel tempio del Fanciullo Divino recato dentro un cesto di vimini da mistagoghi vestiti da pastori. Edipo, a sua volta, abbandonato fanciullo dai genitori ed "esposto" agli elementi perché non sopravvivesse, nel tentativo di eludere l'oracolo delfico, venne salvato da "pastori" e allevato presso la corte del re di Corinto. Ricordiamo, a questo proposito, il riferimento di Graves ai Misteri Istmici: d'altra parte una versione del mito non parla di "esposizione" sul monte Citerone, ma riferisce che Edipo sarebbe stato abbandonato dentro un'arca alle onde del mare, che lo avrebbero trasportato direttamente fino alla spiaggia di Corinto.
Inoltre, assumendo che il particolare dei piedi trafitti (da cui Oidipous = "dai piedi gonfi") possa appartenere al periodo tardivo e non iniziale dell'elaborazione mitologica, il suo nome in origine avrebbe potuto essere Oedipais = "figlio del mare rigonfio", in ciò tradendo un suo legame non solo con Posidone ma, ancora una volta, con la Triplice Dea, qui nella sua versione lunare. La luna, che attrae le maree, è collegata al mondo delle acque marine, e Anfitrite, la dea Luna nell'aspetto di signora del mare, è sposa di Posidone!
Edipo, dunque, è figura del mito che nasconde una natura sacrale connessa alla tradizione matriarcale. Ma, attenzione: Edipo è anche, e contemporaneamente, lo straniero che provoca la morte della Sfinge, la dea lunare della Tebe primitiva e matrilineare, a cui il nuovo re doveva atto di sottomissione e di devozione prima di sposare la sua sacerdotessa, la regina in nome e per conto della quale soltanto poteva regnare. La Sfinge -sappiamo- era anche un simbolo calendariale, Leonessa alata con coda di serpente, essa imperava su un anno a due stagioni: il leone simboleggiava la parte crescente, il serpente la parte decrescente. La morte della Sfinge -come scrive Graves- allude probabilmente alla soppressione dell' antico culto minoico della dea e ad una riforma del calendario in senso patriarcale. Anche la figura di Edipo, dunque, è come quella di Posidone segnata dall'ambiguità e dalla doppiezza: sta in mezzo. Ambiguità e doppiezza che vanno particolarmente riferite al conflitto matriarcale/patriarcale e che come tali precipitano nella sostanza sotterranea (iniziatica?sacrale?) dei Sette contro Tebe. Pierre Vidal-Naquet, nel saggio Gli scudi degli eroi (in Vernant e Vidal-Naquet, Mito e tragedia due, Einaudi 1991), dedicato alla scena centrale dei Sette, ricorda il "brusco cambiamento" che, a partire dal verso 653, subisce Eteocle. Citando Gilbert Murray, così sintetizza: "Fino al verso 652 Eteocle è un uomo 'freddo e calmo, ha la mente pronta e la preoccupazione morale del suo popolo'; è, in breve, il leader ideale della polis. E poi, ecco la svolta: 'In un baleno Eteocle diviene un altro uomo. La sua freddezza e il suo autocontrollo sono scomparsi. È un uomo disperato, dominato, schiacciato dalla maledizione' ". E lo studioso si chiede: "Cosa è accaduto?". È accaduto che I Sette è una tragedia che non rappresenta la vicenda drammatica di un personaggio, ma interpreta drammaticamente un conflitto di principi e di valori. Eteocle rappresenta i principi ed i valori del mondo patriarcale, che sembrano aver vinto, e per questo si oppone duramente, sprezzantemente al Coro delle Vergini tebane. Quest'ultimo rappresenta i principi ed i valori della tradizione matriarcale, sconfitta ma non ancora rassegnata. Il conflitto prepara, anzi deve preparare l'avvento di Antigone! E l'episodio centrale della rassegna degli episemi degli scudi è la crittografia sacrale di quel conflitto e di questo avvento. Sette sono le porte di Tebe. Sette i campioni argivi all'assalto. Sette gli eroi tebani alla difesa. Alla prima porta, quella di Preto, Tideo e Melanippo. All'ultima, che non a caso non ha nome, ma è la settima per antonomasia, Polinice ed Eteocle. Il primo duello apre un ciclo. L'ultimo lo conclude. Ed il primo è già un annuncio dell'ultimo e quasi di quello un doppione. Un gioco di specchi, di rimandi mitologici e simbolici sulla sfondo della lotta per il Potere. Un conflitto sanguinoso che oppone fratello a fratello, gemello a gemello. In un groviglio di riflessi e di richiami, solo apparentemente caotico e indecifrabile, in cui precipitano concezioni sacre e calendariali, tradizioni diverse legate ai criteri ed ai rituali della successione regale. Intanto, il numero: sette. Come l'antico calendario planetario. E certo verrebbe voglia di cimentarsi nel tentativo di interpretare in tal senso le sette stazioni dei guerrieri, utilizzando gli emblemi degli scudi, che potrebbero avere, come pare fosse costume, la funzione di rappresentare, in opposizione, esorcizzandole, le qualità degli avversari. Ne per una tale operazione mancherebbero convincenti supporti interpretativi.
Basti pensare che la Porta del Nord, quella dove prende posizione d'attacco il giovane eroe figlio d' Atalanta, Partenopeo, sul cui scudo campeggia la Sfinge, corrisponde alla tomba di Anfione (anche lui un gemello, fratello di Zeto! ). E vale la pena di ricordare che Tebe fu costruita, proprio a partire dalla "tomba di Anfione", a forma di lira, con sette porte corrispondenti, secondo alcuni autori, simbolicamente alle sette corde dello strumento e ai sette pianeti, il che ci riporterebbe all'antichissimo calendario settimanale dei Titani, in uso nella Grecia pelasgica, che sarebbe stato soppresso dopo le invasioni degli elleni patriarcali. "Tale calendario -scrive Graves- si articolava sui mesi divisi in quattro settimane di sette giorni, ciascuno retto da una delle sette potenze planetarie. Anfione e i suoi dodici figli, nella versione omerica del mito (...) rappresentano forse i tredici mesi di questo calendario". Il fatto poi che Anfione, secondo il mito, per innalzare le mura di Tebe inferiore (Cadmo aveva già edificato la città alta) si fosse servito del potere magico di una lira a tre corde anzicché sette, non guasterebbe questa ricostruzione, ma la confermerebbe: ché quella lira era stata costruita in onore della Triplice Dea che regnava sulla Terra, nell'aria come Luna, e nell'Oltretomba, e corrispondeva alla divisione primitiva dell'anno tripartito di cui il simbolo calendariale era la figura mostruosa della Chimera, corpo di capra, testa di leone e coda di serpente. Quando scomparve il segno della capra, la Chimera si trasformò in Sfinge, dea lunare di Tebe e simbolo del calendario matriarcale a due stagioni. Tuttavia il tentativo non ci porterebbe lontano. Almeno non quanto il riferimento congiunto all' Anno Sacro e al Grande Anno ed al rapporto che, al loro interno, si realizzava tra i gemelli. Solo di passaggio ricorderò che Posidone, Dio-cavallo, dall' Inno omerico descritto al tempo stesso come domatore di cavalli e salvatore di navi (Tebe abbiamo visto è una città-scafo!), genitore dei magici cavalli Pegaso e Arione, è anche strettamente associato alla figura variamente significativa dei gemelli. Divinità originariamente appartenente alla categorie degli dèi zodiacali, successivamente divenuti dèi dell'Olimpo, Posidone, prima di divenire un grande dio fu, secondo Jean Richer (Geografia sacra del mondo greco, Rusconi 1989), guardiano di un antico segno zodiacale del cavallo in seguito sostituito da quello dei gemelli.
Ma torniamo al Grande Anno. Nell' Introduzione a I miti greci, Robert Graves scrive: "Il sistema religioso olimpico fu poi accettato come un compromesso fra la tradizione ellenica e quella pre-ellenica", e, cioè, sei dee e sei dèi in un unico Concilio divino, prima che Era venisse subordinata a Zeus e Dioniso spodestasse Estia, assicurando con ciò la preponderanza alle divinità maschili. Il "poi" trae giustificazione e senso dalla progressiva, anche se violenta sostituzione, in Grecia, del matriarcato con il patriarcato, di cui conservano tracce i racconti mitologici: "Nell' antica mitologia greca si riflettono soprattutto quei mutevoli rapporti tra la regina e i suoi amanti, che iniziano con il sacrificio annuale o biennale del divino paredro e terminano ...col tramonto del matriarcato". Le fasi di questo passaggio possono così essere riassunte: 1) fase in cui la ninfa tribale "si sceglieva ogni anno ...il re che sarebbe stato sacrificato alla fine dell'anno e che diveniva così un simbolo della fertilità"; 2) fase in cui "il re moriva quando la forza del sole, con il quale il re si identificava, cominciava a declinare a mezza estate, e un suo gemello o supposto gemello diventava allora l'amante della regina per essere a sua volta sacrificato a metà inverno"; 3) fase in cui il "re agiva come rappresentante di Zeus o di Posidone o di Apollo", e in questa fase Era, la Luna, "personificava l'atteggiamento conservatore"; 4) fase in cui, indebolita finalmente la tradizione matrilineare, il re riesce a regnare a vita mentre la successione patrilineare diviene la regola (Graves si spinge fino a cronoligizzare queste fasi con l'affermarsi ed il diffondersi nel bacino del Mediterraneo ed in Grecia delle civiltà pre-elleniche prima, e con le successive invasioni elleniche che a quelle si sovrapposero, a partire dall'inizio del secondo millennio, distinguendo tra le invasioni eolica e ionica, che si sarebbero infiltrate "abbastanza pacificamente tra le popolazioni pre-elleniche", accordandosi con la teocrazia femminile, e quelle achee e doriche che finirono per imporre la successione patriarcale). In questo quadro, il Grande Anno si affermò quando "si cominciò a considerare troppo breve il periodo di regno concesso al divino paredro": allora l'anno di tredici mesi "fu prolungato nel Grande Anno di cento lunazioni, nell'ultima delle quali l'anno solare e l'anno lunare coincidevano approssimativamente". L' episema dello scudo di Tideo, che apre la rassegna dei Sette contrapposti a Sette, è un trionfo lunare, quello di Polinice, che la chiude, come in un cerchio, un trionfo solare! Tideo il cinghiale e Polinice il leone, ambedue cacciati dalla propria città e ambedue alla ricerca di una successione violenta sul trono che ritengono in diritto di rivendicare. Ambedue aggiogati (prima ancora del Cavallo Nero, Arione), sia pure metaforicamente, al carro di Adrasto, di cui hanno sposato ciascuno una figlia. E il carro di Adrasto, come stiamo per vedere, ha una funzione fondamentale nella tragedia .
Ma c'è di più, Tideo, vero doppio di Polinice, quasi di lui gemello elettivo per singolare sorte similare, non divora forse alla fine del duello -secondo la tradizione- il capo del suo avversario (gesto rituale il cui significato vedremo più avanti), Melanippo, anche questi Cavallo Nero; lui, Tideo, che già aveva ucciso un altro Melanippo, suo fratello in Calidone, ragion per cui era stato bandito dai concittadini?
Come in un caleidoscopio vorticoso di immagini che si sovrappongono e si sdoppiano senza posa, in una frammentazione e ricomposizione sconcertante della figura dei gemelli (oltre ai personaggi esaminati, quelli fondamentali, altri gemelli incontriamo nei Sette, sui quali non ci attardiamo solo perché il loro esame non molto aggiungerebbe alla nostra discussione...)! Il Re ed il suo tanist (successore di un re, nominato quando il sovrano è ancora in vita), il tragico alternarsi dell'uno all'altro nell' Anno Sacro prima e nel Grande Anno poi, le pratiche conseguenti all' accordo o al mancato accordo per la condivisione del potere e l'inevitabile sacrificio del Re (o dei Re) solari alla Grande Dea lunare alla fine di ogni mezzo anno di regno, o a conclusione del settimo anno: queste le immagini che sembrano balenare al fondo del caleidoscopio, quelle fondamentali dalle quali partono tutti i sorprendenti giochi di frammentazioni e di sovrapposizioni che rendono del tutto particolare questa tragedia di Eschilo. Nella Dea Bianca (Adelphi 1992), Graves ci racconta di un Eracle che nella leggenda appare come un re sacro pastorale, sovrano perché sposo della Divinità femminile, il quale, a metà dell'estate, alla fine di mezzo anno di regno viene ucciso ritualmente. A lui succede il proprio tanist, il gemello rituale, che regnerà per il resto dell' Anno Sacro (dopo avere sposato anche lui la regina che rappresenta la Dea Bianca signora della fertilità e della morte), per venire a sua volta alla fine ucciso da un nuovo Eracle, "I'Eracle dell' Anno Nuovo, reincamazione dell'ucciso, che lo decapita e ne divora il capo. Questa ripetizione del sacrificio eucaristico conferiva continuità alla regalità, giacché ogni re era per un certo periodo il dio-Sole amato dalla dea-Luna regnante". A questo tipo di Eracle si sovrappose la figura dell'Eracle re agricolo-pastorale, che regnava nel Mediterraneo orientale alternandosi anche lui con il proprio gemello. E in questo quadro si inseriscono le pratiche del cosiddetto Grande Anno, che si affermò in Grecia quando gli Achei cominciarono ad imporre la religione olimpica e la durata del regno si estese a otto, o anche a sette anni, "probabilmente perché ogni cento mesi lunari ha luogo un approssimativo avvicinamento tra i calendari lunare e solare" (ricordiamo gli episemi degli scudi di Tideo e di Polinice!). Al termine dell'ottavo, o del settimo anno di regno, il re doveva morire. Torniamo un momento al cocchio di Adrasto (cogliendo l'occasione per ricordare che il giro di pista sul cocchio era un simbolo di regalità) ed alla coppia cinghiale-leone. Occorrerà ricordare che il leone e il cinghiale erano i simboli animali rispettivamente della prima e della seconda metà dell' Anno Sacro e concordare con Graves, quando azzarda l'ipotesi che l'oracolo che consigliò ad Adrasto di porre fine alla rissa tra i pretendenti che aspiravano alle nozze con le sue due figlie Egia e Deipile aggiogando a un carro a due ruote il cinghiale (Tideo, la cui insegna era il cinghiale) e il leone (Polinice, la cui insegna era il leone) che combattevano nel suo palazzo, volesse in realtà proporre una soluzione amichevole alla tradizionale rivalità tra il re sacro e il gemello successore. Il regno sarebbe stato diviso in due parti e i due re avrebbero regnato insieme su ciascuna di esse (come secondo il mito accadde a Preto e ad Acrisio), anzicché regnare l'uno dopo l'altro sull'intero regno, come avrebbero dovuto fare e non fecero Eteocle e Polinice. Ecco perché alla porta di Preto, la prima, Tideo il Cinghiale, gemello elettivo di Polinice, combatte dalla parte del suo doppio contro Melanippo, eroe di Eteocle, mentre alla settima porta Polinice il Leone combatte fino alla morte (anzi, al sacrificio di entrambi) contro il gemello usurpatore Eteocle. Se Tebe non fosse stata la città della contraddizione e del conflitto, il Cinghiale della chiusura dell' Anno Sacro ed il Leone dell'apertura sarebbero stati, nel regno pacificamente condiviso, i gemelli naturali e sodali, Eteocle e Polinice!
Il cocchio di Adrasto ha dunque una funzione centrale nella tragedia. Ciascuno dei Sette aggressori, "uomini capi d'armata", dopo aver giurato, sotto le mura della città assediata, "o fare di Tebe macerie contorte, brutale razzia sul paese di Cadmo; o cadere, cementare col sangue questo suolo di Tebe", prima di lanciarsi nel fatale assalto (il vate Anfiarao già aveva vaticinato che solo il re di Argo, Adrasto, promotore della spedizione, si sarebbe salvato), sceglie "la propria reliquia: ghirlanda al carro d' Adrasto, per i vecchi, laggiù tra le mura di casa". Dunque, i campioni che, nonostante il cieco furore e la tracotante sicumera (Tideo e Capaneo sono i loro massimi esponenti!) da cui sono sospinti comunque alla battaglia, sono preavvertiti del destino di morte che li sovrasta, affidano i loro ricordi, da consegnare dopo la loro scomparsa ai parenti in patria, al carro di Adrasto, perché sanno che il puledro incantato, il negrocrinito figlio di Posidone, che vi è aggiogato, lo avrebbe ricondotto comunque in Argo. Ma non è, come potrebbe sembrare da questo assaggio, Posidone il dio alleato dei Sette aggressori. Dio della doppiezza e dell'ambiguità, dio sfuggente, Posidone domina su tutta la tragedia.
Si lascia intuire dietro Adrasto, ma non è schierato con gli eroi che morranno sotto Tebe: in realtà egli si situa, e sia pure ambiguamente e senza mai direttamente apparire, in mezzo o, se mai, a protezione della città di Tebe. Intanto, è vero che a fianco degli aggressori è collocata Pallade Atena, e sarà già questo a suggerire, per contrasto, l'invisibile presenza di Posidone accanto ai difensori. Tideo, il cinghiale, Tideo il vero doppio di Polinice il leone (come quello figlio incestuoso, come quello uomo dalle molte contese e ai suoi insanamente avverso, ancor più di quello forse feroce e spietato) è il protetto di Atena. E Atena, sappiamo, nei racconti che narrano delle lotte che gli dèi intrapresero per conquistare ciascuno città e territori da assicurare alla propria influenza, fu più di una volta in aspra contesa proprio con Posidone, a lei sempre soccombente. Come meravigliarsi, allora, se l' eroe che Eteocle pone a riparo della porta di Preto, la prima ad essere presa d'assalto da uno schiumante Tideo, è Melanippo, discendente della "semina d'uomini", gli sparti sorti dai denti del drago direttamente dalla terra, che addirittura nel nome "cavallo nero" porta -come abbiamo visto- un inequivocabile marchio posidonico? Posidone paredro della Madre Terra e della Terra scotitore, ancor prima che signore dei mari, Posidone dio-cavallo e di cavalli domatore, ancor prima che salvatore di navi. E soprattutto, Posidone dio della contraddizione e dell' apeiron. Come Eteocle, che cambia atteggiamento da un verso all'altro, e come Tebe, città al guado tra potere matriarcale e potere patriarcale. La mitica Atlantide, di cui discorre Platone, è la città in cui si incarna Posidone, signore del cavallo e del mare e sposo della Dea della Luna, come Anfitrite, e della Terra, come Demetra. E a noi appare come il modello archetipico della Tebe di cui abbiamo discorso. Pierre Vidal-Naquet, in uno splendido saggio su Atene e l'Atlantide, Struttura e significato di un mito platonico (in Il cacciatore nero, Editori Riuniti 1988), mentre riconosce nell' Atene delle origini l'espressione politica e mitica del Medesimo (definito dal principio della permanenza), con cautela filosofica rinuncia a riconoscere nell' Atlantide l'espressione politica dell' Altro ("Non diremo che essa è l'espressione politica dell' Altro, perché l' Altro non è").
Noi, meno condizionati dal ricatto della fedeltà al rigore filosofico, ci contentiamo di piegare spregiudicatamente i suggerimenti dello studioso alla nostra paradossale tesi e sostenere, di conseguenza, che così come la posidonica Atlantide è in qualche misura l'Altro, a sua volta la posidonica Tebe è l'espressione drammatica dell' Altro. Tebe, città della dualità e dell'apeiron, della contraddizione e della dismisura.
 


 
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Marcello Carlino
 
INTRODUZIONE a SUI CONFINI
dalla "rilettura di edipo", libro di a. cardamone, pubblicato da "papageno", aprile 2001
 
Questo sappiamo della letteratura del tempo in cui sta l'origine remota della modernità nostra: che non appariva stretta, come in una camicia di Nesso, dalla logica della divisione del lavoro e che i particolari modi d'espressione, a cui poteva accompagnarsi, non erano altrettanti articolati di parametri funzionali, di livelli, di mansionari tutt'affatto specifici. La totalità della scrittura di quel tempo doveva essere, e vogliamo dire alla lettera, un macrotesto organico, un ipertesto vero.
A questo "sapere" Alfonso Cardamone riporta la sua ricerca sopra Edipo. Non v'è atto o frammento o verso di tragedia (di poesia), eschilea o sofoclea, dove egli si fermi come in uno spazio chiuso o stia come in una dimora di cui siano irrevocabili limiti e proprietà, sicché per uscirne, od entrarvi, bisogna munirsi di visti e permessi. Facendo capo ad Edipo, piuttosto, e tutt'intorno, è tracciato e seguito un sentiero ininterrotto: abolite le gerarchie, cancellati dalla mappa il centro e la periferia, i racconti - -i racconti "tragici", i racconti del mito, i racconti dei racconti del mito- - sono fatti comunicare l'uno con l'altro e senza classifiche di merito, come forse avveniva un tempo, una spola siffatta intessendo e tramandando il sapere.
Cardamone muove da un'idea antropologica del racconto e la mette in opera disabilitando sia la degustazione pura del testo, sia la tematizzazione ideologica su un apriori concettuale (come è capitato si sia fatto nel territorio della psicoanalisi): assecondando, invece, la "forza" del viaggio (una forza alimentata da visite programmate e pure da incontri casuali, da rotte determinate e da derive) dentro il macrotesto di un iper-racconto antropologico.
È cosI che Edipo finisce per raccontarci, essenzialmente, una storia riferita alla dialettica del potere; ed è cosi che, in analogia con questa scrittura di ricerca la quale, non avendo né centro né periferia, si pone per vocazione e per scelta sempre sui confini, anche Edipo racconta la sua storia da un sito di confine: tra matriarcato e patriarcato, catabasi e anabasi, cecità e veggenza, pulsione di vita e pulsione di morte, viscere e intelletto, passione e ideologia, principio di piacere e principio di realtà, sapere e conoscenza.
Da questi confini Edipo può suggerire a noi, per oggi, una linea di "politica antropologica", che faccia leva appunto sulla cultura dei confini? lo, benché non ami attualizzare ad ogni costo e benché apprezzi le grandi virtù di uno sguardo straniato, dalla lontananza del tempo, sono portato a credere di sì. E sono pure persuaso che qui stia una ragione non secondaria della "restituzione" che Cardamone fa di Edipo, rileggendolo sul filo di molteplici racconti.




alfonso cardamone: "SUI CONFINI - rilettura di edipo", edizioni papageno Palermo, aprile 2001
 


 
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Renzo Scasseddu
[ archilochos@libero.it ]
 
ALFONSO CARDAMONE
SUI CONFINI
rilettura di Edipo
appunti per una presentazione
 
Si tratta di un libro stimolante, con taglio certamente (e severamente) 'scientifico', per "addetti ai lavori", con una bibliografia ricca, per quantità, qualità, varietà: nomi di supremo spessore riguardo i campi specifici…
Alfonso Cardamone si mostra, da sempre, 'avido' e competente lettore (e traduttore, insieme ad altri di prestigio… ) dei testi (il testo su tutto, "il testo - amo dire - è sacro", è il punto di partenza, quello filologico, più serio, più probante)…
Notevole la competenza sui Miti orientali antichi (molto visitati nei suoi "reami" dall'Autore)…
Concreti e coinvolgenti risultano i riferimenti alla Letteratura moderna… Alfonso ha sempre presenti gli "ipertesti"…, non solo ma anche gli "archetipi", sia "di genere" (la letteratura) sia "di immagine" (l'antropologia), con chiarimenti metodologici di persuasiva efficacia.
Un testo altresì agile, percorribile anche da lettori che in qualche modo sono interessati al mito, alla letteratura, all' antropologia.
Ecco, l'antropologia.
Per chi conosce la figura di Edipo non è facile scegliere una chiave di lettura; c'è solo l'imbarazzo (nel senso più vero, perché tutte valide, importanti, significative, anche coinvolgenti… ): letteraria, filosofica, religiosa, storica, poi della Schicksal Tragödie, la tragedia del destino e/o dell' aJmartiva, cioè della colpa, dell'errore. Come si vede, c'è ricchezza, anche sovrabbondanza (non uso a caso il termine…) e occorre quindi il coraggio della scelta, del giudizio (parole che in greco erano… krivsi"…crisi, appunto, anche in senso lato).
Dicevo della "sovrabbondanza": altra chiave di lettura, moderna, simpatica, affascinante (con tutto il peso dell'etimo di quest'ultimo termine) è quella che fa capo al cosiddetto " complesso di Edipo ", e quindi a Sigmund Freud: lettura psicoanalitica dell' Edipo re.
Cardamone (seguendo Fromm) ha il coraggio di mettere da parte questo percorso. Sono d'accordo…

Leggendo (meglio, rileggendo) il sottotitolo del libro mi sono soffermato su un elemento, a primo acchito di poco rilievo. L'elemento è una semplice sillaba, un prefisso: ri-, cioè ri-lettura. Per me è stato illuminante, in ogni senso. Infatti ogni qual volta mi accosto alla figura di Edipo, forse da me la più amata tra le figure tragiche, la mia curiosità si accende sempre, comunque: voglio vedere, sapere, conoscere (proprio come Edipo…) le novità. Un po' come gli Ateniesi del V sec. a. C., che andavano a teatro con grande curiosità e profonda sensibilità culturale e politica, nonostante ben conoscessero il mito oggetto della rappresentazione drammatica delle annuali 'stagioni teatrali'.

Edipo (mi piace l'espressione di Alfonso) emblematico oxymoron: egli è affascinato, abbacinato quindi accecato dalla luce della sapienza …
Edipo e Tiresia si contendono la palma del sapere… Edipo vede e non sa, Tiresia non vede ma sa…
Tiresia, dotato di scienza divina, apollinea, solare, rappresenta la conoscenza patriarcale, Edipo quella subterrena, matriarcale.
Ecco la 'proporzione' : Tiresia = Apollo, Edipo = Dioniso.

Nella sintetica ma concreta e illuminante sua Introduzione, Marcello Carlino parla di confini tra patriarcato e matriarcato, conoscenza e ignoranza, luce e tenebre…
È proprio questo - aggiungo - il senso della tragedia, della dicotomia, della inconciliabilità tra due elementi che si presentano opposti, ma che hanno uguale 'diritto di cittadinanza' …
Ancora, ben concordo con lui quando parla (con le dovute 'riserve metodologiche'…) della attualizzazione di un Edipo ai confini, come problema di "politica antropologica".
Mi viene spontaneo considerare che la "modernità" di Edipo sta nella sua debolezza di fronte a tutto e tutti, nella lotta e nell'accettazione del sacrificio…, fino alla rinascita finale…
… tra patriarcato e matriarcato, sarebbe interessamte vedere chi sta con la luce, chi con le tenebre …
Dalla lettura del libro, sembra piuttosto chiaro che Cardamone si pone dalla parte del matriarcato, nella felicissima sua intuizione di un Edipo che rappresenta, potrei dire visceralmente, la figura dell' antieroe, l'antieroe "sapienziale", l'eroe "antieroe", dei margini, dei confini, dell'oltre, che nella tragedia di un sacrificio personale celebra l'inappellabile condanna dei principi gerarchici ed autoritari che hanno trionfato nella storia. Egli si oppone ad un potere precostituito, comunque vigente e potente, anche arrogante, quello che parte da Zeus, promotore dell'êra del patriarcato…
Patriarcato = potere, violenza, instabilità, distruzione e morte (cfr. Tebe e le metafore marinare…)
La stessa Tebe sembra una contraddizione: città occidentale, ma di origini orientali (il fondatore, Cadmo, viene dalla Fenicia e porta l'alfabeto - orientale - in occidente. Alfabeto = fondamento di comunicazione, quindi di cultura, tout court.

Interessantissime le pagine sulla Sfinge: essa "rappresenta la maligna immagine residuale dell'antico potere matriarcale, che diventa la maschera della precarietà del potere patriarcale…". Edipo la distrugge, distrugge cioè un simbolo matriarcale, sembra vincere il male, ma poi ritorna (Alfonso) alle madri, alle Erinni, quando entra definitivamente nel bosco sacro, oltre la "porta di bronzo" (che è, al tutto, la skenè), e quindi viene sconfitto il patriarcato, che è simbolo della cultura occidentale…
L'enigma della Sfinge è risolto da Edipo, perché riguarda lo stesso (molteplice-uomo) Edipo, cioè 1) figlio, 2) padre, 3) fratello, e sposo - senza identità unica…
Edipo "Uno e Trino"… Pirandellianamente "Uno, Nessuno, Centomila"
Importanza della madre, della donna, … i termini che, nella tragedia, indicano l'acqua, acqua lustrale dei misteri eleusini, l'acqua del mare (metafore marinare) che fa ondeggiare la nave-stato…, la città di Tebe, città greca sì, ma di origini orientali (Cadmo), culture in cui prevale la componente matriarcale…
L'acqua come liquido amniotico…
Solo la mamma può partorire…

Mi son 'divertito' a proporre dei titoli ai capitoli, a mo' di scaletta per la presenrazione

Cap. I Le Erinni
Cap. II L'Acqua
Cap. III I Misteri Eleusini
Cap. IV Edipo antieroe
Cap. V I Sette a Tebe
Cap. VI Tebe e le sue contraddizioni
Cap. VII Edipo tra Patriarcato e Matriarcato
Cap. VIII Edipo e l'Enigma
Cap. IX Edipo e Tiresis
Cap. X La morte di Edipo
Cap. XI La 'rinascita' di Edipo
 


 
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Mario Amato
[ marius2550@yahoo.it ]
 
VEDRAI CASTELLI INCANTATI
 
Vedrai castelli incantati

Numerosi di guglie

Che nell’azzurro

Si smarriscono

E città sul glauco

Mare riverberare



Ascolterai in ogni dove

Il canto delle sirene

E nel labirinto del cuore

Sarai nelle incisioni

Dei poeti



Percepirai della vita

I profumi dei fiori

Che di notte sbocciano

Come amore fra

Sposi novizi



Berrai a sorsi in taverne

Antiche i sapori dell’amicizia

Preparata da destre formule



Indosserai damaschi

Di vesti regali

Lievi come toccamento

Di rose
 


 
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Mario Amato
[ marius2550@yahoo.it ]
 
I VIAGGI DI DEMETRIO FALEREO
A Franco e Alfonso
 
"E Tu Grecia felice"
Friedrich Hölderlin


Demetrio Falereo stava seduto di fronte alla linea dell'orizzonte.
I ricordi si affollavano nella sua mente e dinanzi agli occhi: la sua città, la bella e giovane moglie, i figli ancora infanti.
La sposa aveva ora forse i capelli bianchi ed il viso scavato da rughe o era morta, i figli si erano fatti uomini, si erano innamorati, avevano procreato, ma egli non aveva visto la semplice meravigliosa storia della sua famiglia.
La sua discendenza non sapeva nulla di lui, se non che un giorno era partito per un'alta missione.
Nella mente scorrevano i nomi di tutte le città visitate, i volti degli uomini ai quali s'era accostato e delle donne dei postriboli che lo avevano consolato nelle notti struggenti di nostalgia. E quelle notti erano state senza numero.
Sapeva che non sarebbe mai più tornato ad Atene, che la fine del viaggio sarebbe stato il termine stesso della sua vita, sapeva che la sua lapide sarebbe rimasta illacrimata e che il suo nome scolpito sulla pietra non avrebbe donato nessuna reminiscenza al passeggero. Di tutte le città in cui aveva camminato soltanto Atene gli pareva degna di essere ricordata, di tutte le donne conosciute soltanto la moglie ritornava nel ricordo, e quella memoria era nelle mani, nelle narici, negli occhi. Ad Atene, tuttavia, se mai un giorno avesse calcato nuovamente il sacro suolo della patria, sarebbe stato uno straniero; la moglie, se mai un giorno si fosse presentato nuovamente al suo cospetto, non l'avrebbe riconosciuto.
Pensava ad un altro viaggiatore di cui aveva ascoltato le gesta, pensava ad Odisseo, l'eroe già memorabile, che assiso dinanzi a re e regine narrava le storie dei suoi viaggi senza mai stancare gli ascoltatori.
Demetrio Falereo stava invece seduto in un angolo del mondo, solo e senza alcuna parola da dire, muto nelle labbra e nell'anima, consapevole che i suoi giorni terreni non sarebbero stati degni di menzione. I veri eroi vanno per mare, mettono a rischio la loro vita e quella dei marinai, e principesse e maghe e semidee si innamorano, pur sapendo di essere dimenticate in fretta, perché gli eroi hanno molti orizzonti, ma Ulisse e quelli simili a lui viaggiano per sé stessi, per i loro volgari piaceri, per cercare tesori e ricchezze, e diventano altéri, pretendono che le loro imprese siano riconosciute e celebrate come glorie del mondo e di tutti gli uomini.
L'umile studioso Demetrio Falereo invece aveva viaggiato non trasportato dalle onde del mare, non in compagnia di amici fedeli, non per proprio vanto e piacere. Aveva camminato con vigore da giovane, con cautela nella maturità, con passo lento e grave nella vecchiaia, e tutte le orme che aveva lasciato erano state incise per gli uomini a venire.
Egli non aveva dimenticato nessun passo, ed i suoi passi si erano diretti in tutte le direzioni.
Stava completamente immobile rievocando ogni momento del suo viaggio: aveva visto l'Oriente, aveva saggiato la calura del Meridione, aveva varcato i confini del Settentrione, aveva contemplato con rispetto le sacre colonne.
I volti degli uomini che aveva conosciuto si stagliavano nitidi nella memoria, ma uno su tutti prevaleva.
Una mattina, una bella mattina assolata si era destato felice, aveva ascoltato i servi lavorare, aveva ammirato il corpo dalla pelle levigata della sua giovane consorte, aveva guardato i campi ben lavorati e ricchi di messi, olivi e filari di viti, aveva camminato nella casa pulita ed addobbata con raffinatezza, si era infine sentito orgoglioso che nella sua dimora si poteva trovare refrigerio in estate e calore in inverno e che gli ospiti lodavano il suo nome.
Un ospite era giunto quella mattina. Era il nunzio del Grande Imperatore.
Prima ancora di leggere il messaggio, Demetrio Falereo aveva invitato il messaggero a smontare da cavallo ed entrare in casa ed aveva affidato lo stanco animale ai suoi servi, affinché lo strigliassero e gli dessero acqua e biada. Il legato era stato affidato alle ancelle.
Il messo, qualunque fosse stata l'ambasciata, avrebbe riferito al Grande Imperatore l'encomiabile ospitalità del saggio Demetrio Falereo, amante dei libri e del sapere.
Il latore imperiale aveva accettato di buon grado, poiché non gli era stato fatto espresso divieto del contrario.
Demetrio non ricordava il nome di quel giovane, ma il suo viso di guerriero macedone era scolpito nella mente come un segno sulla roccia, scavato da paziente pioggia secolare, come i segni che egli aveva raccolto in tutto il mondo noto e in quello ancora a molti oscuro.
A sera il macedone si ristorò con cacciagione ben cucinata e dolce vino, ascoltò un'avvenente serva cantare, ammirò un'altra danzare, ascoltò le fole di un rapsodo, riposò infine su un soffice giaciglio.
Terminato il banchetto all'alba, il padrone invitò a riferire il messaggio dell'Imperatore, ma il nunzio non proferì parola e consegnò uno scritto "Io Alessandro il Macedone, il Grande, conosciuta la fama di sapiente di Demetrio Falereo, ordino che egli compaia al mio cospetto". Invano l'ateniese chiese al messo quali fossero le ragioni di quell'ordine: egli non sapeva, aveva soltanto preso la pergamena dalle mani del Re dei Re e comprendeva che fra i suoi compiti vi era anche quello di scortare Demetrio Falereo fino ad Alessandria, fino al palazzo imperiale.
E sapeva che all'Imperatore non piaceva attendere.
Il messo imperiale non avrebbe rivisto né Alessandria né il suo imperatore, l'ateniese non avrebbe rivisto né la sua città né la sua casa.
Bisognava partire prontamente e Demetrio Falereo ordinò di preparare il carro ed i viveri, indossò la veste da viaggio, prese dalle mani della moglie la toga che avrebbe indossato dinanzi all'Imperatore, abbracciò e baciò la consorte e sentì nascere ancora una volta il desiderio. Alessandria era lontana ed il viaggio pieno d'insidie; il messaggio faceva cenno alcuno al ritorno.
Il desiderio rinasceva in quell'angolo di mondo ove stava seduto Demetrio Falereo.
Quanto tempo sarebbe stato lontano? La sua bella moglie avrebbe atteso il ritorno come Penelope aveva aspettato Ulisse? C'erano ad Atene uomini affascinanti ed anche nella sua stessa casa vivevano schiavi dalle belle fattezze. Quanto a lungo può resistere al desiderio una giovane donna? Chi avrebbe governato l'andamento della casa e delle terre?
Nel cuore di Demetrio Falereo si aprivano dubbi ed incertezze ed anche sottentrava un sentimento nuovo e terribile: l'odio.
Era odio per l'Imperatore, un barbaro venuto da monti rocciosi a portare violenza, dividere famiglie, sconfiggere la civiltà.
Quell'impulso non percorreva una via diritta verso l'Imperatore, ma deviava verso un'altra più breve e più angusta e giungeva al bersaglio più vicino, a colui che aveva recato il messaggio e che ora dormiva tranquillamente in una stanza della casa; anche costui era un barbaro ed aspettava che un ateniese, un uomo sapiente, un erede della Grecia delle città ottemperasse ad un ordine recato da lui, forse l'ultimo dei soldati di Alessandro.
C'era stato un tempo ad Atene durante il quale nessun uomo ordinava ad un altro, un tempo durante il quale le leggi erano discusse e decise in pubbliche assemblee e non vi erano re e sudditi, ma semplicemente cittadini. Quale fondamento aveva questo Alessandro per dirsi il Grande, per ritenersi Re dei Re se non quello del suo barbaro sangue che lo incitava a combattere, distruggere, saccheggiare? Chi erano gli avi di costui? Erano stati forse poeti o filosofi o piuttosto rozzi pastori puzzolenti di letame di pecore e capre? Ed anche gli antenati del legato, di quell'uomo che se ne stava cheto ad attendere obbedienza, avevano avuto lo stesso sgradevole odore e non avevano neanche immaginato che potessero esistere città, templi, teatri, leggi, scrittura, scuole: civiltà.
Il messaggio dell'imperatore giaceva aperto su un tavolo, inciso nei suoi bei caratteri sulla elegante pergamena simile ad una sentenza.
Demetrio Falereo stava immobile di fronte all'orizzonte: preciso dai ricordi sorgeva il volto del messaggero e gli pareva uguale a quello dell'Imperatore.
In quel lontano mattino Demetrio pensò che il messo incarnasse non soltanto la volontà di Alessandro il Grande, ma lo stesso Imperatore, pensò che i due uomini fossero fatti della stessa carne e dello stesso sangue: quando affondò il gladio nel petto del messaggero e spinse fino a trapassare il cuore barbaro, gli parve di uccidere Alessandro.
Il viaggio fu lungo e non facile: alcuni uomini e cavalli morirono, alcune merci furono perdute, altre acquistate.
Giunsero ad Alessandria, capitale del mondo: Demetrio non vide templi e teatri, ma un edificio grande quanto la città. Era il palazzo imperiale.
La costruzione constava di giardini, seguiti da saloni e poi ancora da giardini, e ovunque erano soldati in armi e più si avanzava più erano i soldati.
Ed era silenzio.
Giunse infine di fronte ad un'enorme porta di bronzo scolpita con bassorilievi raffiguranti le vittoriose battaglie di Alessandro il Macedone.
La porta si aprì lentamente e lo sguardo di Demetrio Falereo si perse nella lontananza come a volte accade guardando l'infinito. Alla fine del salone, laggiù all'orizzonte, sorgeva imponente il trono ove stava assiso Alessandro il Grande.
Demetrio Falereo stava seduto in un angolo del mondo.
L'Imperatore doveva aver fatto un cenno, poiché il corteo iniziò ad avanzare; i passi risuonavano nella vastità e nel silenzio, i soldati ai lati erano immobili, la stanza era piena di luce, sebbene non si comprendesse da dove provenisse, forse dallo stesso Alessandro.
Il tragitto dalla bronzea porta al trono parve a Demetrio durare quanto il viaggio da Atene ad Alessandria.
Sotto all'alto scanno l'ateniese chinò il capo. In verità nessuno aveva richiesto quel gesto servile, ma esso era stato generato dal silenzio, dai militi scintillanti nelle loro corazze, dall'imponenza del soglio, dalla maestosità della figura di Alessandro avvolta in una veste d'oro.
L'Imperatore si sollevò e discese lentamente i gradini ed indicò all'ateniese di seguirlo: uscirono su una terrazza ove altri soldati montavano la guardia, il Re dei Re parlò << Guarda, ateniese>>. Non molto lontano si vedeva una moltitudine di uomini che si muovevano con fervore intorno ad una costruzione in atto, una costruzione della quale non si scorgeva la fine. Osservando più attentamente, Demetrio Falereo distinse muratori, architetti e capomastri. <>.(1)
Demetrio Falereo chinò il capo e cominciò ad indietreggiare. L'Imperatore, che mai fino allora aveva guardato l'ospite, si voltò fissandolo negli occhi e chiese << Dov'è il mio messaggero? >>.
Stava seduto immobile dinanzi alla linea dell'orizzonte e ricordava con esattezza le parole dell'Imperatore, ricordava il viso imberbe, ma non ricordava se avesse risposto. Ricordava che in quell'ora era iniziato il suo destino. Era la prima volta da quel remoto giorno che pensava alla domanda di Alessandro e al messaggero, atteso forse da una moglie e dai figli. Pericoli si celano in tutte le vie e i messaggeri hanno scelto di essere messaggeri. Anch'egli era diventato un ambasciatore, era il nunzio di un sogno.
Demetrio Falereo vagò per tutto il mondo alla ricerca di tutti i libri ed allorché non trovava la copia di un volume, egli stesso provvedeva al duplicato.
Tornava ad Alessandria con il suo carico pregiato, sperando sempre nell'ultimo viaggio, confidando di poter riabbracciare la consorte, rivedere i figli, camminare attraverso le strade lastricate della sua città. In qualche luogo sperduto tuttavia era stato scritto un nuovo libro ed egli doveva rimettersi in cammino e a volte doveva percorrere le stesse vie, parlare con gli stessi uomini, ripetere parole già dette; altre volte doveva contrattare a lungo il prezzo di un libro, poiché i notabili della città dove era giunto volevano erigere una biblioteca universale ed erano restii a privarsi di un solo volume. Anche quando seppe della morte di Alessandro egli continuò il suo compito.
Dov'è il sepolcro dell'imperatore? Esso è perso per sempre, ignoto come l'urna che racchiude le ossa di Demetrio Falereo.
Gli scribi della biblioteca di Alessandria prendevano i libri dalle sue mani senza mai ringraziarlo, indifferenti alla fatica del viaggiatore, alla polvere che respirava nelle strade, alla fame, alla sete, alla pioggia, al freddo, all'afa, ai dolori, a tutto ciò che sopportava in silenzio; prendevano i volumi in silenzio, poiché il silenzio regnava in quel luogo.
E nell'anima di Demetrio Falereo.
Il silenzio regnava ovunque: un tempo le città parlavano, i rapsodi narravano, i versi degli attori echeggiavano nei sacri teatri, i filosofi discorrevano nelle piazze. Ora i teatri tacevano e a volte si vedeva un uomo solitario assorto nella lettura, seduto sulle gradinate; non v'erano più aedi, non più v'erano maestri che dialogavano con i fanciulli, ma si aggiravano muti nei ginnasi con le loro pergamene spiegate.
Il mondo taceva.(2)
Demetrio Falereo stava seduto di fronte alla linea dell'orizzonte e ricordava ogni singolo momento della sua vita. Dinanzi ai suoi occhi s'innalzavano le fiamme della biblioteca di Alessandria e fra esse appariva il volto del messaggero o forse dell'imperatore Alessandro il Grande.
Al dibattimento qualcuno disse di aver visto la figura di un vecchio allontanarsi, qualcun altro affermò che l'uomo visto fuggire assomigliava a quello che portava i libri.
La cenere coprì Demetrio Falereo, il Grande Imperatore, la Biblioteca di Alessandria. Da allora biblioteche vengono edificate in tutta la terra.
Da quel tempo noi scribi della biblioteca di Alessandria vaghiamo per ogni dove, perché soltanto i sogni sopravvivono.
Uno scriba si fermò un giorno sulla terra bruciata di Alessandria e scrisse la storia di Demetrio Falereo.

NOTE:
1) L'incarico di raccogliere tutti i libri esistenti fu assegnato all'arconte di Atene Demetrio Falereo da Tolomeo II. Vedi Luciano Canfora, La trasmissione del sapere, in "I Greci, Noi e i Greci", pag. 648, 649
2) La pratica di leggere in silenzio è successiva al tempo nel quale ho ambientato il racconto. J. L. Borges la attribuisce a Sant'Ambrogio. Del culto dei libri, Mondadori, pag.1010-1015. Per tale problema vedi anche Carles Miralles, L'intellettuale nella Grecia antica, in "I Greci, Noi e i Greci", op. cit. pag. 848-882
 


 
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Oreste Bonvicini
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VIAGGIATORI SEDENTARI
Perché guardavano l'orizzonte?
 
-Guardavano l'orizzonte, il raso del cielo, tacevano, non potevano più staccare il pensiero da quel punto in cui la strada bucava la massa nera, indecisa.- ci spiega Yves Bonnefoy.
Ma dove s'arriccia la linea dell'orizzonte, sul nostro occhio allenato e svelto al veloce scorrere delle ore, delle stagioni, del tempo?
Abbiamo levato voce come di viaggi sedentari.

Ho scritto, nei versi di CONDIZIONE, di moto/immoto, di luoghi visti dentro, riflessi lontani dei corpi.

Come occhi su vetri riflessi/specchi, volti a sconosciute mete/oppure incontri a cardinali/ punti, confini, valichi/ valli invalicabili, ovunque restando immobile,/ mia unica condizione,/ sapevo, smarrendomi nel piacere,/il palpito del cuore, anima/che sa di vento, umile essenza/di corporee assenze.

Assenze come smarrimenti, smarrirsi nel piacere nell'ambra del tramonto o nel ricordo di una terra immaginata o di un'altra vita, vissuta altrove. Dove? Dentro di noi?
Come diceva Agostino a proposito della memoria?

“Grande è la potenza della memoria, troppo grande, Dio mio, un santuario vasto, infinito. Chi giunse mai al suo fondo? E tuttavia è una facoltà del mio spirito, connessa alla mia natura. In realtà io non riesco a comprendere tutto ciò che sono. Dunque lo spirito sarebbe troppo angusto per comprendere se stesso? E dove sarebbe quanto di se stesso non comprende? Fuori di se stesso anziché in se stesso? No. Come ma allora non lo comprende? Ciò mi riempie di gran meraviglia, lo sbigottimento mi afferra. Eppure gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell'Oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano se stessi. Non li meraviglia che io parlassi di tutte queste cose senza vederle con gli occhi; eppure non avrei potuto parlare senza vedere i monti e le onde e i fiumi e gli astri che vidi e l'Oceano di cui sentii parlare, dentro di me, nella memoria tanto estesi come se li vedessi fuori di me. Eppure non li inghiottii vedendoli, quando li vidi con gli occhi, né sono in me queste cose reali, ma le loro immagini e so da quale senso del corpo ognuna fu impressa in me.” (Conf. X 8.15)

Le percezioni allora, divengono quei luoghi visti con l'immaginazione, di cui si parla come veduti dentro, con il trasporto che ci trasmettono i sensi. Li porteremo sempre in noi, viaggiatori sedentari, che “vediamo” senza occhi eppure “sentiamo”. Non è così per i luoghi che ci “chiamano”, quei luoghi da cui ci sentiamo attratti pur senza averne mai respirato un refolo di vento della loro atmosfera?
Eppure c'è qualcosa che ci spinge e ci respinge, lasciando intatte le sensazioni, come un transfer accompagnato, nelle sere, al silenzio, al buio che annulla ripiana e nasconde la linea dell'orizzonte.
Non sono mai stato a New York, dice Remo Rapino, così come il mare delle Antille è meraviglioso, forse più bello sognato sulla carta dispiegata sulla scrivania.

Non sono mai stato a New York,
neanche in sogno né per caso saltando
in una sbregata stazione di provincia
alla fermata di un treno sbagliato.
Non conosco le grandi foglie dei platani
del Central Park né le luci neon giganti
dentro i fiati dei paesaggi fast food:
non a tanto arriva il mio cuore sedentario.
S'è fermato sui bordi fragili del vecchio
Tago, animale in letargo che stancamente
s'ingorga tra le scalmanate dell'oceano.
Non ci andrò mai a New York, gran bel
posto jazz and blues, okay, non lo nego,
pur con tutta quella che mi ritrovo
propensione all'autostop. I know che
mi perderò in mille tentacoli di strade
and so non saprò mai la fine della storia
come la raccontano tirando canapa buona
i reduci neri della santa guerra in Vietnam.
Lasciatemi stare qui incurvato alla sedia
con i miei necessari angeli a girotondo.

(Remo Rapino)

Non partiremo mai

Antonio, noi non partiremo mai.
Navigheremo sempre
antichi mari di sogno
sotto la luce fragile
del paralume giapponese.
Non sentiremo l'urlo
della sirena nei distacchi amari
lungo i moli della nebbia.

Restiamo, io non ho più voglia
di vedere
oltre i colli
della mia fanciullezza.

Il Mare delle Antille
ha un colore
meraviglioso
spiegato sulla scrivania.

(Giorgio Simonotti Manacorda, da I banchi di Terranova, Einaudi, 1967)
 


 
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Alessandro Liburdi
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DISCORSO INUTILE
 
Breve premessa a un discorso inutile. Una premessa che parte direttamente da una conclusione amara, eppure rassegnata; una premessa per la quale ho preso in prestito anche per me la parola “poeta” – uno scomodo fardello da portare nella moderna “civiltà dell’utile”. Ebbene, siamo inutili.
Noi poeti siamo inutili, non si scappa. Siamo inutili, nell’orribile accezione che l’economia contemporanea ha dato alla parola “inutile”. Siamo inutili, siamo disadatti a quest’epoca che ci incalza, ci morde e ci fa fuggire dentro i nostri cuori. Siamo inutili, non siamo capaci di apprezzare questo bel mondo splendente, ricco, lussuoso, pieno di tante possibilità e di progresso... Siamo inutili: scusateci se non abbiamo capito che la terra ci vuole bene, che ci accoglie sempre a braccia aperte, che vuole darci pane e denaro per campare cent’anni... Siamo inutili: non scriviamo sui muri, quelli li lasciamo sporcare ad altri, le scritte protoromantiche di questi beceri sono senz’altro superiori ai nostri lamenti, ai nostri latrati di pavone colpito dal cacciatore... Siamo inutili, perciò ce ne stiamo nell’angolo, nel chiuso delle nostre esistenze, a prendere polvere, mentre fuori imperversa come una tempesta il sole della modernità: con il linguaggio vacuo della pubblicità che si trascina come un’alluvione; con il pettegolezzo e lo scandalo che cadono a valanga; con la politica che frana ogni giorno di più su se stessa.
Siamo inutili, questo lo sappiamo. Non c’è più tempo per i versi: chi li scrive è “un pazzo, uno strano, un alienato”, non è normale. Ecco cosa siamo: cordoni ombelicali da tagliare, per evitare che si diffonda il contagio (oh, l’orribile contagio!) della poesia. Siamo qualcosa da evitare: un virus da controllare, da chiudere nei laboratori.
Siamo inutili, o piuttosto siamo scomodi, perché parecchi ci evitano e c’additano come seccatori? Siamo inutili, o piuttosto siamo scomodi, perché dissezioniamo la realtà e ci avviciniamo al nocciolo delle questioni, lacerando strati e strati di vischiosa ipocrisia? Siamo inutili, o piuttosto siamo scomodi al mercato, alla politica, all’economia, a tutti i burattinai che dirigono gli altri con i fili dell’opportunismo? Siamo inutili, o piuttosto siamo scomodi, perché abbiamo un cuore nella testa, un cuore che pulsa e che sprigiona un pensiero libero dal perbenismo e dall’ignoranza? Ci classificano come inutili, per non dirci che siamo scomodi, per continuare a ridere alle nostre spalle, a indicarci come “i falliti”, “gli antagonisti”, “i critici”. Noi poeti siamo le cicale di questo “mondo dell’utile”.
Siamo inutili, così inutili da sembrare perdenti. Qualcuno vorrebbe farci ingoiare il rospo, farci ammettere che siamo davvero perdenti. Ma come fanno a convincerci visto che noi, proprio noi, continuiamo ostinati a riflettere e a scrivere; visto che continuiamo a spremere sudore e a bruciare nelle nostre vene in preda all’ispirazione e alla passione del sentimento; visto che continuiamo a guardare il mondo con gli occhi nostri, usando la penna come una Durlindana un po’ ammaccata, ma sempre gagliarda.
La colpa che do piuttosto ai poeti, semmai i poeti hanno una colpa, è piuttosto un’altra e vale per me come un incoraggiamento: siamo ingenui, è questa la verità. Siamo così ingenui che crediamo ancora di dare un’anima alle cose del mondo; così ingenui da aggrapparci ancora ai sogni, alle favole, ai miraggi; così ingenui da metterci a disegnare traiettorie utopiche nel cielo e nella mente; così ingenui che ci illudiamo di poter scalfire i tanti cuori di pietra cantando con la disperazione o con la gioia dentro. Siamo ingenui: scusateci, se vogliamo rimanere bambini, piccoli incoscienti, sinceri fino alla ferocia, alla brutalità delle parole. Ma ci pare che questa sia l’unica strada per salvarci, per continuare a essere uomini e non semplici bestie che respirano, si nutrono, fanno sesso e dormono; ci pare sia questa l’unica strada perché non siamo né morti né sopravvissuti, ma viviamo nella stessa catastrofe dei nostri detrattori, ogni giorno di più e più ostinatamente. Perché la poesia può porsi le domande e cercare le risposte del nostro vivere, del nostro andare, del nostro ripartire verso porti ignoti o sepolti. Perché sono le parole, quelle serie e vissute, che seminano i fiori della moralità in mezzo alla plastica delle nostre esistenze. Perché sono le parole l’unico mezzo che abbiamo per decifrare questa foresta di simboli, e per riscoprire di nuovo il noi stessi che abbiamo smarrito da qualche parte.
I poeti ci sono, e fanno le cicale di questi tempi inondati dalla luce di questi riflettori fatui: a loro piace “perdere tempo” perché il tempo lo dipingono, lo smembrano in ogni sua fibra, alla ricerca del suo senso. I poeti lavorano, lavorano anche: fanno gli incantatori di serpenti in un grande circo chiamato realtà. Non sono nemmeno salariati, lavorano gratis, fieri di essere i perdenti di oggi, i premonitori di domani.

giugno 2010