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  registrazione n.94 del 28.2.1972 presso il tribunale di frosinone
direttore responsabile alfonso cardamone
 



 
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Romolo Runcini
 
LA MEMORIA E LA VITA
(da "taccuino di Viaggio '90" - note scritte in treno e in aereo)
 
Sfogliare una vecchia agenda è pericoloso, quasi un andare contro Natura. È un insulto alla irreversibilità del tempo, una intrusione nel vuoto della zona interdetta; una sfida alla Morte. Ciò che è accaduto a noi è finito, irripetibile, inconciliabile con quanto sentiamo attualmente anche se ciò che costituisce il nostro esserci deriva da quella spinta.
L'esperienza del mondo si offre come ricapitolazione del passato facendosi memoria del tempo. Ma questa memoria ha un senso solo se confrontata col presente, ossia se ci invita a un esame della realtà in cui siamo, mettendoci in grado di evitare o accettare eventi che ci hanno minacciato o favorito nel nostro cammino: la memoria insomma può avere un unico valore positivo per noi, quello di cavar profitto dalle circostanze. In tale prospettiva è giusto sostenere il valore sociale dell'esperienza che nella memoria ha fondato il suo principio formativo della persona.
Sfogliando le vecchie agende, i diari, i quaderni che abbiamo riempito di appunti, di propositi, troviamo il nostro passato nell'immediatezza di una notazione con cui ci eravamo immersi nella realtà del presente. Possiamo approfittare di quanto abbiamo visto o provato, oppure schivarne ogni possibile conseguenza negativa. Possiamo naturalmente lasciar cadere tutto ciò se le due prospettive del passato e del presente non collimano. È una scelta totalmente nostra. Nondimeno se spostiamo il nostro interesse dal piano puramente personale a quello esistenzialmente incontrollabile del mondo degli altri, delle persone incontrate, degli amici, dei parenti che contavano per noi, la prospettiva cambia di segno. Non siamo più noi a poterci valere degli errori commessi, dei propositi sfumati o della volontà di proseguire nei sentieri già ben tracciati. In presenza del mondo degli altri, sono gli altri che contano; anche in relazione alla nostra amicizia, alle attese che ci eravamo ritagliate. Qui scatta un altro tipo di scelte e la memoria ci offre solo l'immagine viva e sfocata di quelle persone. È una memoria nostalgica, non costruttiva, a corroborare per noi l'immagine degli altri.
La perdita di un amico può esaltare in noi il ricordo di giorni felici o drammatici passati insieme, e proprio la lettura delle nostre vecchie agendine finisce per esaltare la sua figura anche più di quanto non ne avessimo tenuto conto in passato. Si muove di qui una memoria tanto accesa da farci sfogliare le pagine con gli appunti fissati negli anni trascorsi sull'incontro, sulle conversazioni, sui propositi comuni tenuti con la persona amica, con rispetto sacrale, religioso; quasi un tacito invito a sospendere il tempo, a voler tornare indietro, per spiegarci meglio, a capire di più, a non perdere il pathos di quei momenti così importanti per noi. La memoria-nostalgia ci induce insomma a sopprimere il presente, il nostro presente, pur di catturare un istante di gioia/dolore trascorso assieme. Per tale scelta scatta l'inestinguibile passione totalitaria del nostro io, che vorrebbe incontri e confronti esaustivi con l'altro da sé, dove nulla resti in sospeso, trascurato, per un bilancio sempre positivo della nostra esperienza.
Ma la pagina scritta, il suggello di uno stato d'animo disegnato al momento nei toni indeterminati di progetti da realizzare in comune, oppure di mancanze che andavano riparate, ci inducono spesso allo sconforto -dopo la morte o la lontananza dell'amico- per non aver soddisfatto i nostri più intimi desideri nel tempo giusto. Di qui la colpevolizzazione che ne deriva per ogni impegno deluso. La memoria allora diventa per noi una nemesi per quanto abbiamo trascurato di fare, risuona in noi con la voce implacabile di chi ammonisce per la nostra incongruenza e insensibilità nel rapporto con gli altri.
L'esperienza del nostro passato può dunque valere soltanto allorché riusciamo a riflettere su noi stessi, sui nostri errori e propositi, facendoli convergere nel presente in un quadro di tabù e precetti da osservare attentamente. La memoria che sostiene questa sfida sempre attuale col nostro tempo deve saper cogliere il massimo profitto dalla lettura di quel quadro per le azioni da fare o da evitare.
L'altra memoria, quella che non ci riguarda in prima persona ma investe il mondo degli altri appare così uno spazio pericoloso per noi, assolutamente non funzionale all'impegno richiesto per la costruzione quotidiana, progressiva della nostra personalità.
La fine del tempo -il nostro passato inteso nella sua relazione col mondo degli altri- deve costituire per noi un punto assoluto di non ritorno pena la perdita della nostra stessa entità di persona, che si aggirerebbe nei meandri degli spazi interdetti di un vissuto non proprio. Si capisce di qui l'elementare culto dei morti (che anticipò le religioni storiche) per cui i nostri antenati primordiali (e i popoli primitivi di oggi) sono riusciti ad evitare il pericoloso connubio del vivo col defunto accreditando con offerte e sacrifici la propria presenza esistenziale come il solo valore accettabile per la società. In tal modo la comunità dei vivi uccide due volte Ia comunità dei morti e una barriera invalicabile viene posta tra i due mondi. I soli legittimi a valicare quella barriera -la barriera del tempo- erano gli sciamani. Essi soltanto potevano attraversare indenni il confine fra tempo sacro (quello dei morti) e tempo profano (quello dei vivi), fra eternità e quotidianità. Le religioni storiche hanno continuato e esaltato il potere degli sciamani fondando le chiese, impadronendosi delle coscienze, entrando in campo e in conflitto con le istituzioni sociali, occupando spazi totalizzanti all'interno delle comunità, portando disperazione e conforto nei redenti, stilando mappe di identità religiose, etniche, politiche tra fedeli e infedeli, ortodossi e eretici e agendo in conseguenza. In effetti la memoria del passato -tranne quello ripetitivo e encomiastico dei profeti e dei santi- è sempre stata condannata da tutte le chiese. La memoria del mondo apparteneva esclusivamente al patrimonio liturgico delle religioni come "verità rivelata", essenza della "tradizione", "mito".
L'arte e la scienza hanno strappato ora segretamente ora con violenza i sigilli del mistero che racchiude questa memoria del mondo, avviandoci a comprendere la figura dell'uomo come una presenza di individui che il caso e la necessità hanno condotto allo sviluppo fisico e mentale nell'ordine di una società in cui si rendevano autonomi ed indipendenti dalle leggi di natura.
La memoria del mondo -una volta secolarizzata, sottratta alle pratiche liturgiche di amministrazione dei misteri e delle verità assolute- si è fatta più duttile, più accessibile che nel passato. Ma questa sua nuova legittimazione laica (conquistata nei secoli con asprezza e decisione) non le ha giovato molto. Ciò che il processo di secolarizzazione ha spazzato via come un inutile ingombro era non soltanto l'ignoranza e la superstizione, quale binomio negativo del quoziente religioso, ma anche il patto col regno dei morti che ogni religione è in grado di gestire in proprio. Questo patto copre e difende la paura ancestrale del confronto con l'altro da sé, la paura della morte. La soglia fra determinato e indeterminato, vissuto proprio e altrui, mondo dei vivi e mondo dei morti, spazio profano e sacro ci attira come l'abisso da cui siamo stati scaraventati, senza chiederlo, in questa banale realtà quotidiana. Il nulla è l'unica risposta che temiamo di sentire per le grandi domande dell'uomo: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo? La morte ci atterrisce ma ci affascina. A difesa di questo fascino c'è sempre pronta una religione.
Ma la memoria del mondo può anche eludere questo guardiano autorizzato a darci conforto. È allora che la voglia di sapere, di vedere, può spingerci oltre la soglia lasciandoci in balia del caos. Liberi nella nostra dissolutezza di affrontare e saccheggiare territori sconosciuti, ma anche facili prede del vizio di esistere in prima persona e del piacere di giocare con la morte.
Nessuno può negare che il desiderio imperioso di eternità è uno stimolo costante in ciascuno di noi a sperare nel futuro, a sognare di esser vivi nella memoria degli altri; anche quando gli altri non ci conoscono, non sanno chi siamo noi facciamo dei segni, scriviamo i nostri nomi sui muri delle case, sulle colonne di antichi templi, sulle porte dei cessi nei vagoni ferroviari. Questi nomi e segni che lasciamo a nostro ricordo sono gli appunti dei diari, delle agende personali. Scrivere, fissare la memoria del tempo può essere un modo di non sentirci soli, è certamente una difesa contro paure ancestrali e magari un tentativo di tradurre quella paura in simulacri di conoscenza diretta, partecipata, dell'avventura quotidiana.
Ma i territori sconosciuti della memoria del mondo sono attraversati dalla morte. Solo i poeti riescono a tornare indenni da quei territori. Il bottino da conquistare è grande, ma la posta è sempre troppo alta. Ecco perché è pericoloso sfogliare una vecchia agenda.
 


 
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Zelinda Carloni
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DISMEMORANDO DIO
(appunti sulla liceità speculativa del concetto di Dio)
 
II motivo primo che spinge l'uomo verso la divinità è la ricerca, meglio, la necessità di trovare, nell'essere del mondo e dell'universo, la ragione di esistere delle cose. Ciò implica che le varie risposte umane a questa esigenza, che si concretizzano nelle varie immagini del divino, contengono, o pretendono di contenere, la ragione prima e ultima delle cose.
In realtà, al contrario di quanto non appaia comunemente, è una esigenza razionale che spinge l'uomo ad affidarsi alla divinità, è l'esigenza di trovare un ordine logico alla apparente, o reale, illogicità e irrazionalità del mondo. Diviene insostenibile per l'uomo accettare ciò che gli appare come il casuale e insensato esistere del mondo e delle cose. L'uomo religioso tende incessantemente a giustificare con motivi di causa ed effetto ciò che gli apparrebbe insopportabile accettare al di là della sua comprensione logica. Dio è, in realtà, una garanzia razionale, le religioni sono forme di ordinamento logico di tutto ciò che nel mondo apparirebbe altrimenti insensato e alogico.
Il primo attributo che, in forme o criteri diversi, viene assegnato a Dio, o alla divinità in genere, è il suo essere creatore del mondo e delle cose, l'artefice primo, la mente generatrice del tutto; all'interno della creazione l'uomo appare essere una creatura, una "delle" creature. Ed è incontestabile il fatto che l'uomo sia "parte" e non "tutto" all'interno dell'universo. Ma se ciò è vero, vale a dire che l'uomo dell'universo non è che una parte del tutto trascurabile, non si può che dedurne che, qualunque immagine egli si faccia di Dio, non può essere altro che la sua proiezione parziale e della parzialità della sua esperienza.
Se partiamo dal presupposto, incontrovertibile, che l'uomo è parte del tutto ed è armonico al tutto (o disarmonico, ma comunque, se così fosse, sarebbe armonicamente disarmonico col tutto), è ipotesi paradossale pensare che una parte possa spiegare le ragioni del tutto prescindendo da esso. E ancora, le parti del tutto di cui l'uomo ha cognizione sono infinitamente finite, nel senso che il tutto non è, non solo percepibile, ma nemmeno ipotizzabile dalla cognizione umana. Solo l'esplorazione speculativa gli è consentita, ma ciò non consente l'esplorazione diretta e quindi lascia la cognizione al grado possibile dell'umano e, quindi, fatalmente ad un grado relativo imperfetto e infimo. Ma sarebbe d'altra parte assurdo, accettando il presupposto da cui si è partiti, che pur avendo conoscenza anche diretta del tutto, l'uomo possa, a prescindere da esso, da solo spiegarne le ragioni. E anche supponendo, per paradosso, che fosse possibile consultare l'intero esistere dell'universo, la sintesi razionale di tutto ciò non potrebbe spettare singolarmente a nessuno dei suoi componenti: pensate se se ne arrogassero il diritto le formiche.
Tutte le forme di superstizione o di magia che sono contenute nelle religioni contribuiscono a creare un sistema di ragioni accessibili per ciò che sarebbe altrimenti irrimediabilmente "altro da sé". Ma se è possibile considerare la validità di questa operazione da un punto di vista psico-antropologico, è altrettanto importante stabilire la sua illegittimità da un punto di vista speculativo.
È evidente che se di Dio si deve parlare non è possibile esimersi dal considerarlo almeno in senso universale, non esaminando per esempio solo la concezione che ne hanno le grandi religioni monoteiste ma confrontandone l'immagine nelle diverse tradizioni. A questo proposito è impossibile non notare la circostanza che si assiste alla costante smentita reciproca della figurazione divina. Dio è stato, nella storia dell'uomo, di volta in volta una cosa e il suo opposto (per esempio, Dio vindice o misericordioso, uno solo o molteplice, conoscibile o inconoscibile, trascendente o immanente, in relazione con l'uomo o del tutto da lui separato). Il fatto che tutto questo non turbi nessuno e non procuri alcun dubbio nelle coscienze può far passare più di una notte insonne. E' evidente che, se non altro nella continuità antropologica della pratica religiosa, Dio non riesce a trovare una propria dimensione di certezza. Neanche nella laboriosa pratica filosofica di millenni si riesce ad assistere a tanta nebulosità nel ricercare delle costanti che determinino un concetto.
Diviene quindi necessaria l'osservazione di un dato: non solo l'uomo, parte infinitesimale dell'essere dell' universo, pretende di determinarne le ragioni, ma gli uomini non sono nemmeno concordi nello stabilire quali queste siano. Se io fossi dio ciò mi seccherebbe molto.
È palese che, da un punto di vista speculativo, poter usare un concetto, quindi un universale, è subordinato alla possibilità di trovare delle costanti definitorie del concetto stesso, per cui, non avendo la possibilità di trovarne per ciò che concerne Dio come concetto, si deve arrivare alla conclusione che non è possibile usare Dio come elemento speculativo (per esempio, per stabilire le cause prime o i fini dell'esistere dell'universo).
Le ragioni antropologiche o psicologiche che possono giustificare la pratica reigiosa dell'uomo nei tempi debbono quindi essere considerate come limitate ad un accidente particolare della costituzione stessa de!l'uomo, accidente che non può essere esteso a comprendere una valutazione che trascenda !'uomo stesso, o che comunque lo comprenda all'interno di un sistema fortemente disomogeneo.
Probabilmente l'unico ambito speculativo in cui è possibile attribuire legittimità all'idea di dio è quello interno all'uomo, perché qui sì il sistema appare omogeneo, determinato dalle caratteristiche stesse dell'umano e, malgrado il carattere di nebulosità della richiesta del (e delle risposte al) divino che già abbiamo evidenziato, possiamo considerare il dato teorico della persistenza dell'evento che, in qualche modo, rappresenta una costante.
 


 
rammemorare/dismemorare 
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Alfonso Cardamone
[ a.cardamone@email.it ]
 
POESIE
 
a battimuro
oggi che fingerti non so più tra angoli
marchiati di memoria e tracce
sprofondate di pensiero tornano
le ore mie ad affrancarmi
dall' ossessione sincrona del tempo
le ore mie giocate
a battimuro


rammemorare/dismemorare
pei dumeti e gl'intrichi di rovo le tracce
i vaghi sentieri le corse le lotte
i riti (scomparsi tracciati) arabeschi
(forse) sognati lo sguardo sottraggono
a pena alle ferite di sole le scaglie
lucenti a variare ignoto e indiviso il presente


rammemorare/dismemorare (2)
un filo sottile di dolore un fotogramma
sfrangiato un cirro che muore
e poi
il peso insopprimibile della memoria
l'odio
per questi versi miei che tornano
soltanto adesso


e già di te l'immagine smarrisco
e già di te l'immagine smarrisco
paterna che non è bocca
serrata straniera ormai a chi ti guarda e intorno
è affaccendato ma di te presenza aspra e come
sangue dimentico e centrale
caverna oscura e al proceder mio spalancata
(così scarsamente cauto e avventurato) e questa
mi dico è maschera di morte a chi rimane
 


 
rammemorare/dismemorare 
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Enzo DOnorio
[ enzo.donorio@libero.it ]
 
POESIE
del pozzo e del pendolo
 
PERDUTA DOLCEZZA (a Francesca)

Germoglio di platino nascosto alla mente in flagello
Il tormento a portare la gioia ove è perduta dolcezza
Scarnifica il vivere
E rantola rabbia a cercare giustezza


IL TEMPO DEL SOGNO

Poi viene il giorno che tutto trasmigra dal tempo del sogno
e mettere insieme i frammenti lontani del respiro del tempo
e mettere insieme memoria macerata
dai giorni
e mettere insieme.........
e mettere insieme..........
e mettere insieme..........
cosa rimettere ancora più insieme


E POI IL TEMPO E I RICORDI

Trasmigrazione
cerca ossessiva di schegge di tempo
osmosi mentale a transumare
frantumate stagioni
gioco di fessi e poeti


NEL PENSIERO E' ORA SENTIRE

Luce ocra consuma il tramonto
sgrana immote foglie
Nel pensiero è ora sentire il palpito antico del tempo
in lenta risacca i ricordi
Anomala calma Placide mani
a cavare in questa terra che scolora
il progetto di vivere
Sono ora di sguardi nel nulla
i giorni


PAESAGGIO

Diluisce in schegge di verde in divenire pastello
la terra
Non percepisce schizzi frizzanti di viole fra i sassi
abbrutita la pelle
Insegue un odore già traslucida
la mente
e cercare ricordi sguizzati nel tempo


MORGANE PALLIDE

Frange la mola del tempo
questa stagione che risucchia i miei sogni
in vortici viola
Poi morgane pallide alla mente
divengono vero
Tenui lampi a mordere quello scritto nei giorni
che il vivere ha inciso
Folletti danzanti a ingannare che forse ho vissuto


DANZA CALMI PASSI

Questo amore velato che scivola dolce
sui giorni del tempo maturo
danza calmi passi nel prato di ulivi
a ridare progetto alla vita
stringe foglie di campo con mani tremanti
a cercare umore di dolce che forse è nascosto


DIVIENE E GIRA IL VORTICE DEI GIORNI

Diviene e gira il vortice dei giorni sui giorni
E adesso
La mente adesso in aura traslucida
Offesa dal tempo
Si placa
In te ho cercato l'appiglio sicuro alla vita
Il modello
Ho trovato l'uomo
Umano nel gesto


IL VOSTRO CUORE (ai miei figli)

Speculari mie anime
Ora posso cercare ragione alle vostre incertezze
Canuto distinguo
Le vostre paure sono le mie paure
La vostra ragione è la mia ragione
Il vostro cuore è il mio cuore
Appena questo ho creato
Vi chiedo perdono


 


 
rammemorare/dismemorare 
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Stefania Del Bene
[ valchiria.db@tiscalinet.it ]
 
PROFILO DI HENRY DAVID THOREAU
Thoreau: il filosofo della natura selvaggia
 
Thoreau rimarrà indelebile nella nostra memoria, non solo per averci regalato opere quali "Walden, vita nei bosch" e "La disobbedienza civile", ma anche e soprattutto poiché più volte letto e citato dai protagonisti del film diretto da Peter Weir nel 1989 "L'attimo fuggente" (Dead Poets Society). Quest'ultimo, ambientato nell'austera accademia di Welton, Vermont, nell'autunno 1959, fotografa il momento in cui arriva un nuovo giovane insegnante di lettere moderne, John Keating. La sua concezione rivoluzionaria della poesia è un tutt'uno con il suo modo di intendere la vita: percepire il lieve bisbiglio dell'arte, crescere nello spirito tra le pagine di Thoreau, Whitman, Tennyson, Orazio, cogliere l'attimo per un'esistenza da esseri umani capaci d'emozioni e di scelte. Parole che infiammano gli studenti di Welton e che, ancora oggi, non solo vibrano nel nostro intimo come l'eco di una voce atavica, ma sono capaci di restituirci nel loro incanto, all'autentica naturalità nascosta in noi stessi.
"Mi recai nei boschi perché desideravo vivere come volevo io, affrontare solo i fatti essenziali della vita, e veder se potevo imparare ciò che aveva da insegnarmi, e non, giunto alla morte, scoprire di non aver vissuto. Non volevo vivere ciò che non era vita, la vita è cosi cara; né volevo praticare la rassegnazione se non fosse stato assolutamente necessario. Volevo vivere profondamente e succhiare tutto il midollo della vita, robustamente come gli spartani e sgominare tutto ciò che non era vita, falciare un'ampia zona e raderla a zero, mettere la vita in un angolo e ridurla ai minimi termini, e, se si fosse dimostrata meschina, afferrarne l'intera e genuina meschinità e proclamarla al mondo; o, se fosse stata sublime, sperimentarlo direttamente ed esser capace di darne un vero resoconto nella mia prossima escursione."
"La sopravvivenza del mondo sta nella natura selvaggia". (Vernon Louis Parrington, Storia della cultura americana. II La rivoluzione romantica. 1800-1860, p.513, Torino 1969). Queste due citazioni riassumono la filosofia di vita di Henry David Thoreau considerato il teorico della wilderness. Nato a Concord nel Massachusetts nel 1817 morì di tisi a soli 44 anni d'età. Figlio di un industriale produttore di matite, Thoreau ottenne la laurea a Harvard, coltivando gli studi letterari, dai classici latini e greci a quelli inglesi e alla cultura tedesca coeva. Maestro di scuola, prima di diventare naturalista, collaborò alla rivista The Dial. Ebbe posizioni anticipatrici rispetto alla lotta allo stress, alla competizione ed ai ritmi della civiltà…Seguì gli insegnamenti di Ralph Waldo Emerson, poeta e filosofo. Dal 1841 al 1843 visse nella casa dell'amico, dove venne a contatto con vari esponenti del movimento trascendentalista, al quale egli aderì con entusiasmo. Nel 1845 si ritirò in un modestissimo cottage sulle rive del lago Walden, a pochi chilometri da Concord. Fu uomo di sorprendenti anticipazioni negli Stati Uniti di metà del XIX secolo, ma non estraniato dalla società, di cui peraltro prevedeva gli aspetti disumani e i fallimenti etici. Coerentemente con la sua opposizione alla schiavitù in diverse occasioni ospitò uomini e donne neri in fuga verso il Canada. Oggi la ricostruzione della sua capanna è visitata annualmente da un milione d'estimatori della sua opera. Rientrato nella civiltà Thoreau pubblica due libri. Il primo, "Una settimana sui fiumi Concord e Merrimack" (1849) fu un insuccesso clamoroso.Il secondo, "Walden o vita nei boschi" (1854), racconto delle sue esperienze di vita sul lago omonimo, venne invece molto apprezzato ed è ancora oggi un classico della letteratura ambientalista.
Teorico e praticante della vita tranquilla, solitaria, alla ricerca d'autenticità, Thoreau, dedicò gli ultimi anni della sua breve vita a percorrere l'America a piedi. Nel 1850 raggiunse il Quebec, nel 1857 compì un lungo viaggio naturalistico nel Maine. Nel 1858 visitò il New Hampshire salendo sulla vetta del Mount Washington, rendendo celebre il sentiero percorso con i suoi scritti. Più volte si recò a Cape Cod, estremo promontorio occidentale vicino a Boston, qui, diceva, "un uomo può mettersi tutta l'America alle spalle".
Thoreau morì nel 1862 mentre imperversava la guerra civile. Fu la sorella Sofia a curare la pubblicazione dei suoi venti libri, prevalentemente (quindici) Journal, diari di viaggi e vita.Tra i suoi scritti non tradotti in Italia, "Cape Cod", "I boschi del Maine", "Storia naturale del Massachussetts". Ma Thoreau è ricordato anche, per certi versi soprattutto, per la sua lezione democratica. Sono, infatti, più noti i suoi scritti civili come la "Disobbedienza Civile" (1849) e "Lo schiavismo nel Massachussetts" (1854).Il motto che amava ripetere sovente diceva: "Piuttosto dell'amore, del denaro, della fama, datemi la verità".
In conclusione, è rilevante citare il ritratto che, della figura di Thoreau, ci offre il Parrington: "Egli sfugge a tutte le definizioni che dovrebbero imprigionarlo. "Un paggio della natura", lo chiamò Emerson con il suo dono per le frasi sibilline; "naturalista-poeta", preferì chiamarlo Ellery Channing che lo conosceva intimamente. "Io sono un poeta, un mistico e un trascendentalista", diceva Thoreau di se stesso, trascurando i propri scritti sulla natura. Eppure nessuna di queste espressioni, pur essendo tutte vere, lo definisce adeguatamente. Col rischio di commettere una nuova sciocchezza potremmo forse suggerire che egli fu un greco divenuto economista trascendentalista. La sua vita sembra essere stata un continuo esperimento nei valori. Un filosofo dell'aria aperta cui il contatto quotidiano col vento e con l'atmosfera apriva la mente e corroborava i nervi, un mistico che esplorava curiosamente il significato della natura e conosceva bene i sistemi filosofici ellenici e orientali; uno yankee, abile in varie attività manuali, ma interessato più che altro a dimostrare a se stesso quali cose fossero eccellenti, poiché non accettava nulla per sentito dire - sembra che la principale preoccupazione di Thoreau riguardasse la vita stessa e come Henry Thoreau potesse vivere nel migliore dei modi; come un essere razionale, in breve, potesse godere le facoltà dategli da Dio, economizzando quelle più alte, e non rendendosi schiavo di quelle più basse, sì da poter dire onestamente, in punto di morte: io ho vissuto" (Vernon Louis Parrington, "Storia della cultura americana. II La rivoluzione romantica. 1800-1860, Torino 1969).

appendice
Versione originale tratta da "Thoreau's poems is Carl Bode's Collected Poems of Henry Thoreau", Enlarged edition, Baltimore: Johns Hopkins Press, 1965:
Smoke
Light-winged Smoke, Icarian bird, Melting thy pinions in thy upward flight, Lark without song, and messenger of dawn, Circling above the hamlets as thy nest; Or else, departing dream, and shadowy form Of midnight vision, gathering up thy skirts; By night star-veiling, and by day Darkening the light and blotting out the sun; Go thou my incense upward from this hearth, And ask the gods to pardon this clear flame.

traduzione della stessa tratta da "Walden o vita nei boschi":
Fumo
"Fumo, ali leggere, icario uccello
Che sciogli le tue piume nel tuo volo al cielo
Allodola senza canto, messaggero dell'alba
Che giri in tondo, sopra i villaggi come sopra il tuo nido,
Tu, sogno fuggente, forma carica d'ombra
Di visione notturna, che le vesti ti raccogli
Di notte tu vedi le stelle, di giorno
Oscuri la luce e via cancelli il sole;
Va', tu, mio incenso, su dal mio focolare,
E chiedi perdono agli dei per questaviva fiamma".

sempre tratta da "Walden o vita nei boschi", di cui non ho trovato la versione originale:
Poesia
"Non è un mio sogno
Per far più bello un verso;
Più non posso appressarmi al Cielo o a Dio
Che vivendo qui, presso le terse acque di Walden.
Io sono la sua riva sassosa
E la brezza che su esso trascorre;
Nel cavo della mia mano
Stanno le sue acque e la sua sabbia,
E il suo più fondo riposo
Giace alto nei miei Pensieri."
-----------------------------------------------------------
Milano, gennaio 2001

profilo nato dalla lettura del libro "Walden o vita nei boschi"di H.D.Thoreau
ARTICOLI E SPUNTI,VERSIONI E TRADUZIONI CONSULTATI SU INTERNET:
"I padri della wilderness: H. D. Thoreau" di Daniele e Renato Valterza; citazioni trat
 


 
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Francesco Di Lorenzo
[ francescodil@libero.it ]
 
GIACCA BIANCA
 
1.
La politica non dà felicità, oggi. E, più semplicemente, non dà felicità perché non dà piacere.
Una sera, ma una sola, ho provato piacere sopra la sezione di un partito.
Era una sera d'inverno e quindi faceva freddo, era tardi. Avevo io le chiavi della sezione perché quella settimana ero di turno a pulire per terra e a tenere aperta la baracca.
Democraticamente, come tutti gli altri, scopavo per terra e facevo i turni.
Ora potrei dire che una sera sulla sezione invece di scopare per terra, scopai e basta . Ma non lo dico perché è troppo volgare e poi effettivamente non andò proprio così. Quindi, fate conto che non abbia detto niente.

In quel periodo le serate erano sempre uguali, anche se non è il caso di lamentarsi perché lo furono anche in periodi diversi. Successe però che finalmente riuscii a rompere quella monotonia.
A mezzanotte in punto scendevo dalla casa di Maria, la mia fidanzata. Il paese, le strade strette, la luce dei lampioni, con le mani nelle tasche del cappotto e il bavero alzato fumavo senza prendere la sigaretta dall'angolo della bocca. Era una Camel.
Mio suocero, se ricordo bene, me ne aveva regalato un pacchetto; invece ricordo ancora il sapore acre di quelle sigarette che peraltro si possono trovare benissimo in tutte le tabaccherie ancora oggi.
Eravamo nel settantasei, un paio di secoli fa.

"Quanto può durare questa storia?", fu la domanda che mi feci mentre con l'aria circospetta bussai al campanello di Giovanna e, senza far rumore per le scale, mi infilai nel suo appartamento.
Due ore dopo (al massimo potevano essere le due e un quarto) rifeci la strada in senso inverso. La domanda che mi ero fatto all'entrata non me la ricordavo neanche più. Ero solamente soddisfatto; fino a mezzanotte qualche bacio innocente dato a Maria appena sua madre ci voltava le spalle, poi, per due ore i seni grandi, i fianchi, le gambe infinite, le labbra di Giovanna.
A letto nella mia stanza accesi la terzultima Camel. Me la fumai nell'oscurità.

2.
Enrico diceva di amare il jazz, ma lo ascoltava poco. Escluso alcuni assoli che lo entusiasmavano, si annoiava tremendamente con quei passaggi sempre uguali, monotoni, ripetitivi. Fu proprio a causa del jazz che conobbe Giovanna, una bionda con i seni che sbraitavano sotto la maglietta attillata.
Stavo con Maria nell'unico negozio di musica del paese e avevo chiesto al commesso l'ultimo disco di Rino Gaetano, quando vidi entrare due coppe enormi e appuntite che mi entrarono direttamente nel cervello. Giovanna, la proprietaria dei seni, prese dal banco un vecchio LP di Dave Brubeck e lo guardava affascinata. Enrico si affrettò a dare, come se fosse stato lui il commesso, tutti i particolari del musicista, mentre Maria ascoltava compiaciuta la bravura del suo futuro marito.
(Le parlo di quel formidabile disco di Brubeck inciso insieme ai suoi quattro figli, tutti musicisti di alto valore [in verità i figli erano tre, ma chi se ne frega]. La vedo affascinata. Decido di continuare a dire fesserie anche perché Maria ha l'espressione felice, il suo futuro marito sa un sacco di cose, è così intelligente.)
In situazioni come questa si può dire di tutto. La proprietaria dei seni non deve essere molto preparata in materia. Comunque basta non scendere nei particolari e si imbroglia chiunque.
Tutto finì lì.
( Ora, se le date della formidabile incisione di Dave Brubeck insieme ai suoi tre o quattro figli non coincidono con il 1976, e non possono, questo non è un problema, almeno per me.)

Quella sera avevamo una riunione del direttivo in sezione e mentre salivo le scale insieme ad altri quattro amici, vidi la testa bionda e i seni della mattina che si infilavano nel portoncino a pochi metri da dove stavo io. Non feci che pensare a lei per tutta la durata della riunione.
Ad un certo punto Enrico chiese con tutta la serietà possibile al segretario che presiedeva l'assemblea:
" Scusa, tu che sai tutto, sai per caso chi abita nel portoncino appena prima della sezione?"
Il segretario fece una smorfia di dolore: " Ma che me ne frega di chi abita nel portoncino prima della sezione, sono io che ti ho fatto una domanda e tu non hai risposto", disse infuriato.
Era vero. Enrico non aveva sentito il segretario domandargli cosa ne pensava del fatto che i democristiani avessero chiesto un incontro. Così gli spiegarono gli altri.
Dissi la prima cosa che mi venne in mente: " I democristiani mi fanno schifo...e...e...avranno equivocato sul compromesso storico, pensano che siamo disposti ad entrare in giunta." Il segretario fece prima un'altra smorfia poi un sorriso.

3.
Nemmeno una settimana e la conobbi. Non ho mai frequentato la sezione con tanta assiduità come in quel periodo.
La salutai e le chiesi se aveva ascoltato l'ultimo disco di Dave Brubeck. Disse di no, come speravo. Mi offrii di farglielo sentire. "Magari te lo presto", dissi. "Va bene", rispose. Ci scambiammo i numeri di telefono.
Quella sera sulla sezione scherzai con tutti. Il segretario stava spiegando un concetto molto difficile, l'importanza del "progetto a medio termine". Era considerato molto bravo in economia, conosceva sei o sette termini e li usava sempre. Quando feci il mio intervento, come premessa dissi: " vorrei prima di tutto complimentarmi con il segretario che ci ha spiegato in modo impeccabile concetti così difficili", poi molto serio gli chiesi come faceva a conoscere l'economia (era laureato in lettere). Lui, altrettanto seriamente mi disse: "ho studiato".
Lo guardai, era soddisfatto.

4.
Forse non sai neanche in che guaio ti sei cacciato.
E come potevo prevedere che quella bionda di nome Giovanna, con quei seni che farebbero rivivere anche mio nonno, che parla di jazz, che mi chiama amore per telefono, che mi succhia talmente la lingua quando bacia che dopo mi fa male, fosse l'amante di giacca bianca?
"Stai attento, io non so quando ti convenga" disse ad Enrico il segretario della sezione. "E poi, lo sai che potrebbe nascere uno scandalo? Lo sai che i democristiani potrebbero strumentalizzare la cosa?". "Vuoi dire che se mi uccidono", disse Enrico, " diranno che i comunisti stanno con la camorra?". "No, no, dicevo solo che noi non siamo abituati a difenderci da queste contiguità". Ma che stronzo, al di là di tutto.
E poi, potrei anche farvi un favore, potreste sempre dire che stavo scoprendo dei legami nascosti, degli interessi che non dovevano venir fuori, e così anche noi avremo il nostro bel martire, anche voi cioè. Il segretario sorrise. Io invece tornai a casa e mi misi sul letto a pensare. Passarono due o tre minuti e cominciai a tremare e a sudare. Al posto di pensare mi venne una crisi di nervi. Quando finì avevo deciso. Avrei troncato la relazione con Giovanna, per il bene mio, della mia famiglia, del partito e di Maria. Cos'altro potevo volere di più.
Enrico prese il telefono e compose il numero. Dopo otto squilli a vuoto posò la cornetta, Giovanna in quel momento non era in casa.

5.
In pratica Enrico aveva conosciuto la donna di giacca bianca.
Anzi, ci andava a letto.
Questi intellettuali sempre così desiderosi di diventare camorristi, pardon, questi camorristi sempre così desiderosi di diventare intellettuali. La bionda Giovanna che andava all'Università fuori corso, aveva perforato con i suoi seni, probabilmente, anche il cervello di giacca bianca, che si era perdutamente innamorato di lei. Ma non è tutto. Per farsi accettare la riempiva di regali e di soldi e di lussi e di altro. E nemmeno questo è tutto. L'aveva voluta vicino a lui per controllarla perché come tutti i camorristi era geloso. Ma era anche sposato. Allora le aveva preso un appartamento e ci andava soprattutto di sera, senza farsi vedere. E quand'anche lo avessero visto, nessuno si sarebbe permesso di dirlo, quindi avrebbe potuto benissimo andarci anche di mattina. Però non ci andava perché era un camorrista fatto così.
Certo era che aveva voluto un'amante intelligente, studentessa, e che avesse pure qualche altra qualità di cui non staremo qui a descrivere i particolari.
Lui la chiamava una sola volta al giorno, di mattina, e le diceva se la sera si sarebbero visti o no. Aveva molti impegni, spesso stava molti giorni fuori insieme ai suoi galoppini per degli affari. Non la controllava più di tanto perché era inteso che lei lo amasse. E se anche non l'amasse era inteso comunque che lei non si sarebbe mai permessa di dirlo, né a lui, né ad altri.
Per i soldi non c'era nessun problema. Le aveva dato cinque libretti di assegni di cinque banche diverse, che lei utilizzava con la sua firma a suo piacimento.
Perché cinque libretti? E chi lo sa?
(Tutte queste cose me le ha dette Giovanna, qualcuna l'ho appurata io, indovinate quale.)

6.
Giovanna era così, più o meno. Tralasciando la sensazione che si provava davanti alla forma del suo didietro ( quella faccia non mi è nuova), se per caso le chiedevi a che ora potevi salire, ti poteva benissimo rispondere: adesso o mai più.
Io che avevo una fifa tremenda per la situazione in cui mi ero cacciato, ogni minuto e mezzo decidevo di dirle che era tutto finito. Ogni tanto glielo dicevo anche. Lei mi ascoltava con gli occhi pensierosi, pieni di lacrime, facendo capire che mi capiva e che la sua era una situazione sfortunata. Io per la commozione ero sempre sul punto di dirle che stavo scherzando, ma mi trattenevo, so anche essere duro per tre o quattro minuti. Così ci lasciavamo.
Arrivavo a casa triste e sconsolato, e dopo neanche cinque minuti (mi chiedo come faceva a cronometrare esattamente il tempo), lei mi chiamava al telefono e mi parlava di qualche sua scoperta, di una musica che aveva sentito, dicendo che poi ne avremmo parlato da vicino.
Non so, nell'arco di sei mesi, alla ventesima volta che iniziai il solito discorso, " sai non è possibile andare avanti, oltre alla mia paura c'è che non è giusto nei confronti di Maria...lei... sta già scegliendo le bomboniere per il matrimonio..." Giovanna a queste parole si alzò e andò in bagno, lasciandomi che ancora dovevo finire la frase. Tornò nuda dicendomi con tutta la serietà possibile: "voglio un figlio da te, per ricordo".
"Sei pazza", dissi io. Poi continuando a guardarle i seni, "ma anch'io sono pazzo", e facemmo l'amore per fare un figlio. Il figlio comunque non venne, meglio così.

7.
Enrico negli ultimi tempi sembrava più un automa che altro. Faceva tutto quello che gli altri gli dicevano, non discuteva di niente. Era strano vederlo sempre così accondiscendente con tutti. Il segretario della sezione disse che Enrico stava cambiando, lo vedeva maturato.
Pensavo, possibile che questi camorristi siano così stupidi da non accorgersi che io sto con Giovanna? Possibile che nessuno mi abbia mai visto entrare nel portoncino? (Pensavo anche a Maria. Che squallore se lo avesse saputo). La risposta me la diede Giovanna: "ti chiamo o quando lui se n'è appena andato oppure quando sta fuori". Veramente quest'assicurazione non mi calmò.

Attese disteso sul letto, fumando. Poi squillò il telefono.
" Puoi venire, se ne è andato", disse Giovanna.
Prese la giacca e uscì. Per strada guardò l'orologio, era l'una e quaranta. Gli venne in mente una battuta stupida, se la disse lo stesso, "in fondo non è tardi, a casa mia si mangia all'una e mezza", che non c’entrava proprio niente con il contesto.
Appena entrato nell'appartamento di Giovanna, la vide vestita come se stesse per uscire.
"Usciamo", disse lei.
"Sei ubriaca?", disse Enrico con una specie di smorfia.
"Non andiamo lontano, mi devi portare sulla sezione, voglio vederla".
"Ma è tardi...", cercò di dire Enrico.
Giovanna già aveva aperto la porta e cercava di soffocare la risata che le era venuta.
Cominciai a tremare. Questa è pazza, mi dicevo mentre scendevamo le scale senza far rumore e nell'oscurità.
"Sono solo dieci metri", disse Giovanna sottovoce, " non aver paura".
"E se ci vedono?" chiese Enrico, ma voleva dire "e se ci vedono proprio in questi dieci metri?".
"Allora caro" disse lei molto suadente e sottovoce, "ci uccideranno tutti e due".
Le mani mi tremavano nel mettere le chiavi nella toppa del portoncino che si aprì subito, e una volta dentro tirai un sospiro.
"Un sospiro senza ponte", disse Giovanna.
"Vaffan...", repressi a stento. Ma lei se ne fregò.

Guardò i manifesti e le immagini alle pareti, io sembravo il padrone di casa imbarazzato e desideroso di far bella figura.

Girò tutte e due le stanze, poi volle entrare nello sgabuzzino del ciclostile.
"E' il ciclostile", dissi io.
"Lo conosco", disse lei.
Mi sedetti sulla scrivania e per la prima volta quella sera incominciai a sorridere guardando come fissava le immagini alle pareti.
"Non dici niente?".
Lei si voltò ridendo e disse, "no".

Si tolse la giacca e cominciò a sbottonarsi la camicetta.
"Prendi quel manifesto e stendilo a terra",disse.
"Ma è Gramsci!" Dissi io.
"Sì, è bello grande", disse lei.

Enrico mentre toglieva le puntine dal muro pensò che in fondo quello era veramente il manifesto più grande e il pavimento era troppo sporco.
Si chiese anche se Gramsci avesse approvato. Concluse di sì.

Quando finirono di far l'amore sul ritratto di quell'uomo che tanto ammirava, Enrico aveva gli occhi lucidi. Da terra, con la faccia appoggiata sulla spalla di Giovanna, fissò lo sguardo di fronte a sé. Un poco sfuocata c'era l'immagine di Berlinguer, che allora era vivo.

 


 
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Alfonso Cardamone
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DE NAPOLI RENDE GIUSTIZIA A CESARE PAVESE
 
In un breve saggio dedicato, anni fa, alle notti invernali di Bruno Schulz, mi capitava di segnalare la corrispondenza che è possibile stabilire tra le fermentazioni, le germinazioni e le diramazioni, che nelle Botteghe Color Cannella continuamente diffondono al di là dei propri limiti la materia della realtà, ed i vortici, le schiume, gli affioramenti che nell'opera di Pavese esprimono "la gioiosa certezza di una più ricca realtà sotto la realtà oggettiva". La realtà dell'arte, sottolineavo allora, per quei tramiti in Pavese si incarna in simboli mitici, universali indeterminati, che tentano via via di tradurre in immagini poetiche la tensione creatrice orientata al recupero del tempo mitopoietico dell'infanzia.

Oggi, in un ben più disteso ed impegnativo saggio, dedicato al complesso dell'opera di Cesare Pavese ("DEL MITO, DEL SIMBOLO E D'ALTRO - CESARE PAVESE E IL SUO TEMPO", Cassino 2000), Francesco De Napoli torna con vigore di analisi sulla sostanza mitica e simbolica dell'arte di Pavese, per sottrarla alla sottovalutazione a cui vorrebbe condannarla una certa critica "ufficiale" e codina.
Ricorderemo, a tale proposito, come ancora di recente, Alfonso Berardinelli, pur parlando della scrittura del nostro Autore come di una "sorta di realismo mitico" che "si risolve soprattutto in una ricerca di stile", proprio quello stile finisse poi per condannare come votato al fallimento di "esiti artificiosi".
Viceversa, nella sua ricerca puntuale ed appassionata, De Napoli fa piazza pulita di tutti quei giudizi critici che vollero l'opera di Pavese limitata o nel recinto asfittico delle sopravvivenze di un decadentismo tardivo, o in quello periferico e marginale della scrittura regionalistica. Pavese, se mai -scrive De Napoli-, "rappresentò in Italia il filone più fertile e vitale dell'esistenzialismo di derivazione europea". Come già ebbe modo di osservare Cesare De Michelis, egli riscoprì "nel mito la possibilità di raggiungere l'assoluto e l'essenza che al nome è legata. La poetica del mito permette di superare la disintegrazione della verità nei molti nomi del particolare". Pavese, infatti, ricorda De Napoli, avrebbe tentato, al fondo della propria esperienza di scrittore, di raggiungere "razionalmente una sintesi realtà/mito", sorretto da una sua dolente ma ineluttabile fedeltà alla libertà ed all'autenticità del sentire: "libero è solamente chi s'inserisce nella realtà e la trasforma" (Pavese, 1947).
De Napoli sa cogliere nella visione del mondo coltivata da Pavese il segno forte dell'ineluttabilità del destino, e cita da un articolo su l'Unità del 1946 : "Nel nostro mestiere non si va verso qualcosa: si è qualcosa". Ineluttabilità che non dà solo ragione della felice anomalia dello Scrittore rispetto alla teoria ed alla prassi dell'intellettuale organico ("Noi non andremo verso il popolo. Perché siamo già popolo e tutto il resto è inesistente. Andremo se mai verso l'uomo", da un altro articolo su l'Unità, del 1945), quanto, soprattutto, della sua scelta operativa, per cui, rileva De Napoli, essenziale è fare, lasciarsi vivere, senza pensare troppo al... da farsi. Ed a questa filosofia sarebbe, dunque, da riallacciare direttamente anche l'ultima fase del pensiero di Pavese, quella fondata appunto sulla "scoperta dichiarata e sofferta del mito". Ultima, ma non senza storia nell'evoluzione del pensiero pavesiano: "L'agire mitico fu sempre presente in Pavese", anche se inizialmente "in maniera inconsapevole", dal momento che Pavese, che non era semplicemente un divulgatore di cultura, ma un ricercatore puro, cercò sempre di descrivere "una realtà non naturalistica, ma simbolica", fondata sull'inseguimento di un mito laico, un mito senza fede, "concepito come una rivelazione vitale prima che poetica" e risolto in un ritmo intellettuale capace di trasformarlo nell'evidenza artistica dei simboli.


maggio 2001
 


 
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Mario Amato
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AVRO' DEGLI ANGELI
 
elegia piccina

Avrò
Degli angeli nella tua memoria
La bellezza celeste

Sarò
Il profumo di un fiore non nato
Sulla tua veste

Sarò
Un alito di vento nell’orto

Il cader della sera morto



ti pensai

Ti pensai nel mio giorno
Solitario di festa
Nel viale nell’ora bruna
Del passeggio
Per altri vestita
Tra la folla smarrita
 


 
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Mario Amato
[ marius2550@yahoo.it ]
 
MEMORIA POPOLARE
 
Ricordi la baléra in periferia

Con la musica popolare

Della domenica?

Era il tempo forse della letizia

Senza memoria e senza speranze



Dimmi se il ricordo

Come soffio gelido

O arietta leggera

Ti ha assalito

In questo giorno di festa?



Ti guardavo senza coscienza

Danzare al ritmo delle canzonette

E la città non più mi pareva straniera.



Dimmi se in questo giorno di festa

Se in un angolo del tempo

Appeso alla parete della cucina

Conservi il mio nome

E gli sconfinati giuramenti

Che nella baléra in periferia

Barattammo.
 


 
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Roberto Miele
[ www.robertomiele.too.it ]
 
UN NARRAR-SI INDETERMINATO: LE PARENTESI APERTE DI ANTONIO PIZZUTO
 
Contrariamente alle previsioni di quanti, lettori e critici, hanno potuto conoscere e stimare Antonio Pizzuto, e contrariamente ai forbiti stilemi di un presumibile temuto contrappasso librario, la fama dell'anomalo e mai pacificato scrittore palermitano conserva ancora oggi un grumo di coerenza che, per quanto inaccettabile, ammonisce chiunque attenda, sulla soglia di un libro, di trovare (finalmente!) un po' di pace.
Che oggi si possa ammettere un cambiamento nell'aria, in virtù di un recupero critico, niente affatto marginale, di alcuni testi finora inediti, e constatare al tempo stesso una regolarità (affettiva, si intende) della sparuta pattuglia di lettori pizzutiani (1), per ragioni "che riguardano sia la natura indigesta del suo linguaggio e di talune sue forme del narrare, come pure per certe pervicaci "sviste" della critica letteraria italiana" (2), sembra, di un discorso che rivanga reticenti aporie, l'unica certezza.
Nato a Palermo nel maggio del 1893, e morto a Roma nel 1976, lasciando molte opere inedite e numerosi carteggi (tra i quali spiccano quello con Salvatore Spinelli e Lucio Piccolo), crebbe con l'amore per gli studi classici, per la filosofia e per la musica (la madre, poetessa, Maria Amico Pizzuto, era figlia dell'umanista e letterato Ugo Antonio Amico). Laureatosi all'Università di Palermo, prima in giurisprudenza, poi in filosofia -al seguito dei corsi di teoretica tenuti da Cosmo Guastella, relatore della tesi e maestro-, si dedicò, prima, all'insegnamento, frequentando la Biblioteca Filosofica di Palermo di Giuseppe Amato Pojero, poi, nel 1930, entrò in polizia, dove divenne questore nelle sedi di Trento, Bolzano e Arezzo: "Quindi, la mia vita è stata una vita da burocrate. Però una vita da burocrate fino a un certo punto, perché, siccome conosco qualche lingua, "toscaneggio" in qualche lingua, appunto per questo, quando c'era bisogno di mandare un funzionario all'estero, si mandava me. Così, mi sono girato il mondo, gratis" (3). All'età di 57 anni, lasciata la Pubblica Amministrazione, decise di dedicarsi completamente ai suoi interessi letterari. Lettore e traduttore di Platone, Cicerone, Proust e Joyce, pubblicò la prima opera di narrativa, Signorina Rosina, nel '56 (4).
Esaminando il fenomeno Pizzuto dal punto di vista delle dinamiche dell'interpretazione, ossia della cooperazione testuale, occorre anzi tutto precisare che una riduzione del discorso all'ambito dei processi pragmatici, per quanto complessi, e conseguente imputazione della scarsa notorietà dell'autore alle difficoltà oggettive delle sue opere, per filarne (e sfilarne e filarne…), come spesso accade, il mito della il-legibilità (5), è certamente impresa comoda e gradita, tanto più se legittimata da una estetica del gusto filo-barthiana, facile alle mode che, però, proprio per questa strada, farebbe il gioco di una certa astuzia intellettuale, finalizzata nella misura in cui dissimula un annoiato disinteresse.
Invece, meccanismo pigrissimo, il testo pizzutiano non solo ricerca qualcuno che lo aiuti a funzionare, ma, nell'insondabile discrasia del nesso, tutto infinitivo, raccontare-narrare (6), impone all'insufficienza dei dizionari una costante progressiva attualizzazione dei postulati stessi di significato. Al lettore non spettano i soli movimenti cooperativi di attualizzazione del non-detto, poiché gli stessi postulati di significato risultano insufficienti ad ogni sommaria esplicitazione, tale che l'iniziativa interpretativa non si riduce ad una "mera" introduzione della plusvalenza di senso, bensì ad una più generale attività semiotica.
Per analogia, il testo di Pizzuto è una partita a scacchi, solo apparentemente bergmaniana: qui il lettore non sfida la morte, e non è destinato, quindi, in partenza alla sconfitta, qui il lettore è destinato alla sconfitta, se mai, perché sfida l'Altro, la propria alterità, cosciente dei limiti ma non delle competenze mosse di una strategia pur sempre (im)prevedibile.
Se è vero, per un principio di testimonianza, che Pizzuto non si curava affatto del lettore, sì come a pagina 59 di Pizzuto parla di Pizzuto dice che "il problema della comprensibilità è questo: che il lettore deve educarsi a comprendere ciò che legge, non che lo scrittore deve sforzarsi di fargli capire, perché sennò diventa Fröbel, no? Io non credo che chi scrive debba avere questa preoccupazione. Il lettore non interessa, il lettore non deve interessare. Lo scrittore non deve preoccuparsi del lettore", è pur vero che il lettore di cui parla non è affatto da identificarsi con il così detto Lettore Modello, precostituita speranza referenziale, poiché, altrimenti, le funzioni del narrare non si differenzierebbero da quelle del raccontare (7), là dove, invece, proprio in questa, peraltro su citata, discrasia è da individuarsi l'atto costitutivo del lettore pizzutiano, che i movimenti dell'opera tentano pure di istituire, di costruire, di rendere, cioè, competente.
Dunque, in questo senso, risulterebbe fuorviante definire il corpus pizzutiano un insieme di testi chiusi, non solo perché non presuppongono un Lettore Modello, e non presupponendolo non ne deviano la cooperazione, ma anche perché le strategie testuali costituenti il Lettore Modello non sono date a priori, non sono pre-costituite, bensì risultano offerentesi, participio caro all'autore, in un continuo divenire del presente, quasi emblema di una adamitica indeterminazione nominale.
Siamo dunque al cospetto di un autore reale, empirico, in assenza di un Lettore Modello, non meno irreale di ogni ipotesi di Autore Modello, proprio perché i postulati dell'uno circa l'esistenza dell'altro non sono più verificabili dei postulati dell'altro circa l'esistenza dell'uno (8). Pur tuttavia, questa condizione non esonera il lettore empirico dai quei doveri filologici che lo realizzano, o potrebbero realizzarlo, come Lettore Modello, anzi, al "dovere di recuperare con la massima approssimazione possibile i codici dell'emittente", secondo tutta l'etica del Lector in fabula, deve "aggiungere" il dovere di re-inventare, con la massima ri-scrittura possibile, i codici dell'autore, ri-elaborando proprio quelle strutture semantiche profonde, attanziali e ideologiche, "che il testo non esibisce in superficie", rivangando il non-detto, abducendone, sulla scia di Peirce, come unica ipotesi di regolarità del comportamento testuale, la dinamica ir-reperibilità dei topic, ossia una "disposizione" isotopica a oltranza e il correlativo sistematico (senso di) disorientamento.
Occorrerebbe, dunque, prendere in esame anche i processi generativi presidenti le dinamiche della produzione pizzutiana, ossia quel far-si della narrazione, quel narrare "bizantino" caro al Contini.
Per queste vie conviene ricordare l'importanza letteraria attribuita da Pizzuto al rapporto con i problemi della realtà; è l'autore stesso a chiarire la sua posizione: "Per quel che riguarda la forma, essa è stato oggetto scrupolosissimo, per me, del mio esame, perché io ho potuto far coincidere, identificare, la forma con il problema fondamentale nostro, che è quello, appunto, della realtà. Questo problema (al quale chi si è avvicinato di più nei tempi moderni è stato Kierkegaard con l'esistenzialismo) per noi diventa il problema di stabilire che cosa c'è di vero e cosa c'è di falso. Ma non ci interessa sapere la verità o la falsità di questi pensieri, quello che interessa è che una risposta a questo problema ci permetterebbe di sapere se possiamo ancorarci a qualche cosa quando non saremo più quaggiù. Donde l'importanza enorme che ha assunto per me la forma. La forma da questo punto di vista, non la forma dal punto di vista del neorealismo o di questi altri fenomeni deteriori che non valgono proprio niente, ma dal punto di vista dei riferimenti che ci permettessero di agganciarci a quello che Jaspers ha chiamato "Das Umgreifende", ciò che abbraccia" (9).
A questa prima puntualizzazione, segue, necessariamente, una coerenza logica che, prediligendo il processo di induzione, dell'assimilazione dell'ignoto al noto, rifiuta la circolarità del sillogismo a favore dell'indeterminismo. Indeterminismo estetico, indeterminismo come "forza traente della narrativa", indeterminismo narrativo, che implica "non più una semplice registrazione, ma una rappresentazione delle cose" (10). Rappresentazione che "significa lo sforzo che faccio per esprimermi: non come fine, con una finalità determinata, più o meno territoriale, topologica, ma nel senso di quel famoso agganciamento all'Essere" (11).
Rappresentazione, come ha ben sottolineato il Gramigna, che non equivale a tras-figurazione, proprio perché le "composizioni di Pizzuto non trasfigurano il mondo, è il mondo che non può che essere questa forma verbale", e "riconoscere l'irrappresentabilità evidente del raccontare adduce alla narrativa, fatti tra parentesi, o offerti da predicati conglobanti il particolare in contrizioni coscienti. Donde l'indeterminismo, sostanza pura del narrare" (12). Jacobbi scrive che "vien dunque da pensare che la sostanza dell'opera di Pizzuto sia soprattutto lo sforzo morale di portare una materia storica (e, naturalmente, autobiografica) al suo massimo di acutezza critica er via di semplice designazione, per accumulo di fatti, per fulminee scelte di oggetti assunti a valore di emblema. Questo sforzo morale coincide totalmente per lo scrittore con il gesto estetico, cioè ogni cosa nominata rimanda, per il suo stesso esser nominata in quel modo flagrante ed iperteso, ad un giudizio assente. Che questa operazione sia di natura antistoricistica lo si è ripetuto a sazietà; ma che poi il concreto fatto linguistico, con quell'impasto perpetuo di cultura, con quell'agglutinamento di tecniche, non sia altro che la continua riprova del suo essere storico, cioè la violenza per cui ogni atto e nome del passato si fa presente e già si muove ad altro, non pare negabile. E' sul segno del "valore" che batte un no, la negazione di Pizzuto; ma al punto in cui tutti quei nomi e fatti hanno un senso per la nostra memoria, essi vengono a prendere un involontario valore, il valore appunto storico (13).
Appurata, quindi, la supremazia della narrazione sul racconto, in virtù dell'indeterminismo, e chiarito il problema della storia, occorre accennare, infine, ai concetti di tempo e di spazio, intesi non come oggetti ma come possibilità implicanti un soggetto percepiente, poiché "se non c'è un soggetto, che come epentesi penetra immediatamente, non riusciamo a misurare il tempo" (14), donde la frattura del nesso causa-effetto. E il tempo pizzutiano è, a sua volta, anche "dato", quindi "successione di punti di arrivo", sempiterno procedere che, grammaticalmente, si traduce in una disarticolazione dei meccanicismi sintattici, in "rappresentazione secondo contiguità, anziché secondo causalità; l'Io non interviene con suoi apriorismi, non conferisce una fittizia corposità e, per così dire, tridimensionalità a un mondo sanamente e probabilmente appiattito" (15).
Rimandando a Gianfranco Contini e ad Antonio Pane per le precise analisi filologiche della grammatica pizzutiana, rimane, quale migliore augurio di una ripresa della sua opera, una meditazione ultima dell'autore, a mo' di personale temporaneo congedo:

Così estesi e spaziosi viali, da sembrarvi quasi insussistente il moto, come viaggiando aria o, vista alpestre, umile veleggio, randa con flocco nel profilo incrociatisi, qual medio sull'indice i glaucopidi a buon augurio. Un pergere infinitesimale tra grandi alberi, foglie scosse frusciandovi presta donnola, ond'erte gambe acuti ragazza su panchina clorosa incinta. Galoppi in trotterelli di là dal filare, e quercia folgoreggiata sicura; non altro che ininterrotta planizie dattorno per desiderare ancorché piccola un'erta, qualche breve balza a portata. Ancora, seduti, lo stormire, e ronzii, alucce in trasvolo d'una a altra quinta, le sedule tribù. Dopo sosta nuovo cammino, tal meta qual sciarada, procedere mai non preceduti, siccome stampo la via stessa e ricalco. Che strutti pingui favi mellificati, predace orso aggirarsi ognora questuoso, impaurirla, serrargli il braccio, ambidue allucinandone, pari nel timore quanta la bramosia dei flutti rubificanti: calato mostruosi unghioni da impensabili forre. A incontri fortuiti tratte insieme insieme, per indi ritrovarsi più soli bisognosi miserrimi, verso l'istante ove ognuno attore stupendo (16).

febbraio 2002

NOTE
1) "Quel che però sembra sicuro è che in Sicilia si contano sulle dita di una mano gli studiosi dell'opera di Pizzuto, e in Italia ancora meno", cfr. Salvatore Di Marco, L'enigmatica lezione di Antonio Pizzuto, in Kaléghé -tracciati culturali, Anno VIII - numero 3/4 - maggio/agosto 2000, consultabile al sito http://www.kaleghe.com/tracciati%20culturali/pagina04.htm
2) Ivi
3) Antonio Pizzuto, Pizzuto parla di Pizzuto, p. 3.
4) Seguirono Si riparano bambole, 1960, Paginette, 1964, Sinfonia, 1966, Nuove Paginette, 1967, Testamento, 1969, Pagelle I, 1963, Giunte e Virgole, 1975, Pagelle II, 1978, Ultime e Penultime, 1978. Oggi si deve a studiosi del calibro di Antonio Pane, Gualberto Alvino e Gabriele Frasca il recupero di molti testi inediti.
5) "(…) la leggibilità (in senso rigorosamente barthiano), che non è un fenomeno connesso al dominio esigente dei codici, degli stili, dei modelli; non è neppure rimesso ai procedimenti dell'ermeneutica letteraria tradizionale. Il vero è che la lettura è comunque un evento indicibile, e i suoi confini con la illegibilità del testo sono sempre estremamente attigui e confondibili. Se nell'approccio al testo il primo tratto del percorso riguarda il transito dalla illeggibilità alla leggibilità (è tale lo scopo della lettura), soltanto a quel punto si apre il secondo tratto, quello per cui si intuisce quanto illegibile sia ciò che leggibile era parso", cfr. Antonio Pane, Il leggibile Pizzuto, Polistampa, Firenze 1999.
6) "Pizzuto rimette in discussione certezze, parte da lontane e impervie filosofie. Egli osserva che A è uguale ad A soltanto se A è A (altro che certezza del reale) e fino a quando quella identità sia mantenuta. Il racconto non tiene conto di quelle avvertenze, in esso il rispecchiamento dell'evento oggettivo è dato nel modo più determinato. Tuttavia l'evento è tale se è un evento, e fino a quando sia tale. Soltanto la narrazione, in quanto si riferisca al dire di ciò che non si sa, emancipa l'evento dalla propria oggettività, lo emancipa verso la fictio, o ancora verso la virtualità come diremmo oggi. Essa perciò ubbidisce al principio della indeterminatezza, e quindi della creatività permanente. Il che vale a dire - in altri termini - che è la soggettività del narrante che si costituisce come evento primigenio della narrazione. Quest'ultima allora non è più il mero resoconto di un fatto, ma si dà come evento essa stessa, cioè morfologia, linguaggio, tòpos, dell'invenzione. Solo così l'arte (ars narrandi) è sintesi di sostanza e forma agita dal soggetto. La "sostanza" non è il contenuto crocianamente inteso, non è il factum nella sua empiria, non è neppure historia rerum, ma ciò che li trascende, la sua "astrazione", la sua fantasiosa eventualità. La forma inoltre (e le più mature pagine pizzutiane ne sono un segno) è ritmo, lessico, sintassi, paratassi.", cfr. Salvatore Di Marco, op. cit.
7) Proprio Pizzuto scrive, a scanso di equivoci, che "Raccontare è proporsi di rappresentare un'azione, cioè uno svolgimento dei fatti, ma, anziché rappresentarli, il racconto in ultima analisi li documenta. Personaggi, eventi, dati psicologici, tutto si va pietrificando via via che lo si racconta. La narrazione vince l'assurdo di tradurre l'azione in rappresentazioni poiché riconosce che il fatto è un'astrazione. Se i personaggi narrati sono dei testimoni, la rappresentazione non è più offerta ab extra, come una planimetria sottoposta al lettore, ma scaturisce intuitivamente da ciò che legge, con una compartecipazione attiva".
8) "(…) si ha Autore Modello come ipotesi interpretativa quando ci si configura il soggetto di una strategia testuale, quale appare dal testo in esame e non quando si ipotizza, dietro alla strategia testuale, un soggetto empirico che magari voleva o pensava o voleva pensare cose diverse da quello che il testo, commisurato ai codici cui si riferisce, dice al proprio Lettore Modello", cfr. U. Eco, Lector in fabula, Bompiani, Milano 1975, p. 64.
9) "Infatti Jaspers ha parlato (…) molto dei così detti "orizzonti conglobanti", perché man mano che io cerco di avvicinarmi a lei, lei si sposta, e io abbraccio sempre dantescamente un'ombra. Lei si sposta sempre e io rimango sempre di là, da qualunque parte io possa pervenire. Allora il primo punto mio è stato quello di attendere all'esame filosofico di ciò che è il fatto. Il fatto (non il fatterello, che è ciò che non interessa), ma il fatto dal punto di vista trascendentale, come garanzia di un futuro al quale noi semplicemente speriamo di arrivare, ma di non abbiamo alcuna sicurezza. Questa non è una novità mia, perché lo diceva già Vittorio Alfieri, ha finito poi per ripeterlo Montale, e tanti altri. Questo è il mio punto di partenza", cfr. Antonio Pizzuto, op. cit. , pp. 8-9.
10) Ivi, p.14
11) Ivi, p. 16.
12) Nei Paragrafi sul raccontare è Pizzuto stesso a soccorrerci: "Alla base dei miei modesti scritti credo si trovino alcuni semplici punti che, come tutti i principi, sotto l'aspetto di punti di partenza, risultano poi punti di arrivo: 1) Noi non possiamo conoscere che i nostri giudizi. 2) Noi non siamo però i nostri giudizi, siamo vita. 3) Intanto, questo pure è un giudizio: donde un dualismo insuperabile, essendo ben chiaro che giudizi e vita si presuppongono a vicenda e che ogni tentativo di risolvere tale dualismo, a prescindere dalla valutazione di questa pretesa, conduce ulteriormente e sempre ad analoghe affermazioni".
13) R. Jacobbi, Antonio Pizzuto, Ed. La nuova Italia, Firenze 1975.
14) Antonio Pizzuto, Pizzuto parla di Pizzuto, p. 30.
15) G. Contini, Nota per l'ultimo Pizzuto, in Ultimi esercizî ed elzeviri, Torino, Einaudi 1988, p. 164.
16) Antonio Pizzuto, Viandanti, in Ultime e Penultime, Cronopio, Napoli 2001.
 


 
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Massimo Silvestri
[ mose@email.it ]
 
LA FONTANA NEL CHIOSTRO
 
cantavano i vespri
tornando dai campi
e il miserere
dal chiostro alla chiesa.
quanto tempo era passato!
un pettirosso bagnava le ali
nella fontana del chiostro
dopo l'ultimo canto
delle piogge d'autunno.
un pettirosso
nella fontana del chiostro
e quella sera
non sarebbe stata compiéta.
quanto tempo era passato!
e sentiva l'eco dei rumori dei campi
e l'eco dei canti
e l'eco della vecchia campana
che annunciava le ore del giorno.
quanto tempo era passato!
e più distante era la chiesa dal chiostro
e ormai stanchi
i piedi del monaco bianco.
Dio si sa lavora in silenzio.
dalla panca tentò gli ultimi passi.
tacque la ghiaia
bagnata dalle piogge d'autunno
cadde una foglia
nella fontana del chiostro.
noi siamo ciò che amiamo.
due pettirossi
bagnavano le ali
nella fontana del chiostro.

 


 
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Silvana Poccioni
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AUTOINGANNO
 
Credi se puoi
(l'illusione consola)
che fu la stessa un tempo
la donna che si riveste oggi
di questo corpo
che pure le appartiene
e null'altro rivela
che un'immagine riflessa
da un distorto specchio.

Il presente
ogni presente è irrilevante
e vuoto
e tale fu il passato
quando era presente.

L'edera della memoria ignora i sillogismi.
Si aggroviglia tenace
intorno ai tronchi vecchi
e trae da secche scorze
la sua linfa vitale
vestendole di verde.




 


 
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Silvana Poccioni
[ g.bucci@tin.it ]
 
VECCHIA CASA
 
Non saranno i rovi
né l’edera che s’insinua negli infissi
sconnessi
ad impedirmi di vederla
com’era e resta
nei miei ricordi.
Le rovine del tempo
sono veli che rimuove
senza fatica
la memoria
e la mano della bambina
che dopo i giochi
a sera
si fermava ansiosa
sulla stretta rampa delle scale
per accertarsi che non ci fossero
sulla parete
le innocue falene
a spaventarla.
 


 
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Oreste Bonvicini
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POESIE RITROVATE. MARGHERITA GUIDACCI
 
Rileggevo alcune pagine a cui mi ero dedicato con accanimento. Volevo concludere una mia breve silloge per un motivo d'orgoglio più che per una necessità concreta. Avevo accuratamente voluto individuare l'essenza del non dire, del non fare, ma così intensamente da voler nel contempo dire e fare tutto ciò che la poesia può dire e fare. Si sa, gli eccessi di intenzione sono forieri di cattive riuscite, ma dentro di me vivevo un intenso momento di contrasto con la materialità quotidiana, ero rivolto verso quella pace che l'uomo invoca, il cammino di quell'interiorità che può sfociare nella fede o nell'interrogarsi sui motivi profondi delle vita e della morte, della vita oltre la vita. Una sorta di umanesimo dell'anima, come se il tempo non fosse corso lontano da quei secoli di rinascita lasciando che le abiezioni umane avessero il sopravvento ogniqualvolta il dualismo primario del bene e del male si indeboliva a favore di quest'ultimo, capace di mostrare il suo volto suadente e ingannatore agli occhi ingenui dei più. Mi fermai e tacendo le parole che scorrevano nella mia mente, mi meravigliai di ciò che sapevo e di quanto profonda fosse la mia ignoranza. Scoprivo come non sia verbo l'alito della voce, ma pensiero, materia che si compone e scompone eppure impalpabile. Osservai ciò che la natura aveva creato e perciò nutrito, cresciuto, reso inoppugnabile verità, parte di questa vita terrena. All'uomo il compito di godere ciò che la gran madre Terra offre a tutti gli esseri viventi, come per compiere un ciclo di cui ciascuno è piccola, infima parte, ma complemento necessario affinché il ciclo si evolva, continui. Eppure il depauperamento delle risorse, lo sfruttamento selvaggio della terra per fini esclusivamente lucrosi, oligarchici, da modo di evidenziare l'alterarsi di ombre e segni, che io interpretavo come la necessità di scegliere il silenzio. Che scendesse tra noi, il silenzio, forma essenziale dell'espressione, dell'attesa e della consapevolezza.

In silenzio

Scrivo parole ogni giorno.
Non so dove arriverò,
scrivendo.
So che potrei tacere.
Colui che sa, non parla.
Muto nel ventre del tempo
dove uomini gridano, anche.
Lo sguardo
basterà per comprendere e dire
quanto la voce non dice.
Sfioro ogni istante, ogni giorno
l'urlo e il tuono. Vivo intorno.
Potrei fermarmi e attendere.
In silenzio.


Nei giorni successivi, lasciando scorrere gli occhi su un vecchio volume di poesie casualmente recuperato in quei luminosi anfratti della memoria editoriale che suole denominarsi remainder, ecco alcune pagine subito apparse sublimi, come anticipatrici di un pensiero che si stava facendo debole, che nel mio umile lavoro di cucitura avevo legato, parola con parola, fino alla forma sopra espressa del silenzio. Mi apparvero così, La sabbia e l'angelo, sei brevi liriche di Margherita Guidacci, un volume edito da Rizzoli nel lontano 1965.

"Noi sapevamo di appartenere alla morte", ci segue, ci insegue anche nell'angolo buio della nostra stanza dove crediamo di essere irraggiungibili, dove crediamo che ogni realtà sia il riflesso della nostra effigie che l'ombra ci rimanda o lo specchio dove impresse le nostre impronte digitali abbiniamo il nostro profilo al tocco che unico sarà di questa vita, palpabile sensazione tattile, unica, irripetibile.

O nella tempesta, sul mare che ci accoglie e ingolla nei flutti, nel tuono del mare che scoppia nei flutti come rombo di un tempo che ruggisce per dimostrare la sua presenza. Anche nella tempesta la rotta designata non potrà essere corretta. La forza del pilota ci condurrà in porto, sia esso l'approdo ultimo o tappa di un cammino più ampio. O sul limitar del deserto, sulle rovine di un tempio, di una città tempio dove mani hanno eretto opere che rappresentassero agli occhi degli dei la forza degli uomini, ciò che non esiste o esiste solo per dare un senso a ciò che gli uomini fanno, con gran fatica, con affanno, costringendo altri uomini a questo fare per fare, per raggiungere una meta, grande, finale, ultima, che poi tutto ripiana ed eguaglia. Polvere, cenere, sabbia tra le dita. Quella sabbia che fu vita. Risuonavano passi e voci in quei templi dove oggi la sabbia è la prova del consunto scorrere del tempo, dove le attese non hanno più consistenza, consapevoli che tutto è trascorso, irrimediabilmente. Come nel nostro pensiero. Sapevamo già di appartenere alla Morte, quella morte che chiude la vita, consapevolmente, inevitabilmente. La morte è rinnovamento?
Così l'uomo incide la sabbia , la terra con i solchi della sua mano, specchia ogni opera nella sua forza e poi sarà cenere, polvere, sabbia di questa terra e tanto rimarrà, di questa vita: cenere.
E poi il cammino costellato di gesti ripetuti, invocati,e evocati e sacrificati, con parte del nostro tempo, nell'attesa di quell'eternità che dà senso al nostro faticar, ci consuma e ci avvicina, ci cammina fianco a fianco. E guardavamo l'autunno scorrere sulla collina,/stava l'angelo al nostro fianco e ci consumava. (III) Così quel silenzio in cui si scopre la chiusura della poesia V: E quando l'angelo ci chiese: Volete ancora ricordare?/ Noi stessi l'implorammo: Lascia che venga il silenzio!
Nessuna meraviglia, dinanzi alla morte, ma una scelta, obbligata dal tempo che tutto ha dato, che per ciascuno come un orologio vitale, chiude il proprio ciclo, spegne le luci terrene, i riflessi degli sguardi, e realizza la consapevolezza della fine, del nulla che inghiotte e cancella, ma con la consolazione che ben venga quel silenzio ristoratore.
Allora, la speranza, la pistis che ci ha spinto verso quel Dio che non è forma, non è carattere tangibile, ma essenza da afferrare e portare dentro, sentirlo dentro per ciò che verrà, dopo. Non il ramo spezzato, non l'erba scomposta lungo il sentiero/(...) Così noi sempre ti seguimmo, Dominatore ed Amato/(..) Perché da lungo tempo te solo conoscevamo, a te solo/obbedivamo, tua destinata preda, trascinando sulle vie della terra la tua celeste catena straniera.(VI)

Se c'è un luogo ove poter scegliere di morire, vorrei fosse l'aria libera tra i monti, durante un'estate quanto il sole tarda a tramontare, quando nella mia terra è già notte. Attenderei fino allo sgocciolare della luce, come acqua, liquido amniotico a cui poi, ritornare.
" ...Nella stanza dove noi non volevamo morire" (V) è il tumulto che in noi si agita. Solo l'Angelo raccogliendo la sabbia che il suolo incalpestato del suo passo lieve sfiora, ci mostrerà cosa e come si ridurranno i nostri pensieri e i ricordi. Perché dunque faticare? Perché portare il greve fardello del tempo vissuto, con tutti i suoi ricordi, i suoi giorni sempre uguali eppur diversi. Nel congedo del viaggiatore cerimonioso, Giorgio Caproni diceva: vi son grato, credetemi/ per l'ottima compagnia/(...) Dicevo era bello stare/insieme. Chiacchierare (...) congedo dalla sapienza/e congedo dall'amore. (...) io/sono giunto alla disperazione/calma, senza sgomento.
Lascia che venga il silenzio, ci raccomanda invece Margherita Giudacci. Così, rivolgendosi ancora all'angelo, nulla riconosce se non nel tocco di solitudine del suo passaggio e la luce bianca, ora svelata a noi accanto. Ogni volta che dicemmo addio...(III) Con noi il freddo chiarore dell'alba che divide gli amanti...(III)
Non così per Giorgio Caproni, che nel suo pensiero, "laggiù è così buio che non c'è oscurità" (La lanterna).
Opposta alla pistis della Guidacci, la gnosis di Caproni, del suo laico sentire, altrove regolato dalle dure prove della vita, del suo soffrire tutto terreno. Contrapposte le parti dove fede diventa inno religioso, dove non serve la rivelazione perché è già in noi, mentre nel poeta livornese il duro canto è sempre interrogativo.
E tornano nella breve Spoon River di Margherita Guidacci, Epitaffi, otto meditazioni incise sulla pietra bianca dilavata dalla pioggia, dal vento della collina di mastersiana memoria. È nell'epitaffio di J che scopriamo come le nozze terrene si destino improvvisamente, "ad un tratto nella luce", tutto straniero intorno, dove poco prima ogni cosa sembrava preparata per uno sponsale terreno di cui ora nessun rimpianto sale alle labbra per ciò che, lasciato, si è infranto per sempre. La luce intorno è il regno della felicità, della gioia eterna.

Un inno alla fede si contrappone alla agnostica verità di E. L. Masters, sulla collina di Spoon River, dove tutti sono uguali di fronte alla morte, dove tutti giacciono accanto, amici e nemici, frodati e frodatori, umili servi e ricchi signore, rei confessi e innocenti, uguali davanti alla grande livellatrice destinata a pareggiare torti subiti o provocati, ma dove la speranza per qualcosa di più grande non è così certa, palpabile come la fede che nutre l'anima. Nulla distingue sulla collina di Spoon River se non l'inciso che ricorda un nome e ciò che fu, in vita. Il passato è inciso nelle parole, nei gesti di chi, in vita, ha turbato la propria anima in una esistenza ora felice ora disgraziata, per trovare infine, sotto il cielo dell'Illinois, la pace, C'è violenza nelle pagine di Masters, prima che il ripianamento di ogni asperità terrena.
C'è la volontà di lasciare un segno, La sabbia e l'angelo di M. Guidacci e la consapevolezza nel contempo che nulla valicherà il tempo. Nulla si perdonerà alla presunzione. Scriviamo i nostri versi sulla sabbia, le parole, le umane pretese e se il vento o il mare presto dilaveranno la superficie che ha visto gemere sotto la nostre dita e incidere il segno da noi fortemente voluto, sperato duraturo, ricordiamoci che presto, molto presto, quello stesso vento, quello stesso mare, ripianeranno ciò che di noi rimane, sabbia.

Margherita Guidacci, Poesie, Rizzoli Editore, 1965
LA SABBIA E L'ANGELO

I
Non occorrevano i templi in rovina sul limitare di deserti,
Con le colonne mozze e le gradinate che in nessun luogo
conducono;
Né i relitti insabbiati, le ossa biancheggianti lungo il mare;
E nemmeno la violenza del fuoco contro i nostri campi e le case.
Bastava che l'ombra sorgesse all'angolo più quieto della stanza
O vegliasse dietro la nostra porta socchiusa-
La fine pioggia ai vetri, un pezzo di latta che gemesse nel vento:
Noi sapevamo già di appartenere alla morte.

II
Se vuoi lasciare la tua impronta, o uomo, scalfisci piuttosto la sabbia,
Perché la più alta torre diverrà sabbia alla fine.
Scrivi il tuo nome sul lido deserto, e prega il mare che presto
lo copra di lamento:
Perché tu stesso sei sabbia, sei la morte che dopo te rimane.

III
Ogni volta che dicemmo addio;
Ogni volta che verso la fanciullezza ci volgemmo, alle nostre
spalle caduta
(Tremando l'anima al suo lungo lamento);
Ogni volta che dall'amato ci staccammo nel freddo chiarore
dell'alba;
Ogni volta che vedemmo sui morti occhi l'enigma richiudersi;
O anche quando semplicemente ascoltavamo il vento nelle strade
deserte,
E guardavamo l'autunno trascorrere sulla collina,
Stava l'Angelo al nostro fianco e ci consumava.

IV
Ora il nostro amore si spanderà nella vigna e nel grano,
Il nostro veleno nei cactus e negli spini crudeli.
Si curveranno i vivi alle sorgenti, diranno:
"Chi spinse verso di noi l'acqua da occulte vene del mondo?"
E molto prima che il freddo li colga e la notte sul loro cuore s'adagi,
Anche in un meriggio d'api e di succhi ardenti,
Conosceranno l'angoscia, perché potenti noi siamo e vicini,
E non vi è fuga dal cerchio in cui già li stringiamo
Con ogni stelo da noi sorto e ogni frutto
Che colmo e grave alla nostra terra s'inchina.

V
Furono ultime a staccarsi le voci. Non le voci tremende
Della guerra e degli uragani,
E nemmeno voci umane ed amate,
Ma mormorii d'erbe e d'acque, risa di vento, frusciare
Di fronde tra cui scoiattoli invisibili giocavano,
Ronzio felice d'insetti attraverso molte estati
Fino a quell'insetto che più insistente ronzava
Nella stanza dove noi non volevamo morire.
E tutto si confuse in una nota, in un fermo
E sommesso tumulto, come quello del sangue
Quando era vivo il nostro sangue. Ma sapevamo ormai
Che a tutto ciò era impossibile rispondere.
E quando l'Angelo ci chiese. "Volete ancora ricordare?"
Noi stessi l 'implorammo: "Lascia che venga il silenzio!"

VI
Non il ramo spezzato, non l'erba scomposta lungo il sentiero
Ci dicevano il suo passaggio, m il tocco di solitudine
Che ogni cosa in sé custodiva ed a noi rendeva, liberando
Dopo il messaggio consueto l'altra, l'ignota parola.
Come trasalivamo ascoltandola, come s'orientava sicuro
Il nostro cuore sull'invisibile traccia!
Così noi sempre ti seguimmo, Dominatore ed Amato,
Né ci sorprende la bianca luce in cui svelato al nostro fianco cammini
(Ora che l'ombra carnale è tramontata sul meridiano della morte)
Perché da lungo tempo te solo conoscevamo, a te solo
Obbedivamo, tua destinata preda,
Trascinando sulle vie della terra la tua celeste catena straniera.

Bibliografia
Margherita Guidacci, Poesie, Rizzoli, 1965
 


 
rammemorare/dismemorare 
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Silvana Poccioni
[ g.bucci@tin.it ]
 
CAP. V
 
Era tornata in Centrale circa tre mesi prima. Se ne era parlato a lungo durante il pranzo, il giorno successivo alla telefonata di Alfonso, un amico d'infanzia, con cui aveva ricordato, come in una fiaba, la piccola contrada dell'Ente Autonomo Volturno, dove anche lui era nato, era vissuto da ragazzo. Si erano commossi al pensiero degli amici comuni, Pina, Franca e Adriana, Maria Rosaria, Enzo, Tottò e per alcuni minuti davvero avevano avuto la sensazione che tutto fosse recuperabile, al di là del cammino lungo e tortuoso compiuto dalle loro esistenze e da quelle di tutti gli altri.

Vedendola così emotivamente coinvolta, Riccardo le propose una gita per il primo maggio, il cui itinerario avrebbe incluso i luoghi della sua infanzia, una sorta di ritorno alle radici. Si sarebbe potuta iniziare quella recherche du temps perdu proprio dalla Centrale, per poi risalire alle sorgenti; avrebbero deciso tutto il resto via facendo. Luca, eccitato dall'idea di vedere finalmente il mitico luogo dove era nata la sua mamma, approvò subito la proposta , sostenendola calorosamente e progettando già l'ora della partenza e il pranzo al ristorante sul lago.

Silvia esitò a lungo prima di accettare. Non andava in Centrale da più di vent'anni, da quando vi aveva accompagnato Riccardo, perché potesse condividere con lei anche i ricordi legati a quel luogo tanto amato.
Allora vi risiedevano ancora alcune famiglie e, benché la sua casa fosse ormai disabitata da otto anni, non si notava un particolare degrado ambientale, fatta eccezione per le erbacce che avevano invaso parte dello spiazzo antistante la palazzina.

Adesso, però, aveva paura di ritornarvi. Temeva più di ogni altra cosa la disillusione. Nel ricordo quel luogo era rimasto intatto, come ai tempi in cui era stato teatro di importanti avvenimenti della sua vita e ora che la si chiamava a decidere circa quella gita, sentiva prepotente l'istinto di rinunciarvi. Sapeva bene che col tempo mutano il senso e il valore delle cose, che esse possono diventare per noi significative e importanti solo perché sono parte del nostro passato ed è proprio questa consapevolezza che spesso ci spinge a rifiutare il confronto con la realtà del presente. - È l'etica della rinunzia - pensò tra sé - che ci permette di conservare inalterati certi ricordi senza il rischio di infrangere il sogno, di svilire gli ideali in cui faticosamente abbiamo trasformato col trascorrere del tempo anche gli eventi più banali. -

Si vergognò della propria debolezza; ebbe la sensazione di trovarsi per la prima volta di fronte ad uno specchio, che le rimandava esatta l'immagine delle sue paure, tutte quelle che la tenevano attaccata come un'ostrica allo scoglio del passato e le impedivano di abbandonarsi alla corrente di un futuro molto più ampio di quel domani oltre il quale da tanto ormai evitava di inoltrarsi.

Accettò, dunque, di fare quel breve viaggio, pur percependo inconsciamente che sarebbe stato come aprire il vaso di Pandora del passato, col rischio di scoprirlo dolorosamente vuoto.

Partirono presto, la mattina successiva, lei, Riccardo e Luca. Daniele aveva già organizzato la sua giornata con gli amici e la ragazza; da parecchio tempo, ormai, non li seguiva più nei loro piccoli viaggi, soprattutto quando la partenza era prevista per le prime ore del mattino. Portò con sé anche la videocamera, nell'eventualità che ci fosse da riprendere qualcosa di interessante, disse. In realtà aveva intenzione di catturare immagini care e di tornare a guardarle ogni volta che ne avesse sentito il desiderio.

Quando, oltrepassato l'ultimo paese prima del lungo rettilineo di Carpenti, si immisero nella stradina che portava al primo salto, sentì che i battiti del cuore nel petto acceleravano e l'adrenalina le indebolì le gambe. Tra i pioppi e le acacie, curva dopo curva, si intravedevano le apparecchiature della sottostazione, gli alti tralicci e i trasformatori, finché, d'improvviso, si stagliò dinanzi ai loro occhi la grande facciata della Centrale base, con il bassorilievo del dio Volturno, rimasto indenne al bombardamento della seconda guerra mondiale, che aveva raso al suolo l'intero edificio.

Di fronte al cancello d'ingresso, ora chiuso ai non addetti, rimase a lungo come ipnotizzata. Sulla sinistra il bacino di raccolta delle acque provenienti dalle gigantesche tubazioni riportava alle sue orecchie il ben noto rumore. Mentre Luca e Riccardo guardavano meravigliati le grandi tubature, che si arrampicavano su, lungo il crinale della montagna, perdendosi alla vista, lei volse gli occhi a cercare, sulla destra, al di là dei fili più alti degli impianti, la rampa di piccole scale che un tempo conducevano al villaggio. Solo erbacce, alberi ormai alti, cespugli al posto delle scale; nessuna traccia di queste né della fontana col mosaico di maioliche azzurre che li dissetava, a mezza via, quando risalivano a piedi dalla centrale. Chiuse un momento gli occhi e lesse, nitida come un tempo, la scritta francescana sui bordi della piccola vasca

"Laudato si' , mi' Signore, per sor'aqua, / la quale è multo utile et utile et preziosa et casta"

Una strada di recente costruzione, piuttosto ampia, fiancheggiava ora il pendio e giungeva, evidentemente, fin su alle casette.

Bisogna aspettarsi di tutto,adesso - disse a se stessa mentre salivano verso il villaggio; ma quel che vide non sarebbe stato immaginabile nemmeno se qualcuno le avesse descritto ogni cosa nei minimi particolari prima che arrivassero sul posto.

La casa di Agnese, all'angolo del viale che ora proseguiva asfaltato fin su al paese, costeggiando il vecchio Dopolavoro, conservava ancora il suo aspetto di vecchia masseria, malgrado i rovi ne avessero invaso l'aia e il grande portico. Il degrado, lo stato di abbandono, il rovinoso trascorrere degli anni erano invece visibili su tutta la zona un tempo abitata dal personale in servizio alla Centrale. Il viale di sinistra, che dava sul campetto sportivo e portava su, fiancheggiando le case fino alla chiesa e più su ancora fino alla sua abitazione, era ridotto ad uno stretto sentiero, soffocato dalle querce e dalle ortiche. Alzando gli occhi, si scorgeva nella folta vegetazione la parte superiore del caseggiato e se ne ricavava un'impressione di migliore conservazione rispetto alla parte bassa.

Le prime tre palazzine erano deteriorate al punto che sul terrazzo dei Pascucci era cresciuto addirittura un albero. Sparito il canale coperto di cemento che scendeva dal grande lavatoio; del tutto invasa dalla folta vegetazione spontanea la parte superiore della scalinata, che scendeva serpeggiando alla sottostazione.
Sentiva il cuore stretto come in una morsa mentre gli occhi si posavano su quel paesaggio desolato.
Eppure, se solo provava a chiuderli, poteva vedere tutto esattamente com'era trent'anni prima e con le orecchie le riusciva di sentire le voci delle persone care che abitavano quel luogo insieme a lei. Restava ora da vedere la sua casa…

Quando imboccarono l'ultimo vialetto, che dalla strada del lavatoio immetteva alle due palazzine più alte, dovette appoggiarsi a Riccardo, tanto grande si era fatta l'emozione: ecco la fontanella dietro la casa della nonna ancora funzionante; ecco l'albero di prugne, il minuscolo garage e …la casa.

Ricacciò indietro le lacrime. L'edera si era arrampicata fino al primo piano, insinuandosi negli infissi sconnessi della finestra vicino al terrazzo. Spalancato e ormai ridotto in pezzi il portone. Frantumate in molti punti le scale che portavano in tre brevi rampe all'appartamento. Volle comunque salire con Luca, malgrado Riccardo gridasse loro di essere prudenti e di non farlo. Salirono fin sulla soffitta e poi ridiscesero, dopo aver guardato in tutte le stanze, vuote e sporche, il bambino per curiosità, lei nell'assurda speranza di ritrovarvi tracce di qualcosa che le era appartenuto.

Dalla finestra della piccola cucina guardò giù e, prima che gli occhi le rimandassero l'immagine reale dello spazio sottostante, rivide il giardino, con i vialetti a stella coperti di fine ghiaia, la voliera piena di uccellini di ogni specie, la fontana di pietre costruita da suo padre, con lo zampillo e i pesciolini grigi e rossi, le aiole ricche di fiori variopinti e di splendide rose, che sua madre, giovane allora e bellissima, raccoglieva con grande orgoglio e col suo indimenticabile sorriso.

Non restava più nulla di quell'angolo di paradiso, all'infuori delle erbacce e delle noci spagnole; solo qualche rosellina selvatica e stentata si faceva strada faticosamente tra le ortiche

Il resto della giornata corse via veloce, tra l'entusiasmo di Luca e l'affetto di Riccardo, che divideva in silenzio con lei le sue emozioni. Visitarono l'abbazia e mangiarono sul lago, come programmato. Poi Silvia volle rivedere la diga della montagna spaccata, e vi giunsero risalendo lungo la vecchia statale fino alla piana.

Anche lì tutto era cambiato rispetto ai tempi in cui vi andava con i suoi parenti per la scampagnata di ferragosto. Provò di nuovo, come le era accaduto già altre volte in quel giorno, la strana sensazione di sdoppiarsi, di vivere simultaneamente in una duplice dimensione, quella del passato, ormai lontanissimo, e quella del presente. Era come se la Silvia, tornata in quel luogo il primo maggio del 2002, potesse vedere se stessa bambina, quando negli anni sessanta arrivava nel grande prato, con i suoi genitori, la sorella, le zie, per trascorrervi la giornata del quindici agosto, con i cesti pieni di leccornie, il cocomero rosso e succoso, la corda per saltare, il pallone e l' altalena, che suo padre non mancava di allestire, legando robuste funi ai rami delle enormi querce che costellavano la piana erbosa.

La sera, mentre fumava al buio, affacciata alla finestra dello studio, cercò di analizzare il suo stato d'animo, di comprendere il perché di quella profonda tristezza che si era accompagnata quel giorno alla vista dei luoghi della sua infanzia. Eppure razionalmente si era preparata a tutto.

Il suo punto debole era proprio nell'incapacità di accordare cuore e ragione, di distinguere ciò che è da ciò che sarebbe potuto essere o da ciò che non è più.

La realtà del presente l'aveva più volte delusa, addolorata, aveva danneggiato in molti punti l'edificio dei suoi ricordi, nello stesso modo in cui il trascorrere del tempo aveva rovinato la sua casa , trasformato l'ambiente in cui, per tanti anni, era corsa a rifugiarsi con il ricordo, nell'illusoria speranza che potesse essersi conservato intatto come lo portava dentro di sé.

- C'è una profonda contraddizione nel cercare nella realtà i quadri della nostra memoria. - disse a se stessa, parafrasando con autoironia la conclusione della Recherche proustiana.

- Ma i guasti non sono irrimediabili. Dopo tutto mi resta ancora la poesia. -

Prese la penna rinfrancata e scrisse, di getto:

"Vecchia casa. Non saranno i rovi / né l'edera che s'insinua negli infissi /sconnessi / ad impedirmi di vederla / com'era e resta / nei miei ricordi. / Le rovine del tempo / sono veli che rimuove / senza fatica / la memoria / e la mano della bambina / che dopo i giochi / a sera / si fermava ansiosa / sulla stretta rampa delle scale / per accertarsi che non ci fossero / sulla parete / le innocue falene / a spaventarla."
 


 
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Mario Amato
[ amatus@libero.it ]
 
SULLE RIVE DEL NECKAR
 
I

Sulle rive del Neckar
Per il corso sempiterno
Delle sacre acque
In un’ora bruna
Quando le ombre si allungano
Del mondo e del taciturno castello
Congiunte come in amplesso
Rituale
Ai bagliori delle finestre
Che ad una ad una s’accendono
Ho sfogliato petali di fiori
Come rose
Che ad una fanciulla
Ad una ad una
Si donano
Col cuore colmo di speranza
O come messaggi
Di un naufrago


II

La vita riflessa guardo
In quest’ora albeggiante
Nell’acqua del mio fiume
Antico
Che ignaro d’esistenze e d’epoche scorre
Confuse come gocce tra milioni di altre amate
Fino oltre il mare
Nella mente il verso
Terribile a volte
Del poeta mille e mille volte amato
Guarda, il fiume scende
I ponti reggono
Noi passiamo oltre
Da tutto
Gocce tra milioni
Uguali a tutte le altre
E pure resta in qualche luogo
Una eco vaga e tenace


III

Dove vai mio fiume?
Ti guardiamo passare sotto i ponti
Costruiti con sapienza
E la dolcezza ci stringe il cuore
Ma noi non siamo
Non siamo più
Uomini antichi
Non sappiamo parlarti
Non sappiamo ascoltare la tua voce
Ricca di storie
Noi non sappiamo
Ma ascoltare una storia
È un atto d’amore


IV

Una canzone per te,
Heidelberg,
Con parole semplici
Vorrei scrivere
Oggi che ti rivedo
Sogno di giovinezza
Compagna d’amori
Mentre il viottolo risalgo
Che all’acropoli erto conduce
Il fiume mormora o il mio cuore
Rimasto giovinetto
Passata non sei
Città paesana che con affetto
Mi facesti tuo figlio
Passata non sei
Nell’anima mia
E so che anche tu ora
Mi hai accolto
 


 
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Marino Faggella
[ lamorgese@alsia.it ]
 
ORAZIO: IL “PATER OPTIMUS” E I LUOGHI DELLA MEMORIA ANTICA
 
Se volessimo congetturare in quale parte di Venosa antica avrebbe potuto vivere ed abitare il giovanissimo Orazio, utilizzando in qualche modo i dati archeologici in nostro possesso e coniugando ad essi le notizie biografiche che abbiamo, potremmo proporre due soluzioni non necessariamente alternative.
Se merita fede Svetonio, del quale ci resta una fin troppo particolareggiata biografia di Orazio, che se pure non ci fornisce nessuna notizia sulla madre e sul resto della famiglia del poeta, si sofferma particolarmente sulla figura del padre al quale si attribuiscono due mestieri quello di exationum coactor, cioè riscossore delle tasse con qualifica di banchiere (1), o salsamentarius, termine col quale nella lingua di Roma veniva indicato il venditore di salsamenta, cioè il pizzicagnolo. Per quanto quest’ultima notizia del biografo sia stata esclusa dagli studiosi (sia per la natura eccessivamente aneddotica del metodo svetoniano sia perché egli, confondendo due situazioni biografiche, avrebbe trasferito al padre di Orazio una notizia riferita da Diogene Laerzio intorno al padre di Bione di Boristene(2), una delle fonti più sicure del poeta) non è da escludere completamente che il padre del poeta fosse inizialmente, se non proprio unsalsamentarius, almeno un commerciante, data la sua origine servile, e come tale avrebbe potuto avere la sua dimora nella zona orientale di Venosa riservata alle botteghe artigiane e al commercio, e che successivamente, messo da parte un buon capitale con investimenti in case e terre (Epist.2,3,50) abbia fatto fortuna fino a divenire coactor argentarius, cioè banchiere, per la cui attività si sarebbe trasferito in uno degli eleganti quartieri del centro, occupando non quella che erroneamente viene indicata ancora oggi come casa di Orazio” ma probabilmente una più confortevole “domus“ con accesso sulla via basolata, come quella adiacente alle terme nell’area Nord di Venosa, che per la ricchezza e funzionalità degli ambienti dovette essere certamente la dimora di un ricco proprietario.
Del resto i tempi erano favorevoli ai cambiamenti di condizione. Dalle imprese orientali di Pompeo all’età augustea un’autentica rivoluzione era accaduta nella società romana ed italica proprio alle spalle dell’esistenza del poeta: ad un’economia esclusivamente agricola, corrispondente ai valori tradizionali della classe oligarchica romana legata prevalentemente al possesso fondiario da cui essa traeva prestigio sociale e sicurezza politica, era succeduta una società più mobile ed aperta anche alle attività commerciali ed affaristiche che, attuando un trasferimento apprezzabile di ricchezze, contribuirono alla promozione di nuovi rapporti sociali. Quest’ultime però non venivano svolte dagli aristocratici romani, ma dai loro schiavi e liberti, che inizialmente operavano a nome dei loro patrones, ma che poi si affrancarono fino a svolgere con autonomia la loro attività. Anche il padre di Orazio, pur essendo di origini servili, dovette certamente essere altro che un povero esattore delle imposte, o povero possessore di un misero campicello (macro pauper agello) come dice il poeta (Sat.I 6, 45 sgg.), se è vero che poté trasferirsi a Roma, probabilmente con tutta la famiglia, perché il figlio, ben vestito e con un bel seguito di schiavi, abbandonando la provincia potesse frequentare le scuole di città. Insomma, sia che fosse riscossore delle imposte o banditore delle aste pubbliche, quell’uomo irreprensibile che, come dice il poeta, per quanto scevro di argomentazioni filosofiche e procedendo per exempla, insegnava al figlio come evitare l’adulterio e il turpe amore delle cortigiane, era anche uno che maneggiava denaro e, come si sa, chi lo fa si fa ben remunerare. Dovremmo per questo negar credito al poeta che di questo pater optimus e custos incorruptissimus dei buoni costumi ci ha lasciato un ritratto indelebile, preoccupandosi, però, contemporaneamente di riportarlo quasi alla povertà? Non si tratta di negare il valore autobiografico dell’arte oraziana, particolarmente quella delle satire, ma occorre anche ricercare, al di là del puro e semplice biografismo, un’altra chiave di lettura, che senza ridurre il valore della sua poesia, ci aiuti, tuttavia, ad intenderla meglio. È giusto condividere il giudizio di quanti sostengono che non esiste in tutta la letteratura latina una considerazione così orgogliosa, riconoscente e commossa come quella tributata dal poeta al proprio padre, ma bisogna anche riconoscere che il poeta ha tracciato del genitore più un ritratto idealizzato che perfettamente reale. Quale la ragione di quella reductio economica e di un tale comportamento artistico di Orazio che fa di tutto per tramandare ai suoi lettori un ritratto paterno particolarmente studiato e sublimato? A nostro modo di vedere, diverse suggestioni, culturali (l’influenza delle più importanti scuole filosofiche del tempo che senza distinzione predicavano un modello di vita semplice e misurato), letterarie (la trasmissione di precetti pedagogici che partiti da Catone avevano sottolineato la necessità di perpetuare i valori tradizionali del mos maiorum), politiche (l’adesione di Orazio al programma morale e ideologico della nuova ideologia del principato che non faceva mistero di volersi servire anche della letteratura per realizzare i suoi intendimenti) autobiografiche (il bisogno di tramandare ai posteri, anche a costo di qualche manomissione o esagerazione, l’immagine di un padre esemplare che era stato il primo artefice della sua fortuna) hanno concorso alla complessa rappresentazione di una figura così idealizzata da rasentare la perfezione. Dal momento che ognuna di queste ragioni, insistendo contemporaneamente, ha avuto certamente una parte importante nella delineazione di quel ritratto, esse meriterebbero di essere approfondite, ma qui tratteremo, anche per opportunità di spazio, solo dell’ultima questione che sembra maggiormente rispondente al nostro assunto. La reductio economica del padre, perfettamente funzionale alla sua idealizzazione, trova la sua fondamentale spiegazione nel bisogno di Orazio di cancellare innanzitutto la negatività sociale del personaggio, e di sottolineare che il suo successo della maturità era da attribuirsi più a ragioni morali e culturali che a motivazioni economiche: egli, delineando il ritratto paterno, insistendo sugli effetti finali, si propone di dimostrare che il successo del poeta Orazio è in fondo il migliore investimento realizzato dal padre. Un’ ulteriore conferma alle nostre convinzioni la troviamo nelle seguenti considerazioni di Ramaus, il quale così sottolinea l’infanzia non propriamente felice del poeta a causa della condizione sociale del padre che in qualche modo dovette avere anche ripercussioni negative su di lui: “Il padre liberto doveva aver fatto una certa fortuna, se era arrivato a possedere un fondo, certo non era di condizione misera; ma la sua umile origine di schiavo affrancato non si proponeva come la migliore per facilitare i rapporti del figliolo con i coetanei. Orazio avrebbe potuto frequentare, è vero, la scuola di Flavio, un grammatico del luogo, ma questa era destinata istituzionalmente ai figli degli ufficiali romani. In più il padre, che dopo l’affrancamento aveva assunto il nome della tribus Horatia, doveva probabilmente essere di origine straniera (ebraica?)(3) come la maggior parte degli schiavi. Insomma la questione del sopportato”.Orazio ne ricorda qualche episodio ma senza acredine: Ha presto la coscienza del self man (i latini avrebbero detto homo ex sese natus), della superiorità intellettuale”(4).

Orazio, self made man


Sulla circostanza di essersi fatto da sé Orazio ha insistito più di una volta nei suoi scritti, ma è particolarmente nella Sat. I, 6 che egli vi si sofferma con speciale attenzione per sottolineare con una insistita anafora (me libertino patre natum…libertino patre natum) di malcelato valore concessivo l’eccezionalità di due fatti che lo videro protagonista, malgrado fosse di lontane origini servili: essere accolto quale amico e confidente di Mecenate, (un uomo che si guadagnava la sua considerazione non tanto per la sua potenza e per la protezione che avrebbe potuto offrirgli quanto perché era disposto a riconosce i valori spirituali prima di quelli sociali: “…placui tibi, qui turpi secernis honestum, / non patre preclaro, sed vita et pectore puro); comandare una legione romana nell’esercito di Bruto senza essere un giovane nobile dell’ordine equestre e senatorio, ai quali tale incarico veniva solitamente attribuito prima di intraprendere la carriera civile o militare: “Ora ritorno a me, nato da un padre liberto, al quale tutti rinfacciano quell’origine servile: sia perché tu,o Mecenate, mi onori della tua amicizia; e un tempo perché in qualità di tribuno mi obbediva una legione romana”.
La critica psicanalitica, che ha appuntato le sue armi per riconoscere nella instabilità emotiva di Orazio un “male di vivere” ante litteram, non ha fatto molto per diagnosticare il morbo più oscuro che tormentava l’animo del poeta, e che comunque egli si sforzava di celare al di sotto della letterarietà: un ossessivo senso di colpa che nasceva dalla condizione sociale del padre, il cui passato di ex schiavo costituì sempre per lui un limite ricorrente che non favorì certamente le sue relazioni sociali sia nell’ambiente provinciale di Venosa (dove da ragazzo dovette sopportare umiliazioni e tentativi di emarginazione da parte dei suoi coetanei, i figli dei centurioni che frequentavano la scuola di Flavio), sia in quelli più altolocati di Roma non molto favorevoli ai figli o discendenti di schiavi i quali, anche se facoltosi, difficilmente si integravano in quella società gerarchicamente disegnata. Quanto ai liberti c’è da dire che se alcune componenti del loro status giuridico contribuivano ad integrarli nella società dei liberi, come il diritto di possedere terre, immobili, oggetti di lusso e altri beni, che potevano anche trasmettere ai loro eredi, altre, vincolandoli ad un insieme di doveri e prescrizioni (i liberti erano di fatto esclusi dal senato e conseguentemente da tutte le magistrature) isolavano di fatto questa speciale categoria dal mondo dei cosiddetti “ingenui”. Pur godendo degli speciali privilegi che discendevano dal loro elevato livello economico, di fatto pesava fortemente sui liberti la memoria del passato servile e il giudizio poco lusinghiero delle classi più elevate di Roma che, come giustamente nota Andreau: “si riservavano di ricordare al liberto che egli, in fondo, non differiva poi tanto dallo schiavo che era stato, e di qualificarlo come schiavo (Nei testi giuridici e nelle iscrizioni risalenti al III secolo a.C., i liberti sono designati talvolta con la parola servus,schiavo, e non con libertus), o addirittura, nei casi estremi, di trattarlo da schiavo“(5). Nel caso del padre di Orazio, oltre alle limitazioni sopra elencate, c’è da aggiungere, inoltre, il giudizio poco lusinghiero che in genere si aveva del mestiere di coactor argentarius, ritenuto, come sappiamo da Porfirione, “humile et turpissimum genus qaestus”. Quanto alle professioni che, secondo la tradizione, erano da reputarsi nobili o ignobili nella società romana, è per noi una fonte più sicura il De officiis di Cicerone,(6) ove si ribadisce che fra tutte le attività che servivano a procurare profitto la più nobile era l’agricoltura, mentre biasimevoli erano le professioni dell’esattore, dell’usuraio e di tutti quelli che maneggiavano denaro, destinati prima o poi a suscitare negli altri o l’invidia o i rancori. Nella stessa opera si fa riferimento anche al mestiere dei rivenduglioli, tra i quali vengono ricordati i venditori di pesce salato, macellai, cuochi e salsicciai, i quali, dice lo stesso Cicerone, non farebbero alcun guadagno se non fossero abituati alla menzogna. Considerando che per un romano legato ai valori antichi non c’era al mondo una cosa più turpe del mentire o di più biasimevole del maneggiar denari, ne deriva in ogni caso che il giudizio della gente sul padre di Orazio, il quale aveva fatto la sua fortuna proprio in attività similari, non doveva essere propriamente lusinghiero.

I luoghi della memoria


Non sono infrequenti in tutte le raccolte oraziane richiami al suo paese di origine: negli anni romani della sua prima giovinezza, a contatto con una realtà sofferta giorno dopo giorno, il poeta venosino, per confortarsi, si rifugiava talvolta nella memoria evocando il favoloso tempo della sua infanzia, che riaffiora con gli incantevoli scorci del paesaggio daunico, percorso dal fragoroso Aufido, e le corse spensierate sulle balze del Vulture, mentre in lontananza si stagliava Acerenza, alta come un nido di aquila, i pascoli bantini e, più lontana, la fertile campagna di Forento.(7)

Se è vero che il ricordo della terra natale ed immagini caratteristiche del paesaggio circostante accompagnano, si può dire, tutto il corso della vita del poeta, attestando, come sostiene Festa “un affetto sincero e una devozione incancellabile, alla terra madre e ai paesi in cui egli crebbe”(8), non si può tuttavia negare che egli visse qui solo i primi dieci anni della sua esistenza e, per quel che ne sappiamo, non vi fece forse più ritorno, non fosse altro perché, come sostiene lo stesso Orazio nell’epistola a Floro, dopo che la nequizia dei tempi l’ebbe sottratto agli studi del grato soggiorno di Atene, per aver preso parte allo scontro di Filippi a favore dei cesaricidi, perduti definitivamente la casa e i poderi paterni, era stato ridotto in povertà dalla confisca triunvirale: “Unde simul primum me demisere Philippi,/ decisis humilem pinnis inopemque paterni/ et laris et fundi paupertas impulit audax,/ ut versus facerem. (Epist.II 2, 49) ”.
Nessuna meraviglia, pertanto, se egli accenni e solo di sfuggita alla Lucania e alla città che gli ha dato i natali e che, inoltre, le immagini della regione circostante il suo paese si affacciassero alla fantasia del poeta in un modo piuttosto vago e non propriamente nitido. Altra cosa è, ad esempio, la “lucanità” di un poeta nostro contemporaneo come Sinisgalli(9). Se in Orazio la terra della sua origine si perde nella nebbia dei ricordi, al contrario essa è una presenza fondamentale, anzi l’origine e la materia prima dell’arte nel poeta nostro contemporaneo.Questo legame profondo e assoluto con la terra-madre, che prima è vita e poi diventa arte attraverso la memoria lirica è anzi la caratteristica saliente della musa sinisgalliana.
Non credo di scandalizzare alcuno, neppure i fautori convinti di un rapporto totale ed assoluto di Orazio con la terra lucana, sostenendo che, a parte il cosiddetto carme del Vulture e l’inizio della Satira II 2, 1, dove, del resto, egli dubita di essere interamente lucano, solo pochissime volte il poeta nomina espressamente la Lucania, ma lo fa solo incidentalmente e per cenni, mai puntando completamente l’attenzione sul nome né scegliendola quale motivo fondamentale del carme, come ad esempio accade in Epod. I, 25, sgg. , dove, dichiarandosi pronto non tanto a sostenere il peso della milizia quanto per essergli vicino nell’imminente guerra di Ottaviano contro Antonio, dice a Mecenate di volerlo seguire solo per dimostrargli il suo affetto disinteressato senza pretendere di avere nulla in cambio, né distese di campi, né copiose greggi: “non ut iuvencis inligata pluribus/ aratra nitantur mea/ pecusve Calabris ante sidus fervidum/ Lucana mutet pascuis”. Qui evidentemente l’accenno alla transumanza del bestiame dalle piane della Puglia ai monti lucani è solo un particolare descrittivo che per contrasto serve al poeta per sottolineare l’insostituibile dono dell’amicizia nei riguardi del suo protettore. Una situazione analoga è in Epist. I,15,19-21, dove Orazio pensa di far ritorno in Lucania, ma non certamente a Venosa, sebbene a Velia, sulla riva del mare Tirreno per trascorrevi un breve periodo di cura per consiglio del medico Antonio Mela. La stagione è quella invernale, il luogo gli è sconosciuto, che cosa potrebbe alleviare meglio quel soggiorno forzato se non del buon vino e la compagnia di una donna: la giovane “amica lucana“ che qualcuno amichevolmente gli fornirà. È necessario aggiunger che qui il termine “amica” non serve a ratificare il legame di Orazio con la sua terra di origine, abbandonata da gran tempo, e nemmeno il rapporto con la donna deve far pensare ad un antico legame o ad un’amicizia di vecchia data, come sostiene Gagliardi, ma va interpretato per quel che vale: il poeta, (è risaputa la labilità e l’occasionalità del legame amoroso di Orazio per una donna), vuole semplicemente trascorrere qualche ora piacevole con un’ “amica” in un luogo che ormai non ha per lui nessun legame familiare.

Se, trascurando per un momento la regione lucana circostante, che, come si è detto, appare nell’opera del poeta poche volte e di scorcio, e volessimo puntare l’attenzione su Venosa, la città che pure gli ha dato i natali, dovremmo concludere che anch’essa essa compare solo due volte nell’opera del poeta: indirettamente citata nella sua satira più tarda, già citata, ove egli fa riferimento al venusinus colonus di incerta qualifica etnica, ed esplicitamente nell’ode per Arcrita (Carm. I, 28) nella quale ricorda il particolare dei suoi boschi, che egli si augura siano battuti dal vento Euro, scelti come oggetto delle sue furie (Sic, quodcumque minabitur Eurus / fluctibus hesperiis,/ Venusinae/ plectantur silva te sospite; multaque merces,/ unde potest, tibi defluat…), onde evitare che esso imperversi sull’Adriatico mettendo in pericolo la vita di un naufrago.
Per quanto sia controversa l’interpretazione dell’ode, come testimoniano le diverse e non sempre concordi soluzioni dei critici, non ce la sentiamo di condividere l’opinione di Gagliardi, che ha sottolineato la natura autobiografica dell’ode. Anche nel caso di dover ammettere che il naufrago sia lo stesso Orazio, risaputamene terrorizzato dal mare, non mi sembra questa una ragione sufficiente perché egli si auguri che le selve della sua città natale facciano da parafulmine solo in senso apotropaico.
Il riferimento dell’ode in questione, tuttavia, ci consente di ammettere che la circostanza più spesso ricorrente nell’opera oraziana della descrizione della forza distruttiva delle acque, sia quelle dei fiumi o quella ben più pericolosa del mare in tempesta, sia da riportare a qualche esperienza drammaticamente vissuta. Tra i fiumi rappresentati dal poeta un posto a parte è riservato all’Ofanto, del quale il poeta ricorda spesso la violenza delle acque e l’impeto fragoroso della corrente: fenomeno non eccezionale per quel fiume ricco ancora oggi di acque ed un tempo più pronte a straripare, come attestano le espressioni e gli aggettivi utilizzati da Orazio: violens, acer, longe sonantem Aufidum.(Carm. III 30, 10; Sat. I 1, 58; Carm. IV 9). Una volta (Carm.IV 14, 25 e sgg. ) la piena dell’Ofanto, detto tauriforme, serve al poeta per visualizzare le distruzioni inferte dall’esercito di Tiberio Druso all’accampamento dei Reti: Sic tauriformis volvitur Aufidus.
La frequenza con cui queste immagini di violenza e di distruzione ritornano in modo ossessivo nei versi del poeta ci rivelano il fenomeno psicologico dell’imprinting: l’animo infantile di Orazio è stato a tal punto impressionato drammaticamente da questi avvenimenti che non riuscirà facilmente a dimenticarli neppure nell’età adulta. Eppure più avanti negli anni gli toccherà di conoscere ben altre e più rovinose inondazioni che non mancherà di descrivere nei suoi versi; ma, come sostiene il Festa: “Si direbbe che neppure l’inondazione del Tevere (Carm. I, 2) veduta in età matura e descritta nell’ode Iam satis terris nivis (…) producesse al poeta un’impressione così viva come quella dellOfanto”(10). È certo che la memoria di fatti così inquietanti legati al fiume che segnava i confini della Daunia dagli altri territori esclude risolutamente, (anche perché, come osserva giustamente il Franchel, Venusia non si trovava sulle sponde dell’Aufidus, ma molto più a sud ) che Orazio, fanciullo che contava meno di dieci anni, avesse scelto proprio il greto di un fiume così pericoloso per correre e giocare.(11)
Antonio La Penna ha sottolineato la particolare predilezione di Orazio per la visione dell’Adriatico in tempesta, (detto:” dux inquieti turbidus Adriae “in Carm. II 3, 5), che è rappresentato con varie sfumature quasi sempre come violento e procelloso. Ciò, ad esempio, accade nell’ode I 3, che è un carme di accompagnamento e di augurio per un viaggio progettato da Virgilio verso la Grecia su quel mare gravido di minacce e sempre agitato, che tiene il poeta in costante apprensione per l’amico che partendo s’era portato la metà dell’anima sua, per cui rivolgendosi alla nave che lo porta la prega di restituirglielo incolume: “navis quae tibi creditum/ debes Virgilium finibus atticis! /Reddas incolumem, precor/ et serves animae dimidium meae! “. Altrove (Carm. I 33,14-16) per ricordare all’amico Tibullo la forza erotica della liberta Mirtale, non trova di meglio che richiamare la furia selvaggia del mare di Adria che è tanto impetuoso da scavare le insenature dell’Apulia: “Mirtale/ libertina, fretis acrior Hadriae/ curvantis calabros sinus. “ Infine nell’ode dedicata a Postumo, ove si celebra l’inesorabile morte, Orazio ricorda al giovane amico quelli che, secondo lui sono le cose da evitare maggiormente ( la guerra, la navigazione, le malattie), i più gravi pericoli di lasciare la vita, se la morte non fosse inevitabile: “Frusta cruento Marte carebimus / fractisque rauci fluctibus Hadriae; / frustra per autummnos nocentem / corporibus metuemus Austrum! “.
Questi esempi che sottolineano la paura del mare hanno fatto pensare, analogamente a quanto si è detto per l‘Ofanto, ad esperienze traumatiche del poeta incorso più di una volta in una pericolosa navigazione su quel mare, come si può ricavare anche dall’ode A Galatea: “Ego quid sit ater / Hadriae novi sinus et quid albus / peccet Iapix! ” (Carm.III 27, 18-20). Probabilmente Orazio ha sperimentato personalmente cosa voglia dire il mare Adriatico nero di tempesta, uno spettacolo che non è disposto ad augurare a nessuno se non ai figli dei suoi nemici. Che il poeta sia pronto a testimoniare nei suoi scritti alcuni momenti della sua esistenza, ciò non vuol dire tuttavia che tutta l’opera di Orazio debba ritenersi interamente autobiografica. Sostiene Fraenkel all’inizio delle sua monumentale monografia che Orazio è l’autore classico che “ci parla di sé, del suo carattere, della sua evoluzione e del suo modo di vivere (del suo bìos) assai più diffusamente di qualsiasi altro grande poeta dell’antichità”. È un’affermazione questa che anche noi siamo disposti entro certi limiti a sottoscrivere, in quanto corrisponde alle dichiarazioni estetiche del Nostro(12), ma non possiamo dimenticare che Orazio è anche poeta doctus, e come tale poco disposto ad un autobiografismo assoluto. Lo dimostra il fatto che la stessa ricorrente descrizione del mare in tempesta potrebbe avere anche una matrice culturale: il mare per i seguaci di Epicuro più che essere un mare reale è metafora delle passioni distruttive. Ciò è particolarmente evidente nel De rerum natura, di Lucrezio, il poeta più vicino ad Epicuro. Non sappiamo se tale motivo sia giunto direttamente ad Orazio in seguito alla frequentazione del chèpos di Sirone oppure, per via mediata, dalla lettura attenta e meditata del proemio del libro secondo lucreziano: ma l’imitatio oraziana di Lucrezio, per quanto non sempre facilmente da dimostrare, è cosa che comunque nessuno oserebbe mettere in discussione.
Si potrebbe pensare infine che Orazio, dopo la dispersione della vita, si sarebbe augurato di ritornare almeno da morto nella sua terra per esservi seppellito; ma neppure questo è vero, quanto meno non risulta dalle sue carte. Infatti, nemmeno dopo la dispersione della vita, come giustamente nota Festa: ”gli venne mai in mente di poter finire la vita nella sua Venosa. A cui del resto non potevano legarlo altro che i ricordi dell’infanzia, se (è vero che) anche la casa e il campicello paterno erano andati a finire in mani estranei”(13). A Tivoli, dove c’è una selva dalle fitte ombre che si sposa con le acque pure dell’Aniene, o a Taranto, ferace e nobile a causa della nobiltà del suo fondatore, Orazio dice di voler trascorrere l’ultimo tempo della sua vita perché non gli piace più la regia Roma, dove lo chiamano invisa negotia e curae et labores che rendono problematico il suo rapporto con la poesia. È necessario a questo punto sottolineare che Il poeta di Venosa, costretto a vivere nella tumultuosa capitale dell’impero e sottoposto agli obbliganti doveri politici e culturali dell’ambiente cortigiano, rimane fondamentalmente un paysan inurbato che non riesce facilmente ad inserirsi nella grande città nei riguardi della quale egli non manca, pertanto, di manifestare frequentemente un intimo fastidio e rigetto. Sradicato dall’ambiente provinciale della sua città di origine, Orazio, non poté non soffrire un trauma psichico: a Roma talvolta lo prende una continua scontentezza ed inquietudine, di fronte ai quali, come dice a Bullazio nell’Epistola I 11, non serve cambiare luogo per calmare l’anima, in quanto la serenità si trova solo un se stessi. La grande città con la folla e i suoi rumori, come dice anche Seneca, rende impossibile la quiete e l’equilibrio dell’anima, che solo il ritiro in campagna rende attuabili. Ma la campagna che egli descrive nei suoi ultimi tempo non è mai quella di Venosa o della Lucania, ma quella della ridente Tivoli, anche se talvolta, vittima di un male sottile, lo prende la nostalgia della grande città e non sa dove dimorare(“Romae Tibur amem, ventosus Tibure Romam” confessa una volta a Celso nell’Epistola I 8,12). Ciò significa che Orazio non era propriamente privo di intimi contrasti e che il suo senso della misura, di origine personale e filosofica, non sempre sia riuscito ad illuminare le ombre del suo animo. Del resto è stata scomodata anche la psicanalisi per spiegare la solitudine del poeta quale soluzione di un temperamento non solo malinconico, ma addirittura ipocondriaco o colpito dal male moderno dell’angoscia, una “ tristezza senza occasioni, tutta esistenziale” che, nota Luca Canali, nessuno dei poeti latini precedenti aveva conosciuto: ”Anche Catullo aveva cantato la tristezza, persino la disperazione, ma dell’una e dell’altra v’erano cause precise, cui il poeta reagiva con emotività adolescenziale.Anche Lucrezio, cui Orazio è largamente debitore di suggestioni senza mai nominarlo(…), aveva suggestivamente espresso gli stati d’angoscia. Ma la malinconia di Orazio è qualcosa di molto diverso, di più sottile, di meno sconvolgente, ma di più insidioso, e forse più vicino ad una concezione “ decadente” della vita:un sintomo del male di vivere”(14).
È particolarmente indicativo che, anche assalito dal suo male e nell’incertezza della sua dimora, Orazio non pensi mai di tornare nel paese delle sue memorie, ma volando al di sopra delle terre lucane guardi se mai anelando alla mitica Taranto, solo in quell’angolo di mondo che gli sorride più di qualsiasi altro egli, ormai stanco”di mari, di terre e di armi”, si augura di poter trovare finalmente quella pace che desidera o di terminare lì i suoi giorni, come dimostra la chiusa dell’ode dedicata a Settimio (Septimi,Gades aditure mecum), che non è semplice un elogio letterario della città e del suo paesaggio e dei suoi prodotti, ritratti con tanta delicatezza di colori da dichiarare l’amore che Orazio nutriva per quella terra, ma quasi un testamento poetico che il poeta rende all’amico e anche a noi: “Ille terrarum mihi preter omnes / angulus ridet, ubi non Hymetto/ mella decedunt viridique certa baca Venafro,/ ver ubi longum tepidasque paebet/ Iuppiter brumas et Amicus Aulon/ fertili Baccho minimum falernis/ invidet uvis./ Ille te mecum locus et beatae/ postulant arces; ibi tu calentem/ debita sparges lacrima favillam/ vatis amici! ”(15).

gennaio 2004

NOTE
1) A proposito di questa complessa qualifica del coactor chiarisce Franchel (Vita Horati): “Il termine coactor può indicare varie attività (…) Nelle competenze di quest’ultimo rientravano in particolare le vendite all’asta le quali, come risulta da numerose testimonianze, erano assai frequenti e di non poca importanza nella vita commerciale del mondo romano.È il coactor che in occasione di un’asta prende il posto del venditore della merce. La transazione non si svolge tra il venditore e l’acquirente direttamente ma, da una parte, tra il venditore e il coactor, dall’altra, tra il coactor e l’acquirente. Il coactor riceve una piccola ricompensa, la merces. Poiché al termine dell’asta versa immediatamente al venditore denaro, che poi deve recuperare dall’acquirente, egli esercita in effetti la funzione di un banchiere ed è perciò chiamato anche argentarius.”
2) Riferisce lo storico greco che Bione di Boristene, interrogato circa i propri natali, avrebbe risposto in modo spregiudicato: ”mio padre era un liberto che si puliva con il braccio il naso”, espressione del tutto corrispondente a quella riferita da Svetonio al padre di Orazio: ”quotiens ego vidi pater tuum bracchio se emungentem!”.
3) Si veda a questo proposito l’interessante articolo di E.CICCOTTI, Le origini di Orazio(e la questione ebraica), Rionero (PZ) 1990.
4) M.RAMAUS, Satire ed Epistole, Presentazione, Milano 1987, p.VIII.
5) J. ANDREAU, Il liberto, in L’uomo romano, Roma-Bari 1993, pp.198-199.
6) CICERONE, De Officiis, I, 42.
7) Il paese è da identificarsi con l’attuale Lavello, piuttosto che con Forenza, che, pur richiamando nel nome l’antico centro risulta geograficamente un po’ discosta e poco visibile da Venosa.
8) N.FESTA, Op.cit., Venosa 1991, p.42.
9) M. FAGGELLA, Leonardo Sinisgalli, un poeta nella civiltà delle macchine, Potenza 1996.
10) N.FESTA, Ricordi lucani in Orazio,Venosa 1991, p.84.
11) Cfr., D. GAGLIARDI, cit. p.45.
12) così ROSTAGNI nella sua Storia della letteratura latina: “Quello che ebbe a dire del suo predecessore e modello nella poesia satirica Lucilio, che -tutta ne’ suoi versi, come dipinta in un quadro votivo, ci appare la vita dell’antico scrittore-, può a buon diritto ripetersi anche di lui“.
13) N.FESTA, cit., pp. 23-24.
14) L.CANALI, Arcaismo e modernità, in Orazio,anni fuggiaschi e stabilità di regime, Venosa 1988, p.17.
15) ORAZIO, Carmina II, 6, 13 sgg. : “Quell’angolo di mondo per me tra tutti ride, dove il miele supera quello dell’Imetto e dove verde è l’oliva come quella di Venafro. Là Giove elargisce miti inverni e lunghe primavere, e al fertile Bacco l’Aulone è caro e non ha motivi di invidiare l’ uva di Falerno. Te mio compagno invitano quelle felici rocche; là tu cospargerai di care lacrime le ceneri ancor calde del tuo caro poeta”.
 


 
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Marino Faggella
[ lamorgese@alsia.it ]
 
VENOSA ANTICA, DALLA FONDAZIONE ALL'ETA' DI ORAZIO
 
Prima di stendere queste pagine, dettate dal proposito di seguire il tracciato di un percorso storico- archeologico che ripercorrendo idealmente la via Appia mi conducesse fino a Venosa, attraversato più volte dal dubbio, ho creduto che in fondo non avesse senso riparlare di Orazio e della sua città natale, soprattutto dopo la celebrazione del Bimillenario della morte del poeta che ha richiamato per l’occasione in Basilicata fior di studiosi di provenienza internazionale i quali, celebrando in modo degnissimo il venosino, hanno lasciato una traccia indelebile di scrittura in quelle giornate di studio.

Eppure, ripensando alle cose che in occasione di quell’anniversario sono state dette e scritte, ho avuto spesso il sospetto che non tutto fosse stato asserito giustamente e a proposito: come, ad esempio, il fatto di insistere troppo sulla cosiddetta “lucanità” di Orazio, riconosciuta in alcuni casi a forza nell’opera del poeta. Questo è anche il prezzo che, a mio modo di vedere, la cultura ufficiale doveva pagare alla regione e alla città che ospitava i lavori, la quale in quella occasione, quasi esclusivamente nel nome di Orazio, usciva da un lungo isolamento geografico e culturale da cui a dire il vero ancor oggi a malapena la riscatta una nuova notorietà (sottolineata anche da una recente attività editoriale, sebbene in alcuni casi essa con metodi rapaci arrivi a sfruttare strumentalmente anche l’opera del maggior poeta locale) anche alla luce degli ultimi esiti dell’attività archeologica che attira sempre più l’attenzione di studiosi e visitatori esterni a Venosa, una città che è in grado di fornire in un unico, anche se complesso contenitore, una ricca ed interessantissima quantità di dati storico-monumentali che, insieme alle amenità locali, aspettano di essere riscoperti e fruiti da viaggiatori interessati e curiosi di sapere.

Prima di soffermarmi più da vicino sulla questione dell’appartenenza più o meno sicura di Orazio alla Lucania, ritengo sia opportuno cominciare dai dati storico-archeologici, anche per vedere che cosa oggi sopravvive, a partire dalla fondazione della città, dei tempi storici del poeta.
La colonia di Venosa, dove Orazio nacque nel 65 a.C., come testimonia anche il poeta, venne fondata dai Romani nel 291 a.C., quale caposaldo strategico-militare al termine delle guerre sannitiche, testa di ponte fondamentale della conquista del sud d’Italia per arginare gli improvvisi assalti dei popoli indigeni, dopo che erano stati già respinti, come sostiene lo stesso poeta, gli antichi abitatori “pulsis, vetus est fama Sabellis”. La conquista di questo baluardo situato sulle ultime propaggini dell’Appennino lucano nella zona di confine tra l’Apulia, la Lucania e il Sannio fu di importanza fondamentale nel processo di penetrazione romana nell’area dauna giacché consentiva il controllo della piana dell’Ofanto e dei territori precedentemente occupati dai Sanniti. La nuova colonia, proprio a causa della sua posizione strategica in un fondamentale luogo di transito e perché attraversata dalla Via Appia, la più importante arteria di comunicazione del mondo antico, che collegando Roma a Capua attraverso il Sannio giungeva fino a Brindisi, era destinata ad avere con gli anni un ruolo sempre più importante sia economico che militare, e tanta floridezza da essere ancora definita splendida civitas in una tarda epigrafe del IV secolo d.C.
La scelta del sito in cui impiantare la città, la sua stessa forma urbana furono condizionate per gli occupanti dalla duplice necessità di coniugare la valenza strategico-militare del luogo con l’opportunità di reperire in loco autonomamente tutto ciò che servisse sia al loro mantenimento sia all’opera funzionale di costruzione e fortificazione urbana. Un esteso pianoro, delimitato dai valloni scoscesi del Ruscello e del Reale e integrato nel sistema collinare che costeggia la valle dellOfanto, corrispondendo perfettamente ai requisiti di difendibilità e di continuato approviggionamento degli abitanti, venne individuato quale sede della nuova colonia. L’insediamento fu delimitato da una cinta muraria in calcare che seguiva tutto il bordo collinare e di cui resta allo scoperto un breve tratto visibile nell’attuale largo Marcello, una delle poche emergenze monumentali del periodo coloniale che ancora sopravvivono.
Lo sviluppo dell’impianto cittadino antico si estendeva per circa 40 ettari, compresi fra la Chiesa della SS. Trinità e il più recente Castello Pirro Del Balzo. La forma stretta ed allungata dell’altopiano, sul quale fu edificata Venosa, ha finito col condizionare decisamente il successivo sviluppo urbanistico della città, che ancora oggi, nel centro storico, conserva l’antico impianto urbanistico, costituito da lunghi e stretti isolati di forma rettangolare, affiancati, lungo il loro lato breve, in direzione E-O da due plateiai (1), corrispondenti ai due attuali assi viari maggiori di Corso Garibaldi e Vittorio Emanuele II, che percorrevano il centro storico nella sua lunghezza, incrociando strade ortogonali secondarie.
La forma urbanistica dell’antica Venusta, certamente poco standardizzata e non propriamente rispondente né alla struttura planimetrica di forma quadrangolare con viabilità cruciforme del più antico modello “castrense“ né agli archetipici più ricorrenti dei primi impianti coloniali romani, fa pensar piuttosto ad un’influenza del successivo modello ippodameo (2), come dimostra lo schema rettangolare degli isolati e dell’impianto viario, la collocazione asimmetrica delle porte e l’articolazione a gradoni dei vari quartieri per dare una soluzione di tipo modulare al problema del dislivello delle quote.
L’insediamento coloniale, come testimoniano gli storici Strabone e Dionigi di Alicarnasso, comportò l’azzeramento di un centro sannitico molto popoloso, precedentemente sorgente in quell’area collinare, che fu occupato da L. Postumio Megello, uno dei consoli dell’anno 291, al quale tuttavia non spettò di assegnare il nome alla città né di far parte dei tresviri coloniae deducendae, perché tirato in uno scandalo dal senato come dice Livio, ma all’altro console di parte aristocratica Fabio Rulliano: circostanza che, come vedremo, non fu senza importanza circa la successiva vicenda storica della colonia. Gli storici moderni ancora discutono sull’ubicazione del centro preromano che secondo alcuni non sarebbe sorto nell’area della colonia ma altrove. Comunque si voglia risolvere la questione dell’aggregato sannitico, esso più che far pensare ad un centro modesto sorto spontaneamente e senza causalità insediative (l’organizzazione vicatim testimoniata da Livio) dovette essere probabilmente polyànthropon (ricco di uomini), come sostiene Dionigi, a causa del più avanzato sistema di urbanizzazione daunico, fatto proprio dalle tribù sabelliche. L’avvenuto sincretismo etnico-culturale fra i nuovi occupanti e le popolazioni locali è ampiamente testimoniato dal fenomeno di oscizzazione dell’area, come dimostra il diffuso uso nella toponomastica della grafia e del formulario osco che venne ereditato anche dai Romani dopo l’insediamento coloniale. Lo stesso Dionigi sostiene che per la deduzione coloniale di Venosa si mobilitarono 20.000 coloni, numero che agli storici moderni è risultato esagerato soprattutto se confrontato con il dimensionamento di altre colonie latine di simili caratteristiche. Tuttavia l’indicazione di un numero così elevato di coloni non è da imputare ad un probabile errore dello storico, ma potrebbe essere spiegato con l’integrazione degli abitanti indigeni nel nuovo centro, che sarebbero stati accolti a vario titolo: l’aristocrazia daunica, fondendosi con i nuovi dominatori, avrebbe dato origine ad un nuovo ceto egemone, mentre il resto della popolazione locale di estrazione popolare sarebbe stata impiegata quale manodopera nella coltivazione dei campi di proprietà dei nuovi coloni.
A questo punto riteniamo sia necessario dire qualcosa di più preciso a proposito della formazione del sistema coloniale, della sua genesi e del suo statuto. Secondo gli storici moderni l’espansione romana nel sud della penisola nasceva da una duplice necessità: sia per corrispondere al desiderio di nuove terre dell’operoso e prolifico ceto contadino romano, sia per esigenze militari e di sicurezza. Inizialmente Roma si era limitata ad assorbire nella cittadinanza i popoli confinanti vinti in guerra. Ma con l’avanzare della conquista si dovette pensare ad un diverso sistema di organizzazione e difesa del territorio costituendo l’istituto della colonia, che in punti particolarmente strategici delle aree conquistate (prevalentemente in centri già esistenti) comportava la deduzione di cospicui gruppi di cittadini romani o di alleati (non di rado costituiti dai soldati con le loro famiglie) col duplice compito di difendere il territorio conquistato e di coltivarne le terre, di regola un terzo di quelle tolte al nemico, da qui il nome di colonia che si assegnava alle nuove comunità. Esse si distinsero in coloniae latinae,(formate da un numero di coloni variabile da 1500 a 6000) costituite inizialmente dai federati latini e impiantate nelle zone continentali, e coloniae romanorum, più ridotte e destinate alla difesa delle zone costiere. Venosa ebbe, pertanto tutte le caratteristiche di una colonia latina di ampio dimensionamento, come dimostra sia la sua consistenza demografica sia la presenza nella città di un senato e delle più alte magistrature esistenti a Roma: Edili, Pontefici, Questori, Duonviri, Decurioni e per un certo tempo anche Tribuni.

Le vicende storiche successive alla sua fondazione videro la città saldamente legata alla madrepatria. In occasione della seconda guerra punica Venosa, come testimonia Livio, fu tra le diciotto colonie che inviarono aiuti ai romani, duramente impegnati contro Annibale proprio nei territori dauni. La città pagò a caro prezzo la sua alleanza con Roma, tanto da vedere il suo territorio devastato e spopolato. Nel 200 a.C, si rese necessario, pertanto, compensare il salasso con un primo ripopolamento (effettuato dai veterani di Scipione) che fu completato alla fine del II secolo, allorché, per effetto della politica graccana la città si assestò per effetto di una più organizzata deduzione di coloni. In occasione della guerra sociale (bellum Marsicum) Venosa, da sempre alleata di Roma, fu l’unica colonia latina a passare dalla parte degli insorti. Tale eccezionale defezione può essere spiegata solo con un rivoluzionamento della situazione interna che avrebbe causato la caduta dell’antico ceto di governo, sostituito al potere da quei gruppi sociali di rango inferiore probabilmente esclusi dai più importanti diritti di cittadinanza che, come in passato non avevano fatto mistero di avere simpatia per Annibale, così ora si schieravano con gli italici sperando di vedere finalmente mutata la loro situazione.Venosa dovette subire la devastazione per il suo tradimento, subendo l’onta della capitolazione dalla truppe di Metello. Sebbene la città fosse stata insieme con Nola l’ultimo baluardo degli insorti, ottenne da Roma il perdono e il diritto di cittadinanza sancito dalla sua qualifica di municipium (3) e dall’appartenenza all’antichissima tribus Horatia, alla quale è iscritto anche il nome del poeta. Tramontata la repubblica e impostosi l’impero, Venosa, forse per aver manifestato idee repubblicane, subì diverse volte un sequestro di terre, finché la sua popolazione definitivamente si assestò per effetto della seconda deduzione triunvirale del 43 a.C.

Fu proprio durante il governo di Ottaviano Augusto, come attesta la complessa documentazione archeologica, che la città, seguendo l’esempio di Roma, proprio nel tempo in cui Orazio visse fu ulteriormente ingrandita ed abbellita di straordinari monumenti (4) pubblici e privati.


La casa di Orazio

Esistono ancora, dove si trovano quelle antiche fabbriche, che cosa oggi resta di quelle splendide costruzioni di marmo che illustrarono, abbellendola la città di Orazio? Sono queste le domande cui cercheremo di dare risposta tracciando le linee di un percorso archeologico attraverso la lettura delle testimonianze antiche attualmente presenti nella città per definire il contesto storico-culturale cui riferire l’opera del poeta. È questa un’analisi che richiederebbe ben altre conoscenze della pura e semplice cognizione dei semplici fatti della storia. Si tratterebbe, oltre all’archeologia, di mettere in moto molte e diverse discipline (economia, sociologia, politica, etnografia, etc.) per dare alla ricerca una maggiore completezza; ma, pur riconoscendo l’importanza di codesti contenuti, non si farà di essi gran conto in queste pagine. Non me ne voglia, inoltre, il lettore se in alcuni casi, mettendo da parte l’abito dello studioso, in assenza concreta di dati storici, ci si affiderà a ricostruzioni personali non propriamente ortodosse o condivisibili proprio nella considerazione del periodo urbanistico oraziano.
Nella prima età imperiale, parallelamente a quanto accaduto a Roma, si attuò un progressivo e straordinario processo di monumentalizzazione anche nella colonia-municipio di Venosa, che iniziatosi nell’ultima fase repubblicana, fu completato nell’età augustea. Si trattò di un forte impulso innovativo che interessò tanto l’edilizia pubblica quanto quella privata che si concretò nelle seguenti realizzazioni: grandi interventi di restauro, come il rifacimento della rete idrica e la costruzione dell’acquedotto, per far fronte all’incremento di popolazione dopo la deduzione coloniale; edificazione ex novo delle Terme principali e del Foro, non sicuramente identificabile nella conformazione attuale della città, del quale si riconoscono tuttavia alcune lastre pavimentali impiegate nella costruzione medievale dell’Incompiuta; incremento dell’edilizia privata, sia quella abitativa, che fu abbellita e divenne più funzionale per il maggiore impegno di spesa dei committenti, sia quella artigianale, in particolare nella zona orientale, dove la traccia di fornaci di laterizi testimonia l’accresciuta richiesta di materiale rispondente all’impulso di un’edilizia innovativa; costruzione dell’Anfiteatro, ancora visibile nella zona orientale della città, che comportò l’azzeramento di un intero quartiere, i cui resti sono ancora visibili sotto i muri della SS. Trinità.

Percorrendo la città moderna, l’immagine che di essa appare agli occhi del visitatore interessato è piena di antiche memorie, anzi, si può dire che non solo l’impianto urbanistico, ma ogni pietra del centro moderno parli un linguaggio antico. Infatti quasi ad ogni passo è possibile imbattersi in iscrizioni, frammenti di colonne, capitelli che indubitabilmente portano il marchio di Roma. Ciò è stato già sottolineato dagli eruditi locali,(5) a partire dal Cappellano che alla fine del Cinquecento nota che a Venosa «non v’è casa che non sia fabbricata sovra edifici antichi», mentre in tempi più recenti non sono mancati di quelli che si lamentano come il Cenna nella sua cronaca, anzi, versa, come lui dice «un lago di lacrime, scorgendo tante belle statue, tante bellissime pietre, tanti superbissimi sepolcri intagliati di varie e diverse scritture (…) spezzate e diminuite che a pena vi si scorgono nelli moderni edifici». Non è agevole, infatti, anche per lo studioso provvisto di sicuro metodo scientifico, che voglia tracciare, attraverso la lettura delle testimonianze archeologiche, un iter di ricostruzione storica dalla fondazione di Venusia fino all’età di Augusto, orientarsi nelle anguste vie del centro tutte disseminate di frammenti romani a causa della complessa stratificazione storica e dell’ampio fenomeno del riuso del materiale archeologico impiegato ampiamente in ogni epoca (è emblematico il caso dell’Incompiuta, cattedrale dinastica, interamente costruita con materiale di spoglio) a partire dal periodo tardo antico, vuoi per la fortunata circostanza di avere a portata di mano manufatti già pronti per l’esclusivo uso edilizio(recupero), vuoi per il prestigio in ogni tempo derivato ai potentati pubblici e privati (6) originato dall’esibizione dell’antico in fabbriche più moderne con finalità ideologiche o propagandistiche (reimpiego) (7).
Volendo, innanzitutto, puntare l’attenzione sui primi due secoli della colonia, anche lo studioso più avveduto si accorge di essere in possesso di dati non molto numerosi, per di più problematici e difficilmente utilizzabili. Si tratta di pochi elementi che a mala pena ci informano sul modello stradale, prima glareato in terra battuta e poi lastricato; sulla natura delle abitazioni private, che passarono dall’uso iniziale di una tecnica elementare all’utilizzazione di materiali migliori messi in opera in modo più scaltrito; sulla canalizzazione e smaltimento delle acque.

Occorre dire che in qualsiasi attività di ricerca oggi non è più possibile fare la storia degli oggetti archeologici, estraendoli semplicemente dal proprio contesto di rinvenimento (nel caso di Venosa, data l’ampia stratificazione storica e la sovrapposizione dei manufatti, l’operazione sarebbe improduttiva e in molti casi è stata addirittura distruttiva), senza tener conto delle complesse relazioni che pur sempre intercorrono fra loro, in quanto ciascun oggetto, racchiudendo un incredibile potenziale di informazioni, è parte integrante di un complesso mosaico storico che aspetta di essere ricostruito e decifrato. Attualmente all’interno del circuito cittadino, senza tener conto della zona orientale lungo l’antica Via Appia,(importante per la presenza di numerose necropoli, monumenti funerari e tracce di tabernae), si riconoscono due ampi ed importanti serbatoi archeologici, complessi per la stratificazione dei manufatti, ma strettamente integrati fra loro e tali da fornire al ricercatore una dovizia di dati molto interessanti: Il Parco Archeologico (la cui principale emergenza monumentale è costituita dalle Terme, databili fra il I e il II secolo d. C.) e il complesso monumentale della SS. Trinità (8) che insieme sono un esempio unico e straordinario di giacimento archeologico non disturbato dall’edilizia moderna.

L’abbazia della SS. Trinità, sulle cui pietre è scolpita molta parte della storia antica di Venosa, è il complesso monumentale della città maggiormente interessato dal fenomeno del reimpiego di manufatti appartenenti all’età romana. Infatti sia all’interno che all’esterno della fabbrica è possibile rinvenire: colonne e capitelli in cipollino, nicchie con ritratti di principi imperiali, epigrafi di diversa provenienza, lastre e blocchi squadrati, protomi leonine e fregi dorici, la cui interpretazione e datazione ci permette di ricostruire faticosamente una significativa ed estesa tranche d’histoire di Venosa antica, compresa nell’arco di tempo che va dalla prima colonizzazione al tardo Medio Evo. Comunque, Dopo le incertezze e le difficoltà di ieri, la ricerca archeologica più recente (9) è approdata a risultati più consistenti soprattutto relativamente alla complessa stratificazione urbana dell’Abbazia, con particolare riferimento alla natura e allo sviluppo dell’edilizia abitativa a partire dalla prima occupazione del sito nella prima fase della colonizzazione fino all’età repubblicana.
Nel complesso abbaziale restano, purtroppo, poche tracce della fase urbana corrispondente al momento oraziano, ma esse non sono meglio e più esattamente documentate nel resto del centro storico, come dimostra l’ identificazione erronea della casa del poeta da parte di studiosi locali, (in particolare il Cappellano e il Cenna) in alcuni edifici, attualmente ancora visibili nell’attuale Piazza Calvino, la cui datazione, tra la fine del I e il II secolo d.C. potrebbe anche coincidere con l’età di Orazio, ma non la destinazione d’uso della fabbrica che fa pensare chiaramente non ad un’abitazione privata, ma ad un edificio pubblico di tipo termale, formato da due vani, uno rettangolare, l’altro di forma ovale nel quale era probabilmente situato il tepidarium.
Per rispondere alla precedente domanda (Che cosa sopravvive a Venosa del tempo di Orazio?) si deve allora concludere amaramente che, a parte le municipalistiche falsificazioni degli eruditi e degli abitanti locali, anche lo studioso moderno è costretto ad ammettere a causa dei segni scarsi e poco evidenti, che non molto sopravvive nei muri e nelle pietre della città che faccia pensare sia al tempo che alla persona di Orazio.

1) Vie larghe che attraversavano tutta la città.
2) Ippodamo di Mileto, architetto attivo ad Atene alla fine del IV secolo a.C., al fine di razionalizzare qualsiasi impianto urbanistico, sostenne l’opportunità di planimetrie regolari anche in presenza di luoghi accidentati o in pendio che potevano comunque essere sistemati a terrazze.
3) Il sistema municipale, che progressivamente venne a sostituire quello coloniale, ebbe inizio nella prima metà del IV secolo, allorché Roma in seguito alla grande estensione dei territori conquistati, non avendo più la possibilità di inviare coloni in luoghi molto lontani, dovette rinunziare all’amministrazione diretta di essi annettendoseli per ragioni militari.Gli abitanti dei municipi(da munus capere)pur continuando a vivere nel loro territorio e godendo di autonomia amministrativa, non solo ricevettero tutti i diritti politici della cittadinanza, garantiti dall’iscrizione ad una delle tribù romane, ma parteciparono altresì agli oneri dello stato.
4) Svetonio nella Vita di Augusto sostiene che Ottaviano rifece Roma col marmo dopo averla trovata di mattoni.
5) L’opera degli studiosi venosini, che nel corso dei secoli si è tradotta in scritti di contenuto storico-archeologico, pur non avendo un assoluto valore scientifico, è in alcuni casi molto importante, soprattutto quando essi ci forniscono notizie dettagliate intorno all’ubicazione e alle caratteristiche di monumenti antichi che purtroppo non esistono più.
6) L’esempio più consistente di utilizzazione privata è quella di un Telamone in calcare, raffigurante Atlante, ben visibile in un portichetto medievale all’interno del Palazzo Dardes, l’unico elemento sopravvissuto di un edificio per spettacoli, forse un Odeon, che non trova altri riscontri nella città.
7) L’argomento è stato di recente oggetto di studio da parte di Luigi Todisco che, accanto all’uso strumentale effettuato in ogni epoca del materiale archeologico, ha sottolineato la riutilizzazione dello stesso per ragioni politico-religiose da parte dei Normanni e dei Benedettini a partire dal XII secolo, per sottolineare, gli uni, il prevalere della religione cattolica sulle altre religioni, gli altri per rinsaldare il loro potere attraverso l’esibizione nei loro palazzi di spolia di provenienza romana.
8) Il complesso abbaziale della Trinità, che si colloca all’interno del circuito difensivo di età romana, edificato su commissione degli Altavilla nel XV secolo si articola in tre parti: la Chiesa Vecchia , ridisegnata sulla pianta di una precedente basilica paleocristiana; la Chiesa Nuova, conosciuta col nome l’Incompiuta, perché, pur iniziata nel XII secolo, non è stata mai finita, di essa infatti sopravvivono solo colonne e pilastri; la Sede Abbaziale che conserva una cappella a cupola costruita con grandi massi e che alcuni studiosi, a causa dello stile che ricalca modelli francesi, fanno risalire ai Normanni o all’opera dei Benedettini.
9) Dalle campagne di scavo promosse dal Prof. Adamasteanu, in concomitanza con l’istituzione della Sovrintendenza Archeologica della Basilicata, è iniziata una serie di ricerche culminate nelle iniziative del Bimillenario della morte di Orazio, che , dopo i dubbi e le incertezze del passato e correggendo anche molti errori, ha indirizzato gli studi in una direzione più risolutamente scientifica, che ha consentito di giungere a risultati di altissimo valore per l’impegno comune di un numero sempre più consistenti di studiosi che hanno scelto di interessarsi del comprensorio melfese-venosino.
 


 
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Andrea Carbonari
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DELLE DECISIONI PERSE
(del giullare immemori destini)
 
Né forse più ritroveremo
quei giorni delle decisioni perse
mai prese quando le luci terse
di luminose primavere sospese
lampi irradiavano di sorprese
tese come tante frecce
a noi che ignari e anche felici
di quel che si era all' impalpabile momento
sordi agli alti sparsi auspici
passammo oltre aprendo al baratro un tormento
senza saperne, quasi beatamente
lasciando la rotta a qualche altra mente,
mentre curvando la dirittura al niente
di quel che si poteva essere ma non si è
s' infranse l'onda in assenze
d'un suono, un volto, una storia che non c'è
se non, forse, nei passi d'altra gente
che quelle vie da noi lasciate ha immerse
in binari di stazioni inferne
rimpiangendo poi di non aver fatto le nostre scelte
mentre noi alle loro guardiamo inutilmente.

O magari tutte ce le rivedremo accanto
al di là dell' attesa e del pianto
in canti non dischiusi
sogni accennati e appesi
come prigioni al discender levriero
senza poterne leggere il volto vero
accecati, come saremo, dal mistero.
 


 
rammemorare/dismemorare 
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Mario Amato
[ marius2550@yahoo.it ]
 
FRAMMENTI
 
Questi scritti sono frammenti di memorie, che dopo molti anni sono riemersi, certamente del tutto mutati, perché è mutato il soggetto che visse quelle emozioni.
Questi frammenti di memorie sono scritti soprattutto per gli amici, perché con gli amici ci si confida e spesso all’amico più caro si confessa anche l’inconfessabile, nascosto nelle pieghe interiori di ciò che chiamiamo anima.
Sono piccoli ricordi nati forse dal desiderio di viaggiare ancora, proprio quando malanni fisici lo impediscono, dalla voglia di tornare ad essere un viandante senza meta e senza orari, dalla vaghezza che si prova dinanzi ad un orizzonte, alla curva di una strada, all’ansa di un fiume che nascondono una nuova realtà, dall’eco di una lingua straniera che pure sembrava natia, dalla memoria di un sorriso che mai più si rivedrà. O forse queste reminiscenze sono scaturite semplicemente dal desiderio di parlare con un amico, che sta a sentire anche quando il discorso può diventare noioso e ripetitivo, ma l’amico è uno che ha pazienza, perché non può esistere amore senza pazienza.
Vi sono salti spaziali e temporali in questo viaggio mnemonico, perché un ricordo ne chiama altri, così come il viandante ama le soste e le deviazioni casuali, causate dalla stanchezza del cammino, dalla paura dell’ignoto, da un incontro, da un luogo affascinante, da una musica o da un nuovo profumo. Il viandante non si pone mai una meta, è il cammino che lo incanta. Scrive Eli Wiesel ne “Le porte della foresta” “Quando ero giovane conoscevo la meta e non il cammino, ora è esattamente il contrario”. In realtà anche il cammino resta sempre sconosciuto, anche dopo molti anni, perché se si scrivesse mille volte lo stesso viaggio esso cambierebbe mille volte.


GUGLIE (Agosto 1971)

Mi imbarco a Napoli sul transatlantico “Leonardo Da Vinci” che fra poco salperà verso New York.
Mia madre non riusciva a trattenere le lacrime, sebbene io mi imbarcassi come turista, ma ella ha nel cuore altre partenze: uno zio, al quale ora accudisce amorevolmente, avventuratosi nell’Oceano nel lontano 1920. Mia madre, allora bambina, piangeva. L’America! La terra promessa di tutti i diseredati, i traditi, i sognatori, i poveri del primo Novecento, ma anche terra di lacrime e di sangue, del sangue innocente dei nativi del continente americano, degli uomini di colore catturati in Africa e resi schiavi nelle ville di coloro che si vantavano della Costituzione e della democrazia, del sangue e delle lacrime di coloro che furono sconfitti dal sogno americano, delle lacrime e del sangue non raccontato da nessun film e da pochi libri, forse solo dai racconti e dal romanzo “Chiedi alla polvere” di John Fante. Lo zio di mia madre tornò dall’America, dal quartiere nero di Detroit, povero, ma non sconfitto; non era partito con il sogno americano nel cuore, ma soltanto per vivere con dignità, per non morire di fame. Altre lacrime versò mia madre su quel molo alla partenza del fratello diretto non negli Stati Uniti, ma in Canada. Mio zio, come si dice, “ce la fece”; trovò un posto di lavoro, generò insieme alla sua amata moglie tre figli ed imparò l’inglese.
Durante il viaggio spesso ci si annoia, ma lo spettacolo del mare aperto incanta e impaurisce. Si comprende qui, nel mare aperto e vasto, perché “Moby Dick” sia sempre affascinante anche alla quinta o alla nona lettura. E si comprende anche come i Greci abbiano creato una grande letteratura dinanzi allo spettacolo sempre uguale del mare. Il mare tuttavia genera paura ed induce a fantasticare mostri come il grande Leviatano. È una sfida perenne come quella di Capitan Achab o dell’Ulisse dantesco.
Dopo sei giorni di piacevole viaggio l’altoparlante annuncia che all’alba entreremo nel mare di New York.
Insieme ad alcuni compagni di viaggio aspetterò sveglio. La notte trascorre piacevolmente tra chiacchiere e giochi. Compagni di viaggio che mai più rivedrò; tutti lo sappiamo, ma ci scambiamo egualmente gli indirizzi. Vite che si sono incrociate per un periodo brevissimo, un frammento di esistenza per ognuno. Fra la nebbia appaiono le prime lontane luci di New York e poi intravediamo le punte dei grattacieli. Sembrano guglie di una gigantesca cattedrale, ma anche una nuova torre di Babele, una nuova moderna sfida. Rainer Maria Rilke affermava che le torri appuntite delle cattedrali nordiche gli apparivano come lance puntate verso Dio. Eppure questa visione è affascinante ed in fondo New York è davvero una nuova Babele.
Approdiamo nel nuovo mondo; la mattina trascorre banalmente sul porto infuocato di sole e di umidità; terminate le operazioni burocratiche e i saluti ai compagni di viaggio parto con mio zio alla volta del Canada. Un viaggio lungo in auto.
Qualcosa mi sorprende: la campagna americana è ordinata, coltivata alla perfezione, ma si vedono poche case. Mio zio spiega che qui si irriga con gli aerei. I campi di grano sono vastissimi. Pianure scorrono dinanzi ai miei occhi e mi addormento pensando ai film western, agli indiani d’America…
Indiani d’America! Ora sono nell’Alberta, fredda regione del Nord del Canada dove mia cugina insegna l’inglese ed il francese ai pellerossa, forse Crew o Manitoba, non ricordo. Parlo con uno di loro; è un uomo alto, robusto, con un nome appropriato: “Montagna che cammina”. È una conversazione difficile, con il mio inglese scolastico, ma mi colpiscono i suoi occhi tristi, gli occhi di un uomo che sente la sconfitta dei suoi avi. Mi mostra un dollaro e comprendo poche parole: il denaro per lui non ha alcun valore, è cresciuto con altri valori, quelli di un mondo che non esiste più, che vive soltanto nelle storie che ha ascoltato dai suoi nonni. Mentre parla un aereo sfreccia in alto e mi viene in mente l’espressione udita nei film western. Spero che “le praterie del cielo” non vengano invase.


ALTRE GUGLIE (FÜSSEN 1979, ottobre)

Il castello di Neuschwanstein si erge bianco e austero su questa cittadina tranquilla. Mi sveglio all’alba, piove copiosamente ma la decisione di visitare il castello è presa. La mia amica ed io siamo in anticipo alla fermata dell’autobus che deve condurci fino al maniero. Decidiamo di andare a piedi, stretti sotto un ombrello bianco e rosso, i colori della Baviera. Anche le fantasie degli ombrelli aiutano a non intristirsi nei giorni grigi.
È una bella passeggiata, non troppo faticosa. Entriamo da uno stretto portone. La guida ci illustra tutte le sale, racconta la storia di Ludwig II, che Heinrich Mann chiamerà “cigno”. A questo castello Walt Disney si ispirò per il cartone “Biancaneve”, ma oggi il maniero, avvolto nel grigio e in una fitta bianca nebbia, dona ai visitatori la sua vera anima, quella di un sogno mancato, della speranza mancata di trasformare la vita in una fiaba, perfino di notte, quando si dorme, quando non si è responsabili dei sogni. Borges dice che la letteratura è un grande sogno, ma la differenza è che chi scrive è responsabile: nel racconto “Sud” un uomo scende dal treno in una stazione deserta nella Pampa; mangia nel ristorante della stazione, dove ad un altro tavolo siedono quattro individui che giocano a carte ed iniziano a canzonarlo. L’uomo comprende che dovrà combattere un duello rusticano con uno dei quattro avventori e che inevitabilmente morirà, ma pure pensa che forse è un sogno e che si sveglierà e si salverà. La letteratura propone sempre un’alternativa, la vita soltanto qualche volta.
Non fu un sogno la vita di Ludwig II, nonostante il tetto del baldacchino del letto, con le sue piccole guglie a somiglianza di quelle di una cattedrale gotica.


RICONCILIAZIONE, (Heidelberg 1979)

A Heidelberg sono a casa! Questa cittadina è il mio sogno, il mio luogo delle fiabe. Qui, una notte, sulla riva del Neckar scrissi la mia prima fiaba, qui compresi che la scrittura era una parte della mia vita, non certo che fossi uno scrittore. Si racconta per amore di raccontare. Qui ogni volta che attraversavo il Ponte Vecchio recitavo tacitamente i versi di Hölderlin dedicati a Heidelberg “A lungo ti ho amato, te la più paesana di quante vidi città della patria”, e “Sul ponte mi prese l’incanto nell’ora che ci passavo”. Ogni volta che percorrevo all’alba sul ponte con la bicicletta, portando il pane caldo ai ristoranti, sul fiume, proprio là sotto, una chiatta traversava diretta a Stoccarda ed un uomo, di cui ancora non conoscevo il nome, ma che sapevo avventore della birreria in cui lavoravo come cameriere, gridava “Mario, wo fährst du hin?“ ed io rispondevo augurandogli il buon giorno. Era un segno di grande amicizia quel grido all’alba, quel volere informarsi del mio destino quotidiano, anche se quel marinaio di fiume non aspettava la risposta. Mi portò poi fino a Stoccarda con la chiatta, uno dei più bei doni che abbia mai ricevuto, sul fiume che fluisce tra colli coltivati a vigneti.
Il mio destino quotidiano era sferragliare con la vecchia pesante bicicletta tra i vicoli della cittadina, assaporare gli odori che cambiano a seconda dell’ora: il profumo di pane all’alba, lo stesso profumo delle mani delle donne di molto tempo fa’ del mio paese, delle mani di mia madre, l’odore di dolci al mattino, quando i negozi aprono, l’aroma acre delle senape nel meriggio, l’effluvio pungente dell’alcol a sera. Heidelberg cambia non solo a seconda della luce del sole, ma anche per gli odori diversi che si insinuano fra gli stretti vicoli.
Un odore forte è quello della zuppa di cipolle. Se avete percorso quaranta chilometri a piedi, da Heidelberg ad un’altra cittadina vicina e ritorno, seguendo il fiume, fermatevi in una birreria vicino al Ponte Vecchio ed ordinate la zuppa di cipolle.
Avevo camminato per quaranta chilometri, recandomi a Mannheim e tornando all’imbrunire a Heidelberg; sedetti, spossato per il cammino ma felice, in una birreria contemplando il fiume, ascoltando il brusio dell’ora. Chiesi al cameriere- un collega a quei tempi – quale piatto si potesse ordinare e la mia delusione fu grande ascoltando che l’unica pietanza pronta era la zuppa di cipolle. Proprio in quel momento però un altro cameriere serviva tale zuppa al tavolo vicino dove sedevano due coppie. Dalla zuppiera mi giunse un aroma che acuì il mio appetito, per la qual cosa ordinai a malincuore quel piatto. Mentre aspettavo sorseggiavo una buona e amara birra – “e della birra mi godo l’amaro” recita un verso di Umberto Saba – mi fu servita la zuppa. Ed era una zuppiera per quattro! Le cipolle erano solo la base del piatto, perché esso era arricchito con piselli, fagioli, lenticchie ed erbe di montagna, più pane nero abbrustolito e carne di maiale cotta alla brace e ripassata in vino Riesling, tipico della zona. Inutile dire che lasciai pulita la zuppiera.
Ci si può riconciliare con le persone, con la vita, con se stessi, ma anche con un cibo…
Sono tornato a Heidelberg nel 2003, non più studente e non più giovane, ma da insegnante con alcune mie scolaresche. La maggior parte delle ragazze ha passeggiato nella strada principale fra i negozi, ma con alcune colleghe e poche fanciulle saliamo l’erta che conduce al Castello. È una salita faticosa ora a causa dell’età e di acciacchi fisici, ma è pure sempre affascinante e da lassù si ha una visione spettacolare della cittadina. Racconto alle mie alunne la storia della riconciliazione con le cipolle, ma non possiamo fermarci perché l’autobus ci attende. Da quassù posso salutare la mia cittadina, come si saluta un’amante…


LA PARTITA SPEZZATA (Verdun 2003)

A coloro che si recano a Verdun, teatro della battaglia più sanguinosa della prima guerra mondiale, appaiono dapprima distese di erba che non fanno sospettare la tragedia svoltasi in questi luoghi, anzi le tragedie, perché ogni soldato morto in guerra è una tragedia, maggiormente quando non si comprende la ragione della guerra. Stephan Zweig scrive ne “Il mondo di ieri” che se si cercasse la vera ragione del primo conflitto mondiale nessuno riuscirebbe a trovarla e Benedetto Croce, alla fine della guerra, si chiedeva per che cosa si dovesse far festa: gli amici sono morti – diceva – imperi che furono forieri di civiltà per il mondo sono svaniti.
Il silenzio avvolge Verdun. Dopo i prati verdi iniziano campi colmi di croci, a perdita d’occhio. Scendiamo dall’autobus e ci avventuriamo tra le trincee; c’è dapprima il mormorio dei ragazzi, che man mano che si procede diviene sempre più sommesso, poi tutti tacciono. Il silenzio, in un luogo che fu rumoroso di granate e di fucili, penetra anche nei visitatori. Anche nel museo è silenzio, si parla sottovoce. Il museo è stato costruito su una trincea, che ora è secca, ma si può immaginare il fango, il fetore dei cadaveri, il freddo. Tra le armi esposte nelle vetrina c’è una piccola scacchiera spezzata in due da una granata. Chissà se quei due soldati hanno mai finito la loro partita, iniziata quasi sicuramente durante una pausa della battaglia; per qualche ora quei due militi avevano dimenticato di essere in guerra, di essere vicini alla morte; chissà se esiste un luogo nell’aldilà dove poter giocare a scacchi e dimenticare per qualche ora le tragedie del mondo…


LA PORTA CHE NON SEPARA (Metz 2003)

Quando si traversa la frontiera tra Stati Uniti e Canada si cambia nazione, si cambia atmosfera, sebbene la lingua sia la stessa, i negozi abbiano la stessa merce, i ristoranti abbiano gli stessi odori. A Metz c’è una porta che durante i secoli è passata dalla Germania alla Francia e viceversa innumerevoli volte. Ora è solo un monumento. Qui si attraversa la frontiera e muta la lingua, gli odori sono altri, l’aria è completamente diversa, anche se la distanza è di pochi chilometri. Ora l’Europa ha abbandonato gli odii tra i popoli, ma esiste sempre un senso di appartenenza. Certamente le guerre tra Francia e Germania sono state molte, ma se si scorre l’elenco telefonico di Metz si trovano cognomi tedeschi, e se si scorre l’elenco telefonico di Kehl, piccolo paese tedesco sul Reno, si trovano cognomi francesi. Tedeschi e francesi si sono sposati tra loro durante i secoli, nonostante le guerre, e la porta, orgoglio ora di una nazione ora di un’altra, non ha separato.


MAGGIO 2010

È una bella mattina assolata. Non ho voglia di leggere, né di scrivere. Cosa fare? Trascorrere il giorno in casa? No! Un viaggio, anche piccolo. Frugo tra ricordi letterari; vicino a casa, lungo la strada, c’è una grotta scavata nella roccia dove è stata collocata una statua della Madonna. Echeggiano nella mia mente i versi di Iacopone da Todi: “Madonna de Paradiso / lo tuo figlio è priso”.
Si riaffacciano alla memoria le lezioni del mio professore di italiano nel Liceo pre-sessantotto, noiose e pedanti. Che ne sapevamo noi di quei luoghi? di Todi? di Assisi? della Firenze di Dante e Petrarca? La letteratura non è forse immaginazione? Avremmo amato molto di più quelle pagine, che pure sono entrate nell’anima, se l’insegnante ci avesse mostrato dei poster di quelle città e ci avesse chiesto di immaginare una passione vivente per le vie di Todi o di Assisi ai tempi di Jacopone e di San Francesco o se, spiegandoci il Canto V dell’inferno, ci avesse fatto vedere le stanze del castello di Gradara, dove Francesca si recava nella stanza di Paolo, attenta probabilmente a non far udire i suoi passi.
È subito deciso: parto insieme alla mia badante ucraina, Anna, che di viaggi ben se ne intende, alla volta di Todi.
Giungiamo dopo mezzogiorno: le mura che cingono la città sono di per sé uno spettacolo. Entriamo in città da Porta Romana e cominciamo a salire la ripida salita che conduce fino alla piazza della cattedrale, ma abbiamo fame e gli odori che giungono dalle locande acuiscono l’appetito.
Decidiamo di rimandare la visita al pomeriggio, ma intanto camminiamo e pensiamo ai tempi di Jacopone, alle passioni viventi che sono state rappresentate in questa strada, forse più scoscesa dello stesso calvario. Camminiamo tra la storia; i palazzi sono antichi.
Entriamo in un piccolo ristorante. Lo stomaco ha le sue esigenze, anche se si è dentro la storia. Il menù ha una bellissima introduzione: un benvenuto e un ringraziamento ai clienti per aver scelto questo locale a conduzione familiare. Mi sembra un atto di gentilezza e civiltà. L’educazione è fatta di piccoli gesti; ed anche la civiltà! La proprietaria pone subito il cestino di pane sul tavolo, pane umbro senza sale. Spiego ad Anna che l’origine del pane senza sale nell’Umbria e nelle Marche risiede in un rincaro dell’aumento della tassa sul sale posto dallo Stato Pontificio, in seguito al quale i fornai decisero di cuocere il pane senza il prezioso alimento. Aggiungo che in un verso della Divina Commedia Dante dice
Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e 'l salir per l'altrui scale”.
Non conosco tuttavia la ragione dell’usanza toscana di cuocere il pane senza sale. Mi viene in mente che tutti coloro che per una ragione o l’altra lasciano la propria terra possono comprendere pienamente questi versi danteschi. Ho mancato di tatto.
Il pranzo è terminato ed ora dobbiamo immergerci ancora una volta nella storia. Non saliamo da questa strada, ma dal Porta Nova, dove un ascensore ci porta fino al centro della città. Dalle ampie vetrate si può ammirare la campagna ricca di oliveti e vigneti.
Passeggiamo ancora per un po’ tra le antiche strade, nella storia.
Avremo un bel ricordo e qualcosa da raccontare …


RECANATI (2001 forse)

La letteratura è fatta anche di luoghi.
Il luogo natio non è sempre grato, come non lo fu Firenze con Dante e Recanati con Giacomo Leopardi, eppure nei riferimenti che troviamo nei “Canti” traspare un amore infinito per questo paese, che sorge arroccato su un alto colle e dove ora ogni via, ogni locanda è dedicata al grande letterato.
Il suono che proveniva dalla torre del borgo evocava ricordi in Giacomo e c’erano gli odorosi colli, la finestra di Nerina, il mare lontano e i monti e il verso della rana remota alla campagna!
C’era anche il “Natio borgo selvaggio, intra una gente Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso Argomento di riso e di trastullo …
È tuttavia necessario non confondere questa gente zotica con i concittadini di Leopardi, ma comprendere che l’obiettivo polemico del poeta erano gli intellettuali cattolici di Recanati. La cittadina era allora alla periferia dello Stato Pontificio e certamente un uomo che affermava l’inesistenza di Dio e del mondo ultraterreno dava scandalo.
Ed ancor più se si pensa all’immagine delle madri che il cattolicesimo veicolava, rifacendosi alla Madonna, mentre Leopardi lottava contro la sua di madre, la quale pregava per la morte dei figli quando essi si ammalavano, perché l’infermità le pareva un segno della predilezione di Dio. Leopardi al contrario esaltava il piacere: “Al mondo” egli scrive “piace ridere, non già di piangere”. Poteva la Chiesa Cattolica apprezzare uno scrittore che scrive di Roma che “puzza di sacrestia”?
Visitando casa Leopardi, soprattutto la famosa biblioteca, dove Giacomo fanciullo trascorse i celebri sette anni di studio matto e disperatissimo, si è spinti ad immaginare il futuro grande poeta seduto alla scrivania, che di tanto in tanto interrompe lo studio e volge lo sguardo alla finestra o tende l’orecchio ai suoni che provengono dal piccolo mondo di Recanati. Dalla finestra o dalla loggia egli guardava i monti e s’immaginava un giorno di varcarli, dalla loggia ascoltava il canto di Silvia, il fischiettio dello zappatore, i bambini che facevano un lieto romore, il verso delle galline dopo la tempesta.
E tutto confluì nella sua poesia. E li varcò quei monti il Leopardi, coraggiosamente, poiché se fosse rimasto a Recanati, sarebbe pur stato sempre il Conte Leopardi, ma non poteva, perché le ragioni, le sue ragioni urgevano dentro. Quest’uomo, tra i più grandi, che l’Italia ha avuto, fu incompreso per molto tempo, anche dopo la morte, quella morte che a lui sembrava un’ingiustizia. Lontano da Recanati la sua visione del mondo si fa più cruda ed a poco a poco scompaiono i rumori che evocavano in lui, ed evocano ora in noi, dolcezza e amore per la vita. Rumori, odori semplici; non a caso sarà uno dei poeti più amati da Umberto Saba, che nel Novecento valorizzerà ogni aspetto della vita, sebbene la filosofia di Leopardi sia tutt’altro che semplice.
È dono dei grandi saper parlare ai cuori semplici e agli intellettuali allo stesso tempo.
La visita a casa Leopardi è terminata; scendiamo le scale, insegnanti e studenti, convinti di aver arricchito le nostre anime. Dal terzo piano, abitato ancor ora, scendono tre membri della famiglia Leopardi. Un ragazzo mi dice sottovoce che deve essere difficile portare quel nome.

Recanati ospita una mostra dei pittori sacri delle Marche. Abbiamo camminato molto per le vie di Recanati ed i ragazzi sono stanchi. Fatico a convincerli ad entrare, ma finalmente accettano.
Abbiamo un’ottima guida: l’ultimo capolavoro che ammiriamo è l’Annunciazione di Lorenzo Lotto (1527 ). Maria è di spalle all’angelo che ha sì i capelli ricci e biondi, come voleva lo stereotipo rinascimentale, ma non ha il volto sereno, così come in alto il volto di Dio è severo, perché sa che sta chiedendo un grande sacrificio. Maria sembra spaventata. Nel dipinto è ancora riconoscibile la presenza della coscienza del terrore del metafisico.
Penso alla seconda elegia duinese di Rainer Maria Rilke che si apre con i versi “Ogni angelo è terribile”. La clessidra in fondo, vicino alla parete sta a significare la storicità di Cristo.
Giunge il suono del clacson del pullmann che si mescola a tocchi di campana, forse della torre del borgo: Viene il vento recita con un sorriso una ragazza …
 


 
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Mario Amato
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ALTRI FRAMMENTI
 
Heidelberg 3 aprile 2007

Pochi giorni non bastano forse per scrivere impressioni di viaggio, eppure esistono momenti in cui l'animo non riesce a tacere. Forse è ancora una volta questa cittadina alla quale Hölderlin dedicò una delle sue liriche. Strana vicenda quella del poeta svevo: molte delle sue poesie parlano di monti, fiumi, vigneti e, come ha scritto Romano Guarini[1] il grande lirico aveva un rapporto mitico con la natura, una conoscenza di essa che coinvolgeva l'intera esistenza. Hölderlin però si chiuse per quindici anni in una torre in completa solitudine.
Tutti i suoi lettori, credo, si chiedono come potesse dal suo eremo solitario scrivere del Danubio, del Reno, delle stagioni, di Heidelberg e dell'incanto che provò sul ponte vecchio "nell'ora che ci passava"[2]
Lo stesso incanto ho provato -- condiviso con le amiche che mi accompagnano -- ancora una volta questa mattina guardando dal ponte il castello ed ascoltando il mormorio del fiume.
Si può quindi non essere d'accordo con il titolo del libro racconti di Heinrich Böll "Vai troppo spesso a Heidelberg".
Su una riva del Neckar scrissi la mia prima fiaba ed è certamente strano aver trovato soggiorno in una antica locanda che ha per nome un personaggio di una fiaba dei fratelli Grimm, dedicata ad una moglie incontentabile. Ogni camera inoltre è contrassegnata non con un numero, bensì con il nome dello scrittore che vi ha per qualche tempo sostato. Ne nomino qualcuno qui di sfuggita: Goethe, Hölderlin naturalmente, G. Keller, Turgeniew, Hugo, C. Zuckmayer, F. Schiller ed altri. Fra gli ospiti fu anche l'imperatrice d'Austria-Ungheria Elisabetta, la cui sfortunata vicenda è stata raccontata da tanta cinematografia.
Heidelberg ci ha accolto con la sua vocazione fiabesca, ma come il libro di Heine "Deutschland, ein Wintermärchen" ("Germania, una fiaba invernale") non è affatto una fiaba, bensì un poemetto polemico contro l'intimismo all'ombra del potere, così la bella cittadina nasconde una contraddizione: questo è il luogo dove nacque Joahnn Faust, la cui leggenda ha ispirato poeti e musicisti ed ha influenzato molta cultura europea.
Heidelberg è anche la città universitaria più prestigiosa della Germania, dove hanno studiato e/o insegnato molti filosofi ed una via, dall'altra parte della città vecchia è stata chiamata "Philosophenweg" (la via dei filosofi), meta in quest'ora di una delle mie due amiche; l'altra si è persa tra turisti e studenti nella Hauptstraße.
Io ascolto il mormorio del Neckar e ...l'incanto e scrivo, perché forse non vengo troppo spesso a Heidelberg.



3 aprile 2007, h 22 circa

Perché mi sei entrata nel cuore,
vecchia Heidelberg?
Fu forse il verso del poeta
Amato
Mille volte in silenzio nel cuore
Recitato
Nelle mie ore che anch'io sul ponte
Passai
Fu forse l'odore delle pagine ingiallite
Nelle vecchie librerie
Dei tuoi vicoli angusti
Fu forse il sorriso delle fanciulle amate
Dimenticate nella prosa delle vita
Rammentate poi senza rimpianto...

Fu forse la giovinezza...
E la nostalgia...



5 aprile 2007

Perché ritornare?
Su sentieri già percorsi
Strade un tempo lontano
Calpestate
Vicoli noti traversati
In altra età
Sentire gli stessi aromi
Fermarsi a guardare
Ancora e ancora
I riflessi delle prime luci
Serali
Giocare nelle acque del fiume
Del tuo fiume
Del mio fiume
Heidelberg

Ascolta
Noi siamo le parole che abbiamo detto
Le vie conosciute
Raccogliamo ricordi, passioni, gioie, tormenti
Affascinati
Come i bambini felici raccolgono conchiglie
Noi siamo i sogni immaginati
Ad occhi schiusi
In una sera colorata dal tramonto
Noi siamo i sogni ancora a venire...


5 aprile '07

Abbiamo progettato di salire al castello. Dalle ampie finestre dell'albergo entra un sole luminoso e caldo.
Trovo la mia amica ucraina intenta in una conversazione in russo con una donna polacca. Ella ha studiato lingua tedesca nella scuola in Kazakistan ai tempi dell'Unione Sovietica.
Questo intrecciarsi di lingue, di esperienze comuni e diverse al tempo stesso è meraviglioso. Così possiamo veramente costruire l'Europa. Viaggiare è mescolarsi con altre vite, altre abitudini, parlare una lingua diversa dalla propria e comprendersi. Sui libri la Storia è fatta da grandi personaggi, ma esiste un'altra storia, quella degli uomini il cui nome non sarà scritto, ma che forse più delle grande figure contribuiscono alla costruzione di una civiltà condivisa.
La Polonia è entrata a far parte dell'Europa, l'Ucraina -- o almeno una parte di essa -- vi aspira.
Siamo europei, ma per sentirlo bisogna viaggiare, sedersi accanto a chi si esprime in un idioma diverso, scambiare opinioni, punti di vista, bere con il nostro vicino o la nostra vicina occasionale un bicchiere di vino.
A proposito di grandi personaggi ieri in una libreria ho chiesto alla commessa il nome dei principi di Heidelberg. Mi ha risposto "Karl Theodor", ma che non sapeva a quale dinastia appartenessero, perché lei è originaria di Stoccarda. "Karl Theodor", principe del Palatinato e Grande Elettore, appartenente alla famiglia Wittelsbachs, governò dal tredicesimo secolo, quando il Palatinato si staccò dal regno di Baviera.
A quel tempo il castello era di legno e solo durante i secoli si è trasformato nel maniero di pietra, che Hölderlin definisce gigantesco. Di legno è ovviamente la botte più grande del mondo, piena di ottimo vino Riesling, che si produce nelle colline della valle del Neckar.
Saliamo dunque al castello, i giovani a piedi, la mia amica ucraina ed io con il Bergbahn, la ferrovia montana scavata nel passaggio segreto, che doveva essere la via di fuga dei regnanti. La ferrovia ed il treno sono provvisti di strutture per diversamene abili, il convoglio è puntuale, l'organizzazione perfetta. Organizzazione perfetta, puntualità, eppure non riesco a ricordare una guerra vinta dalla Germania. Per fortuna!
Visitiamo il museo della farmacia, un percorso affascinante attraverso i medicamenti inventati dall'uomo per lenire i dolori. Non dimentichiamo però che anche Joahnn Faust era medico, nato qui a Heidelberg nel 1500.
Giriamo per l'intero castello, infine ci affacciamo sull'enorme balcone ed ammiriamo la cittadina attraversata dal Neckar, i vigneti sui pendii, e --espressione di Hölderlin--i vicoli felici...

[1] Guarini, Romano, Hölderlin, Morcellania
[2] La poesia "Heidelberg" è stata scritta prima del ritiro nella torre
 


 
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ALTRI FRAMMENTI
 
Budapest 1986

Arriviamo a Budapest in un caldo giorno d’Agosto e la città è affollata. Siamo capitati nella giornata durante la quale si festeggia Santo Stefano d’Ungheria ed anche i cinquant’anni dalla fondazione del Partito Comunista; inoltre la città ospita un congresso di ottomila medici da tutto il mondo. È difficile anche camminare, ma risuonano lingue diverse, forse come ai tempi dell’Impero che Sissi rese duplice, aggiungendo l’Ungheria.
Nei ristoranti le cameriere indossano i costumi tipici e non ci si può liberare dalla musica dei violini gitani, ma c’è un’aria festosa in ogni strada. Eppure Budapest visse la prima rivolta contro il predominio russo nell’Unione Sovietica.
“Varcare le frontiere è il nirvana” scriveva Hermann Hesse. Dovunque si vada in Europa si sente pur sempre di appartenere ad una cultura comune, nonostante le lingue diverse, nonostante o forse per le antiche guerre, ma la vera frontiera si varcava soltanto nella Mitteleuropea, quando si entrava in Ungheria. È la porta dell’Oriente, ma di un Oriente che non si trova in nessuna cartolina o canto, perché nessuno conosce le origini di questo popolo e ancor meno della lingua magiara. È la terra di Attila, del quale i libri di scuola scrivevano “dove passava non cresceva più l’erba”, ma che il Nibelungenlied (il canto dei Nibelunghi) descrive come magnanimo signore. L’Ungheria è stata fascista e comunista, è centro e oriente d’Europa, è la terra della aristocratica e difficile musica di Franz Lizst e della musica popolare dei violini e delle fisarmonica che risuona nelle strade e nelle taverne, è la terra dello spirito di rivolta del 1848, uno spirito indomabile che solo la femminilità di Sissi vinse, ed è la terra della prima ribellione al dispotismo russo nell’Unione Sovietica. È terra piena di contraddizioni, come ogni grande terra e ogni grande popolo. Chi visita Budapest non potrà dimenticarla, come non dimenticherà il sapore forte della paprika nell’ottimo gulasc e la morbidezza del vino Tocai.


Montecassino 2004
MEMORIE DI MEMORIE

I ragazzi tedeschi hanno ricambiato la visita: li conduciamo a Montecassino, in verità soprattutto per volere dei loro insegnanti. Montecassino ha una infinità di significati per i tedeschi: qui si è consumata una delle più terribili e forse inutili battaglie della seconda guerra mondiale. Per me ha un significato del tutto diverso.
La guida, una bella ragazza che parla un ottimo tedesco, ci conduce in un sotterraneo attraverso una stretta e buia scala e ci mostra una roccia sulla quale si sarebbe seduto San Benedetto e avrebbe lasciato la sua forma; la ragazza ci indica ancora il luogo dove San Benedetto si inginocchiava a pregare. La memoria corre a mio padre, che raccontava i tempi in cui i monaci conducevano gli studenti a pregare in quel luogo oscuro alle ore quattro della mattina. Non era un ricordo piacevole per mio padre, che mai più volle mettere piede sul famoso monte, forse generatore di una parte della cultura europea, custode certamente di tesori bibliografici e artistici, nascosti ai visitatori.
La visita continua nelle parti più alte del monastero, ma io resto ai piedi della scalinata, un po’ perché ho già visitato molte volte Montecassino, un po’ perché voglio restare solo con le mie memorie, anzi con le memorie familiari, con quelle di mio padre, costretto ad indossare la camicia nera per gli esami di maturità, indumento che immediatamente dopo la prova gettò nella tazza del gabinetto. Chissà, da qualche parte sotto il monte quella camicia conserva la memoria di quel gesto di sfida! E poi per mio padre ci fu l’Africa da tenente medico e l’Australia come prigioniero di guerra, una terra lontana che non dimenticò mai, come non dimenticò la fidanzata, sfollata durante i bombardamenti della battaglia di Montecassino a Firenze. Montecassino non è un luogo lieto per chi è nato nelle vicinanze. Esistono memorie personali e memorie familiari, che s’intrecciano con quelle collettive, ma tutte hanno a che fare con il destino individuale nella storia.
Dal loggione si vede una vigna ordinata, ben curata, che parla di ore laboriose e tranquille. Il monastero, costruito così in alto, voleva forse essere un’oasi di pace, un luogo di raccoglimento, ma udì invece bombe e cannonate, a testimonianza che la follia umana della guerra giunge ovunque.


Montepulciano (Agosto …?)
LE CANTINE DI MONTEPULCIANO


Vigneti isolati nella Val d’Orcia che conduce ai piedi di Montepulciano, patria di uno degli scrittori più eclettici della letteratura italiana. Il suo “Morgante” è una inesauribile fonte di divertimento, ma Angelo Ambrogini, detto il Poliziano, era maestro anche nel tono elegiaco, come mostra la sua “Fabula di Orfeo”. Questo scrittore mi pare ancora troppo sconosciuto e misconosciuto nella scuola italiana. Mi sembra figura isolata come qualche cipresso che nella valle dal terriccio color bruno di tanto in tanto appare al viaggiatore.
Si entra a Montepulciano da Porta al Prato e si sale attraverso un’erta, ma bisogna fermarsi e deviare a caso per scoprire incantevoli scorci.
Un’amica mi attende e mi conduce fin nel punto più alto del borgo, ad una cantina. Siamo saliti a piedi, ma ora, dentro la cantina, scendiamo attraverso scomodi gradini scavati nella roccia. Sono ben sette piani sotto terra ed ogni piano ospita grandi botti. Una ragazza illustra e loda il vino di ogni botte, parlando sommessamente per non disturbare il prezioso contenuto. In una poesia di Hölderlin viene lodato il vino di buona annata serbato – dice il poeta – dall’avo per i giorni di festa. Significa per i giorni di festa che verranno, anche quand’egli non ci sarà più. È in questo saper pensare alle piccole gioie dei propri cari la saggezza della vita. Ed un bicchiere di vino ha certo più gusto. Siamo al settimo piano sotterra e qui c’è il vino delle annate migliori.
Risaliamo in silenzio, ma gli occhi scrutano ancora nell’oscurità di queste grotte, dove ci sente protetti. Protetti ci si sente anche a Montepulciano, riparata in basso ed in alto da due antiche porte, ma sul campanile dell’orologio c’è una statua di Pulcinella, dono d’un napoletano.


Roma 2003
Piccola Ucraina


Alla stazione “Garbatella” della metropolitana c’era il posto d’incontro degli ucraini, anzi soprattutto delle ucraine, donne giovani e meno giovani. È soprattutto una diaspora al femminile, è un esodo di bellezza e gentilezza, ma anche di un antico sogno infranto quello delle donne dell’Est in fuga dalla crisi economica seguita alla dissoluzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Sono quasi tutte in possesso di un diploma di scuola superiore e spesso di una laurea, ma adesso lavorano come colf o badanti. Ora il punto d’incontro si è trasferito alla stazione “Rebibbia” della metropolitana. La domenica questo luogo è affollato di donne e somiglia ad una piazza in festa, per il brusio ininterrotto, per il continuo andirivieni, per le bancarelle piene di giornali e libri in caratteri cirillici, ma il sentimento più forte che libra nell’aria è la nostalgia, la malinconia che attanaglia non solo queste esiliate, ma anche colui che capita qui per caso. Si odono nomi che noi europei occidentali abbiamo conosciuto dai romanzi di Tolstoij, Dostoevskij, Gogol, Pasternak, Cecov. Le donne portano i loro pacchi alle corriere che attraversano l’Europa da Kiev a Roma e viceversa; mandano regali ai nipoti, ai mariti, ai genitori, ai figli, ma non hanno la speranza che essi vengano qui, quella speranza che avevano gli emigranti italiani nel primo Novecento, bensì quella di tornare per sempre a casa e vivere in modo dignitoso. Hanno varcato antichi confini segnati da antiche guerre, da recenti cambiamenti politici, lottano spesso contro incomprensioni e diffidenze, ma anche queste rappresentanti di un mondo lontano e vicino allo stesso tempo ci aiutano a costruire un’ Europa nuova.


Distanze (2007)

Paestum e Pompei distano soltanto pochi chilometri, ma pure queste due città sono lontane millenni per lo spirito che le contraddistingue. La cultura greca e romana vengono spesso accomunate, tuttavia esse sono molte differenti. Paestum e Pompei testimoniano questa diversità. Fra gli antichi templi di Paestum, per fortuna mai troppo affollata, si cammina in silenzio, rispettosi degli antichi Dei, perché questo luogo è spirituale. Paestum ispira il raccoglimento; trasferendo un termine proprio della poesia alla geografia, si può affermare che è un luogo elegiaco. L’elegia era la poesia che gli uomini dedicavano all’amico morto, cantando le sue gesta e banchettando, perché musica e cibo consolavano dalla perdita, ma era anche la forma poetica nella quale le donne si rivolgevano agli Dei invocandoli per i loro amori. Forse anche oggi qualche turista li invoca.
Niente di così spirituale invece si trova a Pompei, forse perché è testimonianza della caducità terrena o forse perché le sue rovine raccontano di una città dove gli antichi Romani venivano a trascorrere ore liete, soprattutto sessualmente.
Erano due modi di combattere contro la morte.
Anche l’apparato turistico è dimostrazione di questa differenza: a Pompei i proprietari delle bancarelle che vendono orribili souvenir chiamano a gran voce i turisti, a Paestum aspettano che il turista entri volontariamente e non insistono. Forse le anime così diverse di Greci e Romani sono entrate nei contemporanei.


Ninfa (2007)

I giardini di Ninfa, fra Sermoneta e Norma in provincia di Latina, sono una meraviglia che resta negli occhi e nel cuore. Sono opera della famiglia “Caietani”, che diede al mondo uno dei Papi più terribili che la Chiesa abbia conosciuto, Bonifazio VIII, per il quale Dante prepara il posto nell’Inferno. Questo Papa però ci ha lasciato le acque di Fiuggi e parte di questo giardino. Non si arriva facilmente ai giardini, perché non sono segnalati e forse è un vantaggio; infatti, sebbene i visitatori siano sempre in numero notevole, questo non è mai eccessivo. Che senso avrebbe passeggiare in un giardino con il chiasso? Nei giardini si cammina godendo della conversazione a bassa voce, compiacendosi del rumore del piccolo ruscello artificiale, apprezzando il colore dei fiori, la magnificenza degli alberi, rallegrandosi dell’ombra e della frescura che essi procurano. Una sola pecca esiste in questi giardini: c’è una sola panchina. Certamente oggi non occorre, perché la visita ha la durata di un’ora per permettere a tutti i gruppi di vedere ogni singola parte di questa oasi. Quando era privato, i proprietari non si fermavano a discorrere, a riposarsi, a leggere un buon libro? Credo che sia un desiderio che sicuramente provano tutti i visitatori.
 


 
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Mario Amato
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LETTERE DA LONTANO - Prima Parte
ROMANZO
 
PREFAZIONE

Affascinanate e suadente. Ho viaggiato per terre e città bellissime e misteriose. Ho letto con enorme piacere nomi e citazioni di autori, le cui opere desidero al più presto conoscere, tanta è la passione che l’Autore trasmette nel trattarle. Originale, e nello stesso tempo toccante, il paragone tra le acque, la vita e la letteratura! Mi piacciono molto i frequenti riferimenti ai fiumi e ai ponti.
Marenza Motta

Ho appena finito di leggere il romanzo, mi ha temporaneamente fatto dimenticare la giornata disastrosa di ieri. Dico quello che mi è sembrato (ritengo che raramente le impressioni personali dei lettori combacino alla lettera con le intenzioni degli autori). Se l’Autore voleva farmi rimpiangere ancor di più un mancato viaggio, c'è riuscito alla perfezione. Il personaggio di Iris è stupendo, indiscutibilmente il mio ideale femminile: forte, appassionata, coraggiosa, capace di amare in modo libero e altruista. Iris è un'eroina da romanzo, uno di quei personaggi che fanno venir voglia di innamorarsi; non è la donna amata dal protagonista (veramente non si è innamorato di lei?), eppure è l'unica che può salvarlo dai suoi sensi di colpa. Il suo inseguimento mi fa venire in mente la "ricerca" dei romanzi epico-cavallereschi, in cui però è più importante il viaggio stesso piuttosto che l'arrivo.
Il primo capitolo ha il sapore di Leopardi in bocca (sembra quasi che descriva il borgo recanatese soprattutto quando fa un riferimento alle campane) ma senza quel rapporto drammaticamente conflittuale che si percepisce nel poeta di Recanati. Non so identificare bene la ragione, ma ho l'impressione che le prime pagine non scorrano allo stesso modo in cui procede magnificamente il resto dell'opera, ma forse il fiume nasce a fatica dalla roccia; utilizzo il verbo scorrere perché questo stesso romanzo soggiace al paragone tra vita, letteratura e fiumi già evidenziato; esso fluisce liberamente trasportato dalle acque dei ricordi, tra diversi "Passati". I diversi periodi del testo sono tra loro legati non da coordinate temporali fisse, ma da sensazioni, emozioni, impressioni che fanno scattare il meccanismo del ricordo, portandoci avanti e indietro in luoghi diversi.
Mi piacciono soprattutto le descrizioni dei fiumi e dei paesaggi, sembrano raffigurazioni pittoriche, tanto vivide sono le immagini che evocano. Mi piace il modo in cui vengono tratteggiati i personaggi, la relazione di amicizia tra Federico, Fiona e Pablo, così intima e condivisa, così romanticamente idealizzata come i sogni di giovinezza; anche il modo in cui Federico si pone rispetto a ciò che visita: ad esempio quando immagina Franz passeggiare nei giardini chiedendosi se pensasse alla sua Sissi, alla fine dell'Impero oppure se semplicemente desse da mangiare agli uccellini.
La scrittura è affascinante, fa venir voglia di visitare i luoghi evocati, di leggere gli autori citati (e mangiare i cibi descritti!) ed è commovente al punto da muovere involontariamente alle lacrime.
Mi è davvero piaciuto!

Dominique Palladini (Alfiere della Repubblica Italiana)

Ricordi, immagini e parole che si richiamano l’un l’altre. Echi di passioni, segreti e dolori che s’inseguono. Luoghi percepiti come cari anche da chi ne ignorava l’esistenza perché luoghi di silenzi, di incontri, di vita. Piani temporali paralleli che tuttavia riescono ad incontrarsi nelle parole di una donna, emblema dell’amore vero e disinteressato. Dolcissima lettura che permette ad ogni“viandante” di riscoprire il cuore della propria umanità.
Marialucia Di Bona


CAPITOLO PRIMO


Campane


All’alba, seduto su una panchina sul ponte antico di Heidelberg, sotto il quale scorre eterno il Neckar, Federico scriveva una lettera. A quell’ora il ponte era libero dal chiasso dei turisti. Federico pensava a quando, anni addietro, sedeva su quella panchina insieme a un amico spagnolo e ad un’amica finlandese, e parlavano di letteratura, arte, storia, e di amori e speranze, e così scorreva la giovinezza, ma pensava anche a quanti altri s’erano seduti su quella panchina da quando il ponte era stato costruito. Ogni tanto gli veniva in mente il verso della poesia di Hölderlin “Sul ponte mi prese l’incanto/ nell’ora che ci passavo”. Quanti altri avevano scritto lettere seduti su quella panchina? Ogni tanto posava la penna e guardava il Neckar scorrere, ricordando passeggiate lungo la riva. Heidelberg era l’ultima tappa del suo viaggio ed era logico che finisse all’alba, perché all’alba era iniziato due mesi prima. Egli interrompeva la lettera, perché era difficile raccontare il viaggio. Si dice spesso che la vita è un romanzo, tuttavia scriverla, la vita, è difficile. Ecco, gli sarebbe piaciuto poter scrivere come fluiscono i fiumi, e del resto i fiumi come i romanzi alternano il loro ritmo. Ma c’era anche il fatto che Federico era nato e vissuto in un paese, a parte il periodo universitario, e per scrivere romanzi bisogna essere cittadini. In città ci si può sedere al tavolo di un Caffè, guardare le persone che camminano e immaginare mille vite; i paesi invece sono fatti per brevi storie.

Il pensiero andò di nuovo all’alba del primo gennaio in cui era iniziato il viaggio, una grigia alba dopo una notte insonne. Quella notte Federico l’aveva trascorsa cercando di riordinare alcune lettere, che giacevano ormai aperte sulla scrivania, mentre egli guardava dalla finestra il fumo grigio che saliva dai comignoli, segno che già le donne si erano alzate per preparare il pranzo della festa, fumo che si confondeva con il grigio del cielo. Finalmente suonò il campanello; Federico sapeva che era il suo amico Franco che veniva a prenderlo per accompagnarlo alla stazione. Piegò le lettere e le infilò nella tasca laterale della sacca da viaggio, poi se la mise a tracollo, salutò Anna, una badante ucraina che viveva con lui da sei anni, e scese velocemente le scale. Mentre saliva nell’automobile echeggiarono tocchi di campana, il cui lento ritmo annunziavano che un abitante del paese era morto. Federico guardò nuovamente il fumo dei comignoli e gli parve che esso insieme al suono delle campane salutasse lui e quella vita che se ne era andata per sempre.

Il Neckar nasce tra le paludi e scorre fino ad unirsi al padre Reno. Allo stesso modo nascono i romanzi: c’è prima un indistinto, paludoso rimuginare di idee, immagini, ricordi. Scorre a volte tra una serie di alte verdeggianti colline, creando un panorama bellissimo, altre volte rallenta il suo corso, curva, come nella narrazione si devia per le digressioni, poi di nuovo accelera e scorre veloce. Chissà quante storie potrebbe narrare quel fiume. Tra le tante c’erano anche le storie di alcune giornate di Federico, come quella della riconciliazione con le cipolle. In una giornata di Settembre, con il cielo nitido e terso come solo in Settembre accade, Federico aveva deciso di intraprendere una lunga passeggiata, aveva costeggiato il Neckar per quasi venti kilometri, fermandosi spesso ad osservare il paesaggio o a chiacchierare nel suo buon tedesco con qualche persona incontrata lungo il cammino; poi, nel pomeriggio inoltrato aveva traversato un ponte e s’era incamminato sulla via del ritorno. Finalmente a sera era arrivato a Heidelberg, stanco, soddisfatto per il cammino percorso e affamato. Si era seduto ad un tavolino all’aperto in un ristorante dinanzi a Leopold Brücke, aveva socchiuso gli occhi mentre giungeva dall’interno un forte odore di cipolle. A Federico non piacevano le cipolle, eppure aveva gradito quell’aroma. Il cameriere si avvicinò ed alla domanda dell’avventore aveva risposto che a quell’ora avevano pronto solo Zwiebeln Suppe; aveva allora ordinato una birra scura e mentre la sorseggiava il cameriere aveva portato al tavolo vicino una elegante zuppiera e nell’aprirla da essa si era sprigionato un intenso profumo, che, come si dice, aveva aperto ancor più lo stomaco vuoto di Federico. “Abbiamo solo la zuppiera per quattro” “Va bene”. Finalmente la cena fu servita: la zuppa era composta di cipolle, lenticchie, fagioli, pane nero abbrustolito sul fuoco e pezzi di carne di maiale cotti alla brace e ripassati nel vino Riesling. Federico mangiò l’intera porzione per quattro. La riconciliazione con le cipolle era compiuta.

In auto Franco raccontò la sua notte di capodanno: era una storia che Federico già conosceva, perché l’amico amava narrare il suo successo con le donne, che erano sempre brune e sensuali. A volte queste storie divertivano Federico, altre lo annoiavano, ma in quella mattina egli non ascoltava, non perché avesse sonno, ma perché i suoi pensieri erano lontani, divisi tra passato e futuro. Iniziava il suo viaggio di ricerca di una donna, ma non certo del tipo (se si può dire degli esseri umani che esistono tipi) di quelle che descriveva il suo amico; di quella donna Federico sapeva soltanto che esisteva e conosceva soltanto il cognome della madre, che aveva incontrato anni prima sul ponte, su quel ponte che sembrava dirigere i fili della sua storia e di quella di suo fratello. In fondo tutte le storie sono originali, perché nessuna è uguale all’altra, forse per il semplice motivo che cambiano sempre i personaggi. Le lettere che Federico aveva nella valigia erano della donna incontrata sul ponte, in un’alba di venti anni prima. Federico, nella sua permanenza a Heidelberg, svolgeva a sera il lavoro di cameriere in una birreria e si tratteneva fino a tardi per lavare i piatti, poi, dopo un brevissimo riposo, verso le quattro del mattino si recava in un forno a prendere del pane che metteva nel cestino della sua nera vecchia bicicletta, comprata di seconda o terza mano, e lo portava ad alcuni ristoranti; gli piaceva pedalare fra antichi vicoli, sentire il suono delle ruote sul selciato, respirare intensamente il profumo del pane e dei dolci appena sfornati. In una di quelle mattine, sul ponte vecchio, aveva conosciuto Iris, l’autrice di quelle lettere che lo avevano tenuto sveglio. Egli aveva cominciato dalla prima lettera, seguendo le date.

Caro Antonio,
Sono triste, non solo perché sei lontano e non so quando sarà possibile tornare a trovarti in Italia, nel tuo bel paese, ma anche perché in realtà dovrei farlo al più presto. Il viaggio di ritorno si è svolto con serenità, anche se tante ore in treno sono stancanti. Porto con me l’odore della tua terra, le voci del tuo paese, della tua casa, dei tuoi genitori, che sono stati tanti cari con me e che vorrei chiamare anch’io Mamma e Papà. Vedi, Antonio, ho qualcosa di importante da dirti, ma è difficile trovare le parole. Ecco, semplicemente, aspetto un bambino da te, sono incinta. Quando ho dato la notizia ai miei genitori, essi non sono stati contenti, ma adesso, che sono già al secondo mese, mamma è piena di cure e papà fa progetti sul suo futuro da nonno. In realtà non so se sarà un maschio oppure una femmina, ma a volte, a sera, racconto a questo piccolo essere che è dentro di me, del nostro amore, dell’Italia, dei suoi nonni lontani. Sappi che non ti sto chiedendo niente, ma mi sembrava giusto che tu sapessi. Se vuoi rispondermi, conosci il mio indirizzo e puoi chiedere a Federico anche di tradurre in tedesco le tue eventuali lettere. Spero di non aver commesso troppi errori.
Tua Iris
Heidelberg, 25 settembre 19**


Quando era giunta questa lettera, già si era verificato l’evento che aveva segnato la vita di Federico e dei suoi genitori: Antonio era morto investito da un’automobile! La scomparsa di Antonio aveva accelerato la vecchiaia del padre, che aveva resistito soltanto un anno, e della madre che era deceduta l’anno successivo. Così Federico era rimasto solo nella grande casa, ora troppo silenziosa. Le voci di cui parlava Iris in quella lettera non c’erano più e neanche gli odori. Federico non aprì la lettera, ma ne giunsero altre ed anch’esse restarono per lungo tempo chiuse nelle loro belle buste gialle, che recavano in basso il disegno di un castello. Aprire quelle buste e leggerle parve per lungo tempo a Federico indagare sulla vita segreta del fratello ed egli sapeva che è male voler conoscere il cuore altrui. Solo dopo vent’anni, solo in quella notte di capodanno aveva trovato il coraggio di violare quelle profondità che si celano nelle parole che gli amanti si scambiano. Era stato scosso dalla sua precedente prudenza, perché Iris, pensava, aveva atteso una risposta, un segno. Che fare? Scrivere spiegando le ragioni del silenzio, del suo e di quello tragico del fratello? In verità aveva scritto qualche parola, ma gli pareva che nessuna chiarificazione sarebbe stata sufficiente. Meglio leggere tutte le lettere.

Il Neckar scorre unicamente nella regione del Baden Wüttenberg ed esiste un rapporto profondo tra gli abitanti di questa regione ed il fiume; i ponti sono stati progettati da sapienti architetti e costruiti da mani di abili operai, i vigneti sono stati piantati e coltivati da contadini esperti, eppure è per la presenza del fiume che coloro che abitano le cittadine toccate dal corso d’acqua si sentono orgogliosi, quasi come fossero stati loro stessi a scavare il solco sul quale scorre e non il buon Dio o la natura indulgente. Anche i “Badischer” chiamano padre il Reno, ma non lo cambierebbero con il loro Neckar, che con la sua anima entra nelle loro anime. Anche la vita scorre come un fiume: possiede rapide, curve, rallentamenti. Vita, fiumi, letteratura! Se la letteratura è un oceano senza fine, i suoi affluenti sono i grandi romanzi e i ruscelli sono formati dai brevi racconti.

Federico aveva telefonato al suo amico e gli aveva annunciato la partenza, pregandolo di accompagnarlo alla stazione. Franco era stato sorpreso dalla richiesta, ma aveva ugualmente acconsentito, senza chiedere le ragioni dell’improvviso viaggio dell’amico. Giunto a Heidelberg, nella sua Heidelberg, cittadina alla quale aveva dedicato molti pensieri e poesie, Federico si era recato a casa di Iris, ma non l’aveva trovata. I genitori della ragazza – per Federico era sempre la ragazza che aveva conosciuto vent’anni prima sul ponte- lo avevano accolto educatamente, ma non certo con entusiasmo. Non fu facile spiegare le ragioni del lungo silenzio. Finalmente, dopo la difficile conversazione, la madre di Iris informò Federico che ella si era recata a Vienna per delle ricerche per il suo ultimo libro, uno studio sulla corrispondenza diplomatica austro-ungarica avvenuta subito dopo l’attentato di Sarajevo. «Si potrebbe telefonare ad Iris» disse la donna «ma credo che sarebbe difficile una lunga conversazione su un argomento così delicato»; «Lo credo anch’io, ma devo confessare che sono venuto non solo per questa spiegazione, ma anche per conoscere … » «Tua nipote?» «Come si chiama?» «Antonia, naturalmente!».
Federico sapeva che Iris non aveva odiato il fratello ed il nome della figlia era una conferma.

Caro Antonio,
Non voglio più chiederti le ragioni del tuo silenzio. All’inizio avevo pensato di rinunciare al bambino, ma non lo farò. Io sono favorevole all’aborto, tuttavia questa vita dentro di me è già parte della mia vita. E della tua! Quando passeggio racconto storie, fiabe, parlo della nostra bella cittadina, ma anche di te, dell’Italia, dei suoi nonni. Non temere, non userò questo figlio o figlia, ancora non lo so, per costringerti ad un amore che forse in te è finito, che forse è durato solo un’estate. E non sono certo pentita. Se non avessi conosciuto tuo fratello, se non avessi accettato il suo invito, tutto questo non sarebbe accaduto. Non voglio però scrivere la parola “addio”, perciò ti dico arrivederci …
tua (forse) Iris


Il treno che lo portava a Heidelberg superò la frontiera tra Svizzera e Italia. Frontiere! Egli pensava a quelle strane linee tracciate sulle carte geografiche che separano lingue, culture, modi di vestire e di mangiare. Ricordò una frase letta in un racconto di Hermann Hesse: “Varcare i confini è il Nirvana”. Le frontiere si varcano anche con dolore. Federico pensò ad Anna, la donna ucraina che viveva nella sua casa e che aveva assunto come governante dopo la morte di sua madre. Ella non aveva varcato i confini con gioia, ma con dolore. Aveva lasciato marito, figli, madre per cercare un luogo dove vivere con dignità. Pensò ai nonni armeni della sua ex alunna Sirvat, che erano riusciti a varcare i confini e i cui corpi giacevano da qualche parte sul Mussa Dag, ma erano stati tanto previdenti da far fuggire la figlia prima che si scatenasse la follia. E quanti uomini e donne del suo paese erano emigrati per non tornare mai più! Federico non aveva varcato confini con dolore e sebbene ora questo viaggio fosse legato ad una storia infelice, egli non si sentiva tormentato. Recarsi altrove lo allontanava dalle preoccupazioni quotidiane, lo proiettava in un’altra dimensione, faceva sì che si sentisse una persona diversa da quella che viveva nella grande casa con Anna. Il rumore del treno accompagnava i suoi pensieri; sotto le ruote scorrevano i binari, come scorre l’acqua di un fiume.


CAPITOLO SECONDO


Silenzi


Ugualmente scorrevano i binari verso Vienna. Federico trovò alloggio presso l’Hotel Austria, dove credeva di trovare Iris, che invece era già ripartita per un’altra città, ma il portiere non volle rivelare la meta. Disfatta la sacca e messo in ordine l’esiguo vestiario, verso mezzogiorno Federico uscì per visitare la città, che in realtà conosceva soprattutto dai romanzi letti. Non gli sembrava un caso che l’albergo si chiamasse “Austria”, anzi gli pareva che mancasse la parola “felix”. Decise che la prima tappa sarebbe stata Hofburg, ma proprio dinanzi alla residenza imperiale si avvide di avere fame o forse fu solo attratto dal nome del ristorante che suonava fascinoso e nostalgico “Kakaniehof” . Mangiò con lentezza, come era solito fare, guardando dai vetri della finestra i turisti che entravano ed uscivano da Hofburg, un piatto di gnocchi, una Wienerschitzel e una fetta di Apfelstrudel e bevve un bicchiere di Riesling. Poi incominciò la visita a Hofburg. Sul bianco scalone imperiale, coperto di un sobrio tappeto verde, si fermò e pensò al fruscio dei vestiti delle dame che si recavano a corte, onorate di partecipare alle danze. Ora invece si udivano le voci dei turisti, al cui flusso si accodò. Si può vivere e lavorare a Vienna come in un’altra città? Vienna è una città fantasma, qui tutto ha il sapore del passato e della storia, anche l’itinerario che si è costretti a seguire a Hofburg: appena terminato lo scalone bianco, coperto da uno spesso e sobrio tappeto color verde scuro, si è quasi obbligati a voltare a sinistra e ad entrare nel museo dedicato a Sissi. Tutti conoscono la storia dell’infelice Imperatrice, ma qui si respira il silenzio che la avvolse dopo il suicidio dell’unico figlio maschio Rodolfo, primo segno forse che l’Impero, ultimo sogno di uno stato sovranazionale dell’Europa, non sarebbe sopravissuto. Nella mente di Federico si formò l’immagine di Sissi seduta alla scrivania nell’atto di scrivere una lettera, ma la figura della principessa si trasformò in quella di Iris e nuovamente si sentì colpevole per i vent’anni durante i quali le lettere erano rimaste chiuse in un cassetto, in silenzio. Gli parve una colpa anche aver lasciato ora le lettere nella sacca, in albergo, ancora in una camera silenziosa. Intanto il gruppo a cui si era aggregato era giunto nella sala da pranzo. La tavola è apparecchiata, una candida tovaglia la veste come un abito nuziale, i bicchieri di cristallo splendono, i bianchi piatti sono cinti da un sottile filo d’oro, nel mezzo regnano insalatiera e fruttiera che terminano in alto con l’aquila bicipite sorretta dallo stemma asburgico, la croce bianca in campo rosso. In un angolo tace il grande camino. In tutte le stanze si trovano grandi stufe in piastrelle di porcellana. Gli imperatori provavano freddo. Sentivano freddo i soldati mandati a morire sui campi di battaglia per un mondo già spento, come il grande camino nella sala da pranzo. Nella mente di Federico si formarono le parole di un libro di Joseph Roth: Brindavamo su tavole apparecchiate alla morte(2). Per gli altri, per i futuri vincitori ardeva inestinguibile la fiamma dell’indipendenza e della nazionalità. Le guide turistiche non dicono chi sedeva dalla parte del camino, ma il buon senso suggerisce che un gentiluomo debba lasciare il posto alle donne e gli Asburgo erano gentiluomini. La sala è illuminata anche dai flash dei turisti, che poi lentamente sfollano. Federico restò solo a guardare ancora la tavola e sentì provenire da essa un silenzio infinito. La tavola è apparecchiata, ma non attende nessun commensale.
Scese lentamente lo scalone imperiale e ancora udì nella sua fantasia il fruscio delle vesti delle dame. Ora era nella sala del tesoro, dove sentiva realmente il lieve rumore delle vesti delle turiste, che forse immaginavano le collane, i diademi, gli anelli, reliquie di trascorse vanità, su di loro. In una delle vetrine una scultura di legno raffigura la morte di Ferdinando terzo d’Asburgo: l’opera, realizzata da un tale Daniel Neuberg (1621-1680), rappresenta otto scheletri intorno alla bara. I nomi segnano il destino? Daniel è il nome di un profeta; gli scheletri portano via l’Impero? Tra gioielli e vestiti l’opera è l’unica scena di dolore, ma forse anche abiti e monili che non saranno mai più indossati sono un segno del tempo che trascorre, degli Imperi che passano. Non resta che il silenzio.
Silenzioso era il giardino di Hofburg, dove finalmente Federico si trovò solo. Si comportava come un turista, ma non si sentiva tale e del resto era capitato a Vienna per caso; il suo viaggio aveva altre ragioni. Ora però, nonostante non lo volesse ammettere, era un turista. Non lo era stato a Heidelberg, città che, a suo dire, lo aveva adottato come un figlio. La sua vita era legata al Neckar, come quella degli abitanti del Baden: in riva al Neckar aveva scritto le sue prime fiabe, nella bella cittadina aveva scoperto fino in fondo la sua vocazione letteraria, sul ponte aveva conosciuto Iris. Nella sua anima il Neckar scorreva eternamente, anche quando ne era lontano. Per Iris ora si trovava a Vienna, passeggiando nel Burggarten: si trovò di fronte il monumento di Goethe. Chissà se i poeti meritino un monumento: quello dedicato a Goethe nel Burggarten è regale. Il poeta siede su una poltrona che pare essere un trono, le mani poggiate sui braccioli, guardando in basso, ma non sembra interessarsi di quanto accade sotto di sé, non sembra accorgersi del turista che giunge dalla scalinata e si trova sovrastato dall’imponente statua. Grandiosa è anche la figura di Mozart, che ha reso soprannazionale l’Austria più d’ogni Kaiser. Al Kaiser Franz Joseph Secondo è dedicato un marmo, ma egli non è ritratto in uniforme, bensì come un vecchio signore in borghese, con bastone e cappello. Forse l’Imperatore passeggiava nel parco dopo la morte dell’amata Sissi. Le sopravvisse, ma nell’Europa la regia imperiale monarchia stava morendo. Chissà a cosa pensava l’Imperatore durante quelle passeggiate nel parco? A Sissi, a suo figlio Carlo che non sarebbe mai stato un vero Kaiser, ai soldati inviati a combattere per difendere un mondo che anch’egli sapeva destinato a scomparire? O forse distribuiva soltanto briciole agli uccellini, come un vecchio in pensione, ma gli imperatori tramontano, non vanno in pensione. A Federico venne spontaneo augurare la “buona sera” alla statua, ma sottovoce, per timore di disturbare.
Si incamminò verso il centro. C’era abbastanza silenzio nelle strade; a Vienna non si è mai tra la folla come in altre città, ed anche questo era un segno della grandezza imperiale perduta, ma a Federico non dispiaceva il brusio sommesso, il camminare lento delle persone, che sembravano non essere state travolte dalla fretta che aveva segnato la modernità. Era ora in una grande strada, forse Karl o Joseph Straβe; gli era parso sempre ridicolo che la strada più importante di Heidelberg si chiamasse Hauptstraβe, ma comprese solo ora che quella designazione, Strada Principale, dava alla cittadina il carattere di una comunità cementata nel tempo della storia, fatta di storie di famiglie e di amicizia. Lasciandosi forse guidare dall’istinto, voltò in uno stretto vicolo; subito a destra la sua attenzione fu attratta dalla vetrina di un negozio di bambole: era un tripudio di minuti abiti di velluto, raso, seta, piccoli variopinti capolavori artigianali e la maestria della mano foggiatrice era vantata sull’insegna lignea incisa in caratteri gotici. Le bambole avevano quasi tutte i capelli biondi, solo qualcuna la chioma rossa, ma tutte una carnagione rosea o candida. Fra mille segni, questo gli apparve uno fra i più evidenti della Finis Austriae, del sogno di uno Stato sovranazionale nel quale più popoli, biondi o bruni, potessero vivere nel rispetto delle reciproche culture. “Ai miei popoli” iniziava l’Editto con il quale Franz Joseph secondo dichiarava guerra nel 1914. Bambole bionde! I grandi scrittori dell’Impero, Roth, Musil, Kafka erano bruni. Tempo dopo i loro libri bruciavano nei roghi insieme all’Europa in un incubo biondo. Mentre contemplava le Puppen dagli aurei capelli, vide riflessi nella vetrina un rabbino ed un giovane studente. Vestiti di nero i loro riflessi passavano inconsapevolmente fra le bambole bionde, ombre che passano fra l’ombra di un’Austria che fu, un’Austria non più felix, … ombre …
Di nuovo aveva fame. Di fronte al negozio c’era un ristorante. Entrò; una targa informava con orgoglio che in quel locale avevano suonato Haydn, Mozart e Beethoven. Mangiò un piatto di Rostbraten con cipolle e una fetta di Torta Mozart, forse in onore del compositore e della targa sul muro. L’odore delle costate di manzo arrosto e delle cipolle e, successivamente, della torta a base di crema di pistacchio, albicocche e mousse al cioccolato riempì l’olfatto ed il palato di Federico, come pure l’aroma dei due bicchieri di Tocai. Pagò il conto ed uscì. Non voleva ancora tornare in albergo e decise di entrare nella prima caffetteria. Aveva rinunciato al caffè espresso italiano per quello austriaco, che, sebbene acquoso, si poteva sorseggiare a lungo. Nel Café c’era poca gente ed egli poteva starsene raccolto in silenzio, guardando nella tazza la nera bevanda. C’erano tanti tipi di silenzio nella sua vita, anzi nella vita: il silenzio delle lettere rimaste chiuse nel cassetto, il silenzio delle partite a scacchi con il suo amico Renato, il silenzio delle biblioteche che frequentava, il silenzio della sua casa dove ora s’aggirava solo Anna, il silenzio delle ore che trascorreva accanto al camino leggendo, il silenzio delle aule della scuola dove insegnava quando, ogni mattina, arrivava molto prima che suonasse la campanella. C’era un altro silenzio colpevole, quello di una telefonata che aveva rimandato per lungo tempo: in quel tempo in cui abitava a Heidelberg, dove tutto il suo destino era stato scritto, una sua amica di università studiava a Lubecca, nella città di Thomas Mann, e Federico ne era innamorato. Quell’amore era nato nelle aule accademiche e sui gradini della facoltà, parlando di letteratura. Federico telefonò alla sua amica e chiese di poterla vedere e con sua grande gioia la risposta fu favorevole, nonostante egli non sapesse se il suo sentimento fosse ricambiato. Il giorno seguente, una domenica, viaggiò in treno fino a Lubecca, dove la incontrò. Come Federico, Patrizia, questo il nome della ragazza, studiava Germanistica. Nella città anseatica ella viveva con un gruppo di amici e per quella sera era prevista una cena al ristorante alla quale Federico partecipò, ma in quell’occasione comprese che il suo amore era senza speranza. Non si sentì né sconfitto né addolorato, né si sentì geloso del ragazzo tedesco che era seduto vicino a Patrizia. Passò il tempo della Germania per lui e per Patrizia, passò anche il tempo dell’università, ma ogni tanto si sentivano per telefono fino a quando la ragazza, ormai donna, gli annunciò le recenti nozze, non con il tedesco, bensì con un uomo di Roma, della sua città. Federico proferì i suoi auguri e sinceramente fu felice che la sua amica avesse trovato l’amore, tuttavia non la chiamò mai più, perché gli pareva di disturbare, di intromettersi in vite che non avevano più niente a fare con lui. Esistono però giorni in cui riaffiorano alla mente momenti che sembrano sepolti. Giunsero così alla memoria, dopo alcuni anni, i momenti trascorsi con Patrizia, le lunghe chiacchierate nei corridoi e sui gradini dell’università, la cena nel ristorante di Lubecca. Federico formò il numero di telefono ancora presente nella sua mente, ma la voce anonima annunciava che esso non esisteva; telefonò a casa dei genitori, scusandosi e dicendo che forse aveva perso il numero, ma il padre di Patrizia, che contrariamente alle abitudini delle famiglia aveva risposto, disse: «Lei non sa niente dunque? Patrizia ci ha lasciato». Federico non comprese immediatamente queste parole e replicò «Dov’è andata? Si è trasferita?», ma appena posta questa sciocca domanda capì e riattaccò il telefono, sconvolto. Il giorno seguente chiamò di nuovo e si scusò con la madre, che più tardi spedì una lettera narrando la terribile malattia della figlia e l’amicizia che aveva sempre serbato nel cuore per Federico.
Le strade di Vienna per le quali passeggiava Federico erano silenziose, c’era un vento lieve ma gelido e iniziavano a cadere piccoli fiocchi di neve. Dinanzi all’Hotel Austria c’era una cabina telefonica. Federico la guardò: sapeva che doveva telefonare a casa di Iris, ma rimandò.


CAPITOLO TERZO


Altri silenzi


La prima cittadina che il Neckar incontra nel suo corso è Rotweil: come suggerisce il suo nome, il colore predominante è il rosso dei tetti, che insieme al bianco delle strutture portanti degli edifici le conferiscono un aspetto da fiaba. Come ogni antica città, Rotweil ha l’orgoglio dei suoi monumenti: è la Kappellenkirche, la bianca chiesa gotica. Il grande poeta Rainer Maria Rilke detestava i campanili gotici, che gli sembravano, con le loro punte, lance dirette contro Dio. I tre portali sono decorati con statue; un bassorilievo ritrae un crociato in intimo colloquio con una donna. Forse l’ultimo addio!
Anche qui gli abitanti vivono insieme al fiume: nei giorni di festa si va a fare merenda sulla riva, dove i bambini giocano lieti; le mamme raccontano antiche storie delle ninfe del Neckar.


Nella camera d’albergo, già adagiato nel letto sotto il caldo piumone, Federico guardò il telefono, ma non allungò la mano. Guardò la sacca dove giacevano le lettere. Attraverso la stanza; tramite le luci della strada s’intravedeva la neve cadere copiosa. Silenzio delle lettere, silenzio del telefono. Rimandava la telefonata alla famiglia di Iris come aveva rimandato quella a Patrizia. C’era stato anche uno strano silenzio dell’amica, difficile da intendere. Durante la cena a Lubecca, che aveva segnato la definitiva rinuncia di Federico, Angelika, una ragazza che faceva parte del gruppo, gli si era rivolta: «Wann fährst du ab?» «Morgen» «Ach Schade!»(3). L’ultima esclamazione non aveva colpito particolarmente Federico, abituato a sentirla quasi come un intercalare del popolo tedesco. Tornato in albergo, a notte fonda qualcuno aveva bussato alla sua camera; la cameriera annunciò che c’era una visita. Angelika! Erano seguiti alcuni giorni felici, che a distanza di tempo sembravano irreali. Tornato a Heidelberg, quei giorni furono subito relegati nell’oblio e così anche più tardi a Roma, dove sentiva o vedeva ogni giorno Patrizia. Accadde che per due settimane Patrizia non fosse mai a casa, né frequentasse l’università. Infine ella rispose alla telefonata di Federico: «Dove sei stata?» «Scusa, Federico, ma è venuta un’amica di Lubecca e sono stata impegnata con lei» «Chi?» «Si chiama Angelika» «… E non mi hai chiamato?» «Perché, avrei dovuto?» «Sì!» «Perché?» «Domani ne parliamo all’università». Sui gradini della facoltà Federico raccontò a Patrizia la sua conoscenza (si dice biblica? ) a Patrizia, che rimase per un po’ in silenzio prima di dichiarare «Anche se l’avessi saputo, non ti avrei chiamato» «Perché, Patrizia? Mi hai fatto intendere che fra noi c’è solo amicizia» «Sì, Federico, ma tu davvero non capisci le donne!». Ancora adesso egli non capiva quel silenzio dell’amica, né quella risposta. Ancora adesso non capiva le donne. Con questi ricordi s’addormentò. All’alba Vienna era coperta dal manto bianco, ma c’era un bel sole. Federico guardò il telefono, ma decise di restare. Era pronto a trascorrere un’altra giornata da turista. Le strade erano più affollate del solito, da turisti e da ragazzi in visita d’istruzione. La Chiesa di Santo Stefano si trovava vicino all’albergo e questa fu la prima tappa. Si stava dicendo messa. Federico non era religioso, ma gli sembrò doveroso partecipare. Aveva sempre provato fatica nella posizione genuflessa, ma si inginocchiò quando tutti i fedeli lo fecero: essi però non restavano fermi nella postura, ma dondolavano lievemente; lo fece e la fatica scomparve. Pensò agli ebrei che aveva visto riflessi nella vetrina, che certamente dondolavano nell’atto della preghiera, pensò alla menorah che un giorno aveva rinvenuto nel solaio della sua casa. La sua casa silenziosa, con la croce e la menorah su un lungo tavolo posto ad un lato della sala da pranzo. Anna faceva il segno della croce al contrario. Anna si aggirava nelle stanze, donna venuta da una terra lontana, in cerca di una speranza. Nel suo paese era stata capo-infermiera ed ora vagava per le stanze silenziose accarezzando i vecchi libri di medicina del padre di Federico, li apriva e con sforzo e piacere leggeva i caratteri latini per lei insoliti e affascinanti. C’erano sui comodini vecchie ingiallite fotografie che ritraevano avi mai conosciuti, ma c’erano anche le foto che Anna aveva portato con sé, tra le quali una in particolare piaceva a Federico: rappresentava il bisnonno della donna ucraina, in costume nazionale, un kulaki a cui i sovietici avevano sottratto la terra, inizio di una vita avventurosa mai desiderata. Il vecchio kulaki aveva un atteggiamento fiero. Certamente parlava anche la lingua tedesca, perché a quel tempo quella terra sui Carpazi faceva parte del grande Impero asburgico.
Federico scambiò il segno della pace con un vecchio signore dai lunghi baffi bianchi, simili a quelli che incorniciavano il volto del bisnonno di Anna, e si allontanò lentamente, mentre ancora risuonavano le parole del sacerdote. Baffi asburgici! Il freddo era pungente, ma non c’era vento. Come il giorno prima, non aveva deciso alcun percorso e si faceva guidare dai suoi stessi passi, che lo conducevano da qualche parte. Da qualche parte! L’ubriacone Marmeladov dice a Raskolnikov in “Delitto e castigo” che ciò che è importante nella vita è avere qualche parte dove andare. Non è vero. La provvisorietà può essere più felice della vita sicura. Quando era stato studente e aveva lavorato per mantenersi, aveva vissuto periodi felici, poi quando, dopo la laurea, era stato assunto definitivamente come insegnante, la sua famiglia non esisteva più. Definitivamente! Quale vita può esserla? Tutti gli uomini sono precari, come gli Imperi. Federico si trovò dinanzi alla Cripta dei Cappuccini. Appena si entra sul muro, al primo pianerottolo, si legge a lettere cubitali la parola “Silentium” ed in silenzio egli scese le scale. Aveva visto molti monumenti nella sua vita, ma dinanzi ai resti dell’antica Roma o dinanzi a mura ciclopiche si pensa alla grandezza, mentre vicino ai sarcofaghi degli appartenenti alla famiglia imperiale si sente la transitorietà. L’unico sepolcro di fronte al quale ci si avvede della grande storia è quello di Maria Teresa. Nei nomi c’è il destino: il suo era duplice come la Regia Imperial Monarchia.
Federico risalì le scale quasi con fretta; ora voleva camminare per strade affollate, immergersi nel chiasso della vita, sentire voci, chiacchiericci, il brusio della città. Ma nevicava e la gente era poca. Entrò in una Konditorei ed ordinò una fetta di Sachertorte. Nel negozio di vecchie fotografie aveva comprato alcune cartoline e un piccolo calendario fatto dei quadri di Egon Schiele. Anche le bambole ritratte sulle cartoline erano candide e bionde. Le cartoline sono un vero culto nella capitale austriaca: raffigurano ogni aspetto della vita cittadina, pietanze, sale da bigliardo, quotidiani, mercati, valzer, Café, ristoranti, gente a passeggio. La cameriera era bionda.
Nei Caffè la Mitteleuropea è diventata eterna. Joseph Roth ha narrato su uno di questi tavoli la fine di un mondo, Stefan Zweig ha raccontato “Il mondo di ieri”, Egon Schiele ha vissuto il suo delirio ed ora i suoi quadri sono anche immagini per calendari: l’eternità per sfogliare il tempo appeso alla parete. Brindò in solitudine con il bicchierino di Kornschnaps, nessuno sedeva davanti a lui, ma non si sentiva solo, c’era l’Austria dei libri di Roth, Rilke, Musil, l’Austria dei libri, la sua Austria di carta!. I protagonisti de “La cripta dei cappuccini”(4) brindavano intorno a tavole imbandite intorno alla morte, che attendeva nei campi di battaglia. Chi tornò non trovò più il mondo che aveva lasciato. Chiese il conto e si diresse verso il telefono.
Mancava una visita che Federico sentiva come un obbligo morale: Mayerling! Nella Cripta dei Cappuccini la tomba di Maria Vetsera era assente. Dante fu più pietoso con Paola e Francesca e concesse loro l’eternità insieme, invece il sepolcro della baronessa è in qualche luogo di cui le guide turistiche non fanno menzione.

La mattina scorreva lentamente, come il Neckar sotto di lui. Udì lo sferragliare di biciclette. Senza alcuna ragione riaffiorò alla memoria il sorriso di Angelika. Si voltò in un’assurda speranza: erano ragazze giovani che attraversavano il vecchio ponte come aveva fatto lui tanti anni prima. Il volto di Angelika scomparve nell’acqua del fiume. L’appuntamento era per mezzogiorno; aveva ancora molto tempo per scrivere. Il tempo appeso alla parete! Forse Angelika qualche volta, sfogliando il calendario appeso al muro della cucina, pensava a quei pochi giorni lontani. Si erano seduti su molte panchine e molte panchine c’erano state nella vita di Federico sulle quali aveva scritto lettere, poesie, impressioni.


CAPITOLO QUARTO


Persone


I periodi della vita sono fatti di persone, ma anche di libri. Seduto su panchine Federico aveva soprattutto letto. I periodi della vita sono fatti di libri, ma anche di persone.

Sul ponte iniziavano a transitare i primi mattinieri turisti. Federico non si voltava; da uno scrigno oscuro della mente giunse il ricordo di Pablo e Fiona, dell’ultima sera che si erano incontrati, ma non avevano parlato, erano restati in silenzio. “Nella vita è importante avere un posto dove andare”; essi lo avevano e in silenzio si scambiavano i rispettivi indirizzi, consapevoli che non si sarebbero mai più rivisti. Per quel lungo periodo avevano sì avuto un posto dove andare, ma erano stati coscienti della sua provvisorietà, nondimeno si erano sentiti adottati dalla cittadina e soprattutto dal fiume. Tornare a casa: come il Neckar viene accolto dal grande padre Reno, tornavano nella vita delle loro famiglie, delle loro piccole o grandi città. Quella vita a Heidelberg svaniva, si confondeva con altre diverse vite, come le acque del loro fiume si mescolavano irriconoscibili con altre acque. Erano stille fra altre mille stille, come le lacrime trattenute che gonfiavano i loro occhi e che avrebbero liberato più tardi in solitudine, perché la giovinezza non permetteva ancora di capire la bellezza di un viso solcato dal pianto. I turisti sul ponte aumentavano con il procedere delle ore. In un romanzo di Charles Dickens sarebbero apparsi Pablo e Fiona o Angelika, ma non accadde, non perché la vita non è un romanzo, bensì semplicemente perché non accadde. I periodi della vita sono fatti di persone, ma anche di libri.

Al periodo della lettura dei romanzi di Charles Dickens era legata la conoscenza di Renato, l’amico con il quale Federico giocava interminabili partite a scacchi. Anche questa esperienza era avvenuta su una panchina, al paese. Renato gli si era avvicinato e gli aveva chiesto se fosse disposto ad insegnargli il nobile gioco. Naturalmente con il tempo Renato era diventato molto più bravo di Federico, ma ciò importava poco, perché la loro amicizia era divenuta sempre più profonda. I libri e le partite a scacchi con Renato, giocate d’inverno vicino al fuoco, avevano alleviato il dolore seguito ai lutti. Forse per questo solo a Renato Federico concedeva in prestito libri, dei quali era geloso. In realtà li concedeva anche alla sua ex alunna Sirvat. Non gli era mai piaciuta la nuova moda dei nomi stranieri, tuttavia di fronte a quella ragazza sorridente, dal nome insolito, nella sua anima era entrato qualcosa – non avrebbe potuto definirlo – di esotico e affascinante. Il nome, le aveva spiegato la ragazza, era in onore dei nonni armeni, i cui corpi giacevano insepolti sul Mussa Dag, vittime del primo genocidio del Novecento. Sirvat era nata in Italia e aveva ascoltato dalla madre il racconto della fuga. Sognava di andare un giorno su quel lontano monte per piantare una croce in memoria dei suoi avi, sognava di scrivere un giorno un romanzo che narrasse l’esodo della madre. Federico le aveva donato il libro di Franz Werfel “I quaranta giorni del Mussa Dag”, quando era ancora sua allieva. Sirvat tuttavia amava anche i castelli e le fiabe. Più tardi, dopo il diploma e la sua laurea, ella era divenuta una cara amica. Una cara amica dal dolce sorriso. Avrebbe scritto un romanzo, un giorno, le aveva detto Federico. Esodi! Anna aveva vissuto un esodo diverso, ma pur sempre un esodo, una fuga, finita diversamente, ma Federico pensava spesso a quel viaggio avventuroso, pieno di paure e speranze. Ricordava quando aveva conosciuto Anna: gli occhi vagavano inquieti, timorosi, perplessi. Anna si adattò presto a vivere nella sua casa e ai silenzi prolungati per giorni di Federico. Erano i silenzi per le persone scomparse della sua famiglia, ma c’erano anche i silenzi di Anna, che pensava ai figli, ai nipoti, alla madre, che aveva lasciato in quelle terre lontane. Ella pensava a Federico, come fosse un altro figlio trovato per caso e gli faceva le raccomandazioni che tutte le madri fanno.
Federico telefonò ad Anna. “Federico! Finalmente. Mi fai stare in pensiero. Dove sei? Hai mangiato?” “Sì, certo. Sono a Vienna, ma dovrò partire presto” “Quando torni?” “Non torno adesso. Devo continuare il viaggio. Stai bene? Renato, gli animali?” “Tutti dobre! Federico”. Piaceva a Federico il linguaggio di Anna, che aveva imparato bene la nuova lingua, ma nelle frasi ogni tanto immetteva una parola slava. Doveva telefonare ancora: seppe che Iris era a Budapest.

Procede il Neckar tra piccole e grandi cittadine il suo corso verso il Reno, tocca Tübingen, dove morì Hölderlin, che si chiuse in una torre per quindici anni, ma anch’egli rese omaggio a Heidelberg: “A lungo ti ho amato, te, la più paesana/ di quante vidi città della patria (…) Sul ponte mi prese l’incanto nell’ora che ci passavo”. Scorri, Neckar, fiume di sogno, ma lentamente lascia sognare i tuoi amanti, cullati dalla visione delle tue femminee anse, delle tue albe e dei tuoi tramonti, che mille e mille lingue si mescolino nel tuo flusso eterno, che mille poeti con mille diversi idiomi si ispirino lungo le tue rive ed i tuoi ponti, lascia che sapiente il contadino curi i suoi vigneti. Scorri, Neckar, nel cuore dei tuoi amanti, ascolta le grida liete dei bambini che giocano sulle tue rive, ascolta lo sferraglio delle biciclette tra i vicoli delle tue antiche cittadine, guarda i giochi dei bianchi cigni sulle tue sacre acque, culla col il tuo mormorio eterno i passi stanchi dei viandanti. Lascia che stanco il viandante sieda sulle panchine sparse sulle tue sponde e goda del tuo azzurro, struggendosi di nostalgie.

C’era nella vita di Federico un’altra panchina, a cui pensava spesso: una sera di festa al suo paese aveva conosciuto una fanciulla, appena sedicenne e, su una panchina appartata dove arrivava lieve il brusio della gente a passeggio e la musica della banda, avevano parlato a lungo. Con il tempo Federico si era innamorato o forse lo aveva soltanto creduto ed una ultima sera di un anno – egli non ricordava quale – aveva chiesto alla ragazza di uscire, ma ella sorridente aveva ringraziato per l’invito dicendo che era già impegnata. Così era svanita. La ragazza si era sposata pochi mesi dopo. Ogni volta che Federico la incontrava, nella sua mente appariva la panchina, ma vuota, le luci della festa, il suono lontano della fanfara. In verità ogni tanto Federico le consegnava qualche poesia, che forse ella gettava nel cestino o forse conservava in qualche scrigno segreto, chiuso per essere riaperto per caso fra molti anni, poesie chiuse e silenziose come erano state chiuse le lettere di Iris. Quante lettere non sono mai giunte al destinatario, perdute o mai spedite? Una letteratura segreta e silente che nessuno mai potrà leggere.


CAPITOLO QUINTO


Verso Est


Federico salì in treno, diretto a Budapest, verso Est. Da est era venuta Anna, da Est proveniva Sirvat. Federico guardava dal finestrino l’andirivieni della folla nella stazione “Franz Josefs Bahnhof”.

C’era nella stazione di Heidelberg una grande bacheca di vetro con dentro un modellino di una parte della ferrovia tedesca e con cinque pfenning si potevano vedere piccoli treni partire, viaggiare, incrociarsi. Pablo, Fiona e Federico ogni tanto cedevano alla loro parte infantile e lasciavano viaggiare i modellini, sognando di viaggiare un giorno insieme per il vasto mondo, verso sud, ovest, nord, est.

Il treno partì lentamente, dinanzi a Federico sfilavano le panchine vuote poste sulla piattaforma del binario, che non avrebbero mai potuto narrare l’umanità che in quel luogo si era incontrata o che si era detta “addio” per sempre. Tra Iris ed Antonio non c’era mai stato nessun addio. Come aveva vissuto quel silenzio, dovuto a Federico? Egli provava ad immaginarlo, a mettersi al posto di Iris, ma, sebbene conoscesse Iris e la sua casa e sebbene abituato a leggere romanzi, gli risultava difficile figurarsi al suo posto. Gli era molto più facile essere Ulisse nella terra dei Ciclopi o Capitan Achab a caccia della balena bianca. Che cosa aveva pensato Iris? Che cosa aveva detto alla figlia? Queste domande risuonavano nella mente di Federico come quelle di un giudice convinto della sua colpevolezza. Poteva riparare dopo tanto tempo? Formulava il discorso che avrebbe fatto ad Iris, una, due, tre volte, cambiava le parole ed il tono, ma ogni giustificazione sembrava inadeguata. Sua era totalmente la colpa. Ormai le case di Vienna in lontananza apparivano piccole.

Vienna, 19**
Carissimo Antonio,
sono ormai al quinto mese di gravidanza. Ti scrivo pur sapendo che non mi risponderai mai più. I miei genitori hanno insistito per un viaggio a Vienna. È una città stupenda e piena di suggestioni. Sai, spesso, ascoltando il nostro accento tedesco, i camerieri nei ristoranti e nelle Konditoreien ci guardano con una certa ostilità. Gli austriaci non amano i tedeschi, ma non importa, sono felice egualmente per essere venuta. Felice? Mi pare strano usare questa parola che prima associavo soltanto al periodo trascorso con te, in Italia. Sai, ieri pomeriggio si giocava una partita di calcio tra Austria e Germania; naturalmente io non la guardavo, ma eravamo in un Café ed era inevitabile sentire il telecronista. Ha fatto Tor un austriaco, ma la gente nella caffetteria ha esultato con molta correttezza. Ho pensato che in una vostra pizzeria si sarebbe scatenata una festa ad una rete dell’Italia. Nei locali qui la gente parla sommessamente, mentre da voi c’è sempre chiasso. È forse un rapporto diverso con la vita. In realtà, quando ero in Italia, non mi piaceva questa esuberanza, ora mi manca. Ho poco, mi dico spesso, da essere felice, invece a dispetto di tutto lo sono, a dispetto del fatto che tu non mi scriva, a dispetto di aver dovuto cambiare i miei progetti di vita per la mia condizione. Tu non scrivi e in realtà avevo pensato anche di venire, ma ho cambiato idea. Non so quali ragioni ti inducano a non farti più sentire e non voglio più conoscerle. Non c’è rabbia in me, solo un po’ di delusione, che con il tempo passerà, soprattutto dopo la nascita del nostro bambino, anzi del mio, perché credo che non sia più tuo, nel senso che un padre per essere tale deve essere presente, vedere, giocare con il proprio figlio. Ho detto bambino, ma non so se sarà maschio o femmina.
Iris


Sua era totalmente la colpa. Nel periodo di studio a Heidelberg aveva conosciuto Iris sul ponte vecchio all’alba e la sera ella era arrivata come cliente nella birreria dove egli esercitava il mestiere di cameriere. Quando Iris aveva chiesto il conto, Federico aveva risposto “Nichts” e aveva pagato lui stesso, forse per il sorriso della ragazza, forse perché ci sono gesti che si fanno senza ragione. Si erano incontrati altre volte nella Hauptstraβe e qualche volta Iris, passando dinanzi alla panchina, si era seduta insieme con lui, Pablo e Fiona. Una sera tuttavia Federico era arrivato molto presto e sedeva da solo; passò Iris che gli augurò la buona sera in italiano. Seppe solo allora che la ragazza aveva studiato la lingua italiana: «Perché non mi hai detto che parli italiano?» chiese Federico; «So che siete qui per imparare il tedesco e poi ho sempre paura di sbagliare» «Era così anche per me nei primi giorni in Germania, ma poi la paura è passata». Era una strana conversazione, perché Federico parlava in tedesco ed Iris in italiano. Arrivarono infine Pablo e Fiona ed uno dei due chiese ridendo «Vi capite?». Il gruppo scoppiò a ridere, di quel riso incontenibile, stupido e meraviglioso di cui solo i giovani sono capaci. Iris divenne la loro amica tedesca. Una sera la ragazza invitò gli amici stranieri a cena, nella sua casa situata sulle pendici dello Spitzberg, il monte che sovrasta Heidelberg e che ha orgogliosamente lo stesso nome di un’isola della Groenlandia. Nonostante il nome, il declivio è ricco di vigneti. Mentre i tre ragazzi salivano e si voltavano di tanto in tanto ad ammirare il paesaggio, che come sempre li incantava, Federico pensava al vigneto di sua madre, alle vendemmie fatte insieme con tutta la famiglia quando era ancora bambino, al canto delle donne che riempiva la collina. Giorni semplici e felici! O forse felici soltanto nel ricordo! Il cancello era aperto e introduceva in un viale di ghiaia ai cui lati stavano, come antichi guardiani, alti ontani. Apparve Iris con due grossi pastori tedeschi al lato per dare il benvenuto ai tre nuovi amici stranieri. Entrarono nella grande villa di legno. I tre ragazzi si guardavano attorno incuriositi: era la prima volta da quando erano nella cittadina che entravano in una casa privata. Essi erano abituati alla scuola, alla loro piccola cucina nel Wohnheim, ai Gasthäuser ed erano felici di questa nuova amicizia, che li rendeva un po’ più cittadini di Heidelberg. C’erano, come in tutte le case, fotografie appese alle pareti e poggiate sui tavoli. Furono introdotti prima nella biblioteca. I ragazzi non accettarono l’invito di Iris a sedersi, ma si aggiravano nella stanza guardando i libri, che non erano solo in tedesco, ma anche in francese, in italiano e qualcuno anche in russo. Federico si sentiva a casa solo tra i libri; i libri erano il suo nutrimento spirituale, ma non solo spirituale: egli li guardava, li toccava, li odorava e quest’odore era quello della sua vita. Entrarono i genitori di Iris e si presentarono stringendo forte le mani dei ragazzi. Dopo qualche parola per informarsi da dove provenissero i tre stranieri, la conversazione sembrava finita, ma Pablo la rianimò, non piacevolmente tuttavia. Era il 13 agosto ed in Germania era quasi una giornata di lutto: il 13 agosto del 1961 a Berlino era iniziata la costruzione del muro che avrebbe diviso per tanti anni molte famiglie. Fiona temeva che il discorso potesse cadere sul nazismo e riuscì a cambiare argomento, non senza qualche occhiataccia a Pablo ed a Federico, che in verità non era affatto intervenuto, tuttavia seduti sulla panchina avevano spesso parlato di come si sentissero ora gli ex-combattenti della Wehrmacht o addirittura chi aveva fatto parte delle SS. A Federico veniva spesso detto, quasi come un rimprovero, che in fondo lui si sentiva innocente, visto che suo padre, durante il fascismo, indossava la cravatta all’anarchica e che era stato perfino proposto per il confino. È facile essere dalla parte giusta, più traumatico essere discendenti di colpevoli. Passarono nella sala da pranzo. Ben presto fu servita la cena, quella cena in cui era iniziato il destino. Fu allora che Federico invitò Iris in Italia. E giunse presto settembre e il viaggio di ritorno e presto fu amore tra Iris ed Antonio.
Il treno entrava nella stazione di Budapest. Budapest, porta d’oriente, ma quale oriente? Da quali ignote terre proviene il popolo magiaro? Quale lingua misteriosa è mai questa? Dall’est lontano o da folte e silenti foreste? Budapest non è silenziosa, anzi è l’esatto contrario di Vienna: se nella capitale austriaca non si è mai tra la folla, qui si è sempre nella moltitudine. Non c’è strada o vicolo che non sia occupato da più gente di quanta vi possa in realtà entrare. Si cammina sfiorando di continuo i passanti, tra chiasso ed odore forte di cipolla. Fu questa l’impressione di Federico mentre usciva dalla stazione e si avviava verso l’Hotel Saturnus, dove aveva prenotato e dove sapeva essere Iris. Iris era uscita; Federico immaginò che fosse andata in biblioteca. Con una cartina in mano si propose di cercarla. Era mattina e si fermò in un Café per fare colazione. Seduto con la sua tazza di caffè e una fetta di torta di mele guardava uomini e donne che passavano. Vite che si sfiorano e forse non s’incontrano o forse s’incrociano in un altro luogo e in un altro tempo: fili infiniti tessuti che intessono una fitta ragnatela, così come un romanziere intesse la sua narrazione. Interviene un caso imprevisto e distrugge il paziente lavoro, la mano della donna delle pulizie per il paziente ragno, una dimenticanza o un ricordo improvviso per il letterato. Ma il caso imprevisto esiste nella vita di chiunque e lacera progetti e speranze. La morte di Antonio aveva cambiato la vita dell’intera famiglia di Federico ed anche la casa non era stata più la stessa, perché una casa è costruita solo esternamente di mattoni e cemento, mentre è fatta dalle persone che vi abitano. Erano cambiati gli odori e le voci nella sua grande casa. Voci strane quelle di Budapest! Federico camminava tra la folla e sentiva parole del tutto nuove, mentre a Vienna la lingua, le parole o i lacerti di frasi, percepite per strada, sebbene in un accento non noto, risultavano familiari. Era diretto in biblioteca e tra i libri si sarebbe sentito a casa. Straniero ovunque, la patria di Federico era tra le pagine sfogliate con amore, era sulla panchina a Heidelberg e su altre mille panchine, era in qualche taverna dove su un vecchio tavolo aveva scritto una poesia o una lettera d’amore mai spedita. Entrò nella Biblioteca Nazionale Széchényi, cercando subito con lo sguardo. Ragazze e ragazzi e qualche persona attempata stavano seduti attenti allo studio ed alla lettura. La sua mente non poté non andare alla sua amica Patrizia, a quel tempo durante il quale avevano frequentato molte biblioteche e avevano parlato di libri, o almeno lo avevano creduto, perché parlare di libri è parlare d’amore. Quante parole taciute c’erano state tra quei discorsi! Che aspetto avrebbe avuto oggi Patrizia? Che aspetto aveva Iris? L’avrebbe riconosciuta? Non ce ne fu bisogno, perché non la trovò. Bisognava andare in un’altra biblioteca, alla Biblioteca dell’Università e, se qui non ci fosse stata, alla Biblioteca Ervin Szabò. Non trovò Iris. Forse era già andata via, ma Federico iniziò a temere che si fosse attardato troppo a lungo per la colazione e contemporaneamente lo sfiorò il pensiero che in realtà non volesse trovarla o per la difficoltà del discorso che avrebbe dovuto tenere o perché in fondo lo affascinava il viaggio e la stessa ricerca. Questa idea fece sì che egli si sentisse colpevole come per le lettere chiuse nel cassetto per vent’anni e di conseguenza che avesse fretta di tornare all’albergo. Uscito dalla biblioteca, chiamò un taxi. Dal portiere seppe che Iris aveva lasciato l’albergo, ma Federico non chiese per quale destinazione, memore della riposta del portiere dell’Hotel Austria. Era un errore, perché il magiaro avrebbe parlato dietro una discreta mancia. C’erano altre domande che torturavano Federico: “Perché i genitori di Iris non avvertivano la figlia che egli la stava cercando, o, per essere più precisi, inseguendo? O l’avevano fatto ed Iris fuggiva da lui, da un passato che aveva cancellato dalla propria vita?”. Nelle lettere non c’era un sentimento di rancore o di astio. Non aveva voglia di ripartire subito, sebbene sapesse che un altro ritardo avrebbe acuito in seguito il suo senso di colpa. Chiamò un altro taxi e chiese all’autista di percorrere due volte, ovvero in un senso e nell’altro, le rive del Danubio. Mentre l’auto scivolava lentamente, Federico non riusciva a fare a meno di pensare al Neckar, alla sua panchina, a Pablo e Fiona. Dove erano ora i suoi amici? Qual era stata la loro vita, il loro destino? Le acque del Danubio si mescolavano con quelle del Neckar. “Fahren Sie nach Buda, bitte” chiese Federico. L’auto traversò il Ponte delle catene, ma egli non provò l’incanto che provava sul ponte vecchio di Heidelberg, anzi gli vennero in mente le stragi di ebrei che le frecce crociate fecero sulle rive del Danubio. Come è possibile che un popolo così allegro possa giungere a simili mostruosità? Era un discorso fatto già mille volte con Pablo e Fiona: la Germania non era forse il popolo di Goethe e Beethoven? Weimar non era stata forse la repubblica dei geni del Novecento? Quale follia aveva indotto il popolo tedesco a credere in un pazzo e soprattutto a non voler vedere cosa accadeva al vicino ebreo, omosessuale, disabile, testimone di Geova o agli zingari, i cui carrozzoni scomparivano da un momento all’altro senza lasciare traccia? Ironia della storia: Lager significa giaciglio e Buchenwald significa bosco di faggi! Echeggiavano questi discorsi nella memoria di Federico.

«È così. Non ci può essere spiegazione alcuna di ciò che accadde» disse qualcuno dei tre seduti sulla panchina.
«La storia è come la letteratura: non deve darci spiegazioni, ma indurre a fare domande».
«Non sono d’accordo. La storia è veramente maestra di vita, ma occorrono anche buoni allievi e la maggioranza degli uomini non lo è».
«Allora tu credi che possa accadere ancora?».
«Non lo so, ma posso chiederti una cosa? Noi amiamo la letteratura, l’arte, la filosofia, la musica. Quali sono i periodi più floridi culturalmente nella storia dell’Europa?».
«Credo la Grecia di Pericle, il Rinascimento italiano e la Repubblica di Weimar?».
«Lasciamo stare la Grecia, ma pensa che il Rinascimento ha messo al rogo più streghe del Medioevo. Concentrati su Weimar. Quello che hai detto è vero ed è per questo che è inquietante».
«Non ti capisco».
«C’è una domanda che devi, anzi che dobbiamo porci: la cultura è un limite alla barbarie? È questo il dubbio che ci ha lasciato la storia del Novecento».
«E tu hai una risposta?».
«No. Ma non sono le risposte importanti, bensì le domande. Se sappiamo le domande giuste, forse, dico forse, possiamo costruire un mondo migliore di quello che è stato fino ad ora».


Quella conversazione doveva essere continuata a lungo, ma Federico non ricordava chi avesse detto quella o quell’altra frase. Ora, a distanza di tempo, gli pareva una magnifica conversazione ma giovanile. Costruire un mondo migliore! I grandi ideali della giovinezza erano stati portati lontano dalla corrente del Neckar e poi erano sopraggiunte le preoccupazioni quotidiane. Grandi ideali! Federico era sceso dal taxi e guardava il monumento al partito comunista ungherese. Il comunismo non era stato un sogno? E la sua morte era iniziata qui, a Budapest, con la rivolta del 1956. Un sogno tradito! Per quel tradimento uomini e donne erano morti, chi per affermarlo, chi per opporsi ad esso. Anna, la sua amica ucraina, che ora vagava nelle stanze silenti della grande casa, aveva vissuto il sogno e la tragedia. Uomini e donne della sua famiglia avevano combattuto per la bandiera rossa o erano stati mandati in qualche Gulag, quando avevano iniziato a dubitare. In ogni uomo, anche nel più irreligioso, c’è la speranza di un messia, si chiami Cristo o Marx, un messia che possa dare dignità ad ogni uomo. Erano discorsi giovanili, invece ora incombeva la sfera personale, la tragedia di suo fratello Antonio e la missione che si era proposto. Doveva tornare all’albergo. Iris era partita. Per Berlino seppe dalla famiglia.


(continua seconda parte)

1) Kakanie è parola formata dalle iniziali di Königliche Kaiserliche Monarkie (Regia Imperial Monarchia. Nell’alfabeto tedesco k = ka
2) Roth, Joseph, La cripta dei Cappuccini, Adelphi
3) «Quando parti?» «Domani» «Peccato!»
4) Roth, Joseph, La cripta dei cappuccini, Adelphi, 2007
 


 
rammemorare/dismemorare 
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Mario Amato
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LETTERE DA LONTANO - Seconda Parte
 
CAPITOLO SESTO


Perché Berlino?


Perché Berlino e non Praga? Federico aveva sperato che la destinazione di Iris fosse Praga. Se gli avessero chiesto quale fosse il suo scrittore preferito o il libro migliore che avesse letto, Federico non avrebbe saputo rispondere, perché ogni libro è un’esperienza diversa, tuttavia egli aveva un amore particolare per Franz Kafka. Non erano soltanto i racconti e i romanzi di Kafka che lo affascinavano, ma anche immaginare lo scrittore seduto nella sua piccola stanza in completa solitudine, teso ad ascoltare il silenzio della notte e dei suoi sogni. Molte volte aveva pensato e progettato di visitare Praga, ma aveva sempre rimandato. Ed anche ora questa occasione sfuggiva. In fondo non era un viaggio di piacere. In compagnia di questi pensieri Federico stava sprofondato nel sedile del vagone del treno per Berlino. Con gli occhi socchiusi sentiva il vocio della gente che saliva sul treno, sistemava i bagagli, ma ogni rumore gli giungeva attutito, come da una lontananza infinita, segno che stava per addormentarsi; infatti, non si accorse del momento della partenza. Era già stato una volta a Berlino, nell’età heidelberghiana, come egli stesso chiamava quella fase della sua vita, e ricordava come aveva raccontato quei tre brevi giorni a Pablo e Fiona.

«Cosa ci racconti di Berlino?».
«Che cosa vuoi sapere, Pablo?».
«Raccontaci la città».
«Fiona, hai letto “Berlin Alexanderplatz” di Döblin? Berlino non è diversa da quella rappresentata nel romanzo».
«Federico, l’ho detto già mille volte, tu sei troppo letterario e la vita non è un libro. Vogliamo sapere quello che hai fatto in quei tre giorni».
«Pablo, lo sai, sono stato interrogato da un Vopos».
«Sei andato a Berlino est?».
«Sì, Fiona».
«E perché sei stato interrogato? Che hai fatto?».
«Non ho fatto niente. Alla frontiera mi hanno detto di aprire la sacca da viaggio e dentro c’era un libro proibito nella Germania Est».
«Che libro?».
«I racconti di Joseph Roth».
«Ed è un libro proibito?».
«Sì».
«Racconta».
«Un uomo mi ha ordinato di seguirlo; siamo scesi per una scala strana, di metallo, a chiocciola, molto stretta, fino ad una stanza dove c’era soltanto un tavolo. L’uomo mi ha chiesto di mettermi con le spalle al muro ed aspettare ed è andato via. Subito si è acceso un riflettore, puntato su di me. Dopo un quarto d’ora è arrivato un altro uomo, ma io vedevo soltanto i suoi stivali. Stava dietro il tavolo ed ha cominciato a chiedermi il mio nome, la nazionalità, come mai parlassi tedesco, cosa facessi in Germania e poi ricominciava con le stesse domande, ma in ordine diverso».
«Quanto è durato l’interrogatorio?».
«Più di un’ora».
«Hai avuto paura?».
«Certo che ho avuto paura. Lo sapete, quando sono uscito dalla stanza, mi sono accorto di aver fatto pipì nei pantaloni».
«Che bambino!».
«Pablo, non sfottere Federico. Anche tu avresti avuto paura».
«Certo, ma immagina che puzza adesso ad Alexanderplatz!».
La conversazione si chiuse con una risata.
Il Neckar forse ascoltava, anche quando ognuno dei tre amici sedeva da solo sulla panchina e pensava. Fiona si chiedeva perché né Pablo né Federico la amassero e ognuno dei due si domandava se fosse innamorato di Fiona o se lo fosse l’altro. Il fiume continuava il suo mormorio eterno.


I ricordi si confondevano con il vocio dei passeggeri e con le scene che si alternavano al finestrino allorché Federico, di tanto in tanto, apriva gli occhi. L’altoparlante interno annunciò che stavano per arrivare a Berlino. Perché Berlino? Si chiese ancora una volta Federico. Che cosa rappresentava Berlino per lui, oltre al ricordo dell’interrogatorio con il Vopos? Forse niente, se non una città legata ai libri che aveva letto, però per Federico i libri rappresentavano la vita, soprattutto la vita notturna. Un verso di J. L. Borges, autore amato da Federico, recita “Le mie notti sono fatte di Virgilio“; le notti di Federico erano fatte di Thomas Mann, Joseph Roth, Borges ed altri autori. Berlino era un’immagine su libri di storia con bandiere con la svastica e il palco su cui era Hitler, era l’immagine della città rasa al suolo, era una scena in bianco e nero del film “Berlino anno zero” di Rossellini in cui donne trascinano carretti con poche coperte o di bambini che giocano tra le macerie, era il ricordo della pagina del romanzo di Alfred Döblin “Berlin Alexanderplatz” in cui Franz Biberkopf si trova solo nella confusione della piazza e comprende che tutta la sua vita disperata dipende da lui.

Era l’imbrunire e i tre amici si trovavano, come al solito a quell’ora, sulla panchina di fronte al Neckar, quando una ragazza con i capelli in disordine, la gonna lunga dal colore sbiadito, i sandali consumati, si avvicinò e chiese una sigaretta. Mentre Federico stava per regalarle l’intero pacchetto, un ragazzo, che i tre conoscevano, urlò ed iniziò a dire alla fanciulla di essere un commissario di polizia e di volerla condurre in questura. Fiona, Pablo e Federico rassicurarono la ragazza, palesemente spaventata, e riuscirono a mandar via quell’uomo con cui non avevano alcuna amicizia.
«Questo è il vero problema del mondo moderno» disse Federico.
«La ragazza o quello che l’ha spaventata?» chiese Fiona.
«Entrambi, naturalmente» aggiunse Pablo, come se sapesse già ciò che voleva dire Federico, forse per discorsi già avvenuti.
«Non capisco» confessò Fiona.
«Ascolta» precisò Federico «Con lo scoppio della rivoluzione industriale il problema era il raggiungimento della dignità, anche economica, da parte del proletariato. Molti passi avanti sono stati fatti per questo, anche se c’è molta strada ancora, ma sarà percorsa in qualche modo. Lo sai che la Germania ha la maggiore percentuale di vagabondi d’Europa?».
«La ricca Germania?» domandò sorpresa Fiona.
«Sì, la ricca Germania!».
«Che c’entra con il proletariato?» incalzò Fiona.
«In Germania molti adolescenti abbandonano le famiglie e vanno ad ingrossare il numero dei vagabondi, dei disperati che vivono sotto i ponti e diventano alcolizzati, drogati, criminali, mendicanti. Questo accade anche negli Stati Uniti. Il sogno americano è una delle più grandi bugie della storia» continuò Federico.
«Non mi hai risposto».
«Lo faccio subito. Il vero problema del mondo moderno è il sottoproletariato ed è un problema di difficile soluzione» concluse Federico.
«Perché di difficile soluzione?».
«Perché gli esseri umani che compongono il sottoproletariato sono di diversa estrazione sociale e non sono inquadrabili politicamente» intervenne Pablo.
«Tutto giusto. La ragazza rappresenta il sottoproletariato. E quell’uomo che l’ha spaventata? Perché è un problema sociale e politico?» continuò a chiedere Fiona.
«Anche religioso!» continuò lo spagnolo «C’è dunque un’umanità che vive ai margini, uomini e donne che sfioriamo ogni giorno della nostra vita e di cui non ci accorgiamo, se non raramente, se non per un attimo impercettibile. Noi non siamo religiosi, ma dovremmo ricordare che, volenti o nolenti, nella nostra cultura c’è il cristianesimo o almeno una parte di esso. “Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te” non è un principio cristiano, è un principio sociale. L’uomo che ha spaventato la ragazza rappresenta il vero inferno della nostra società: l’incomprensione verso i più deboli, verso coloro che sono stati sconfitti dalla vita, anche se la vita non dovrebbe mai essere una battaglia o una guerra. Anche gli Stati sono colpevoli».
«Perché?».
«Che cosa fa lo Stato per queste persone? Dice: sei scappato da casa? Sei un mendicante? È stata una tua scelta, non è affar mio. E se crepi, è un pensiero in meno per me».
«Cosa si può fare allora?».
«Iniziare dai bambini» disse Federico.
«Dai bambini?».
«Certo. Iniziare dalle scuole: educare i bambini al rispetto per tutti».
«Io farò la maestra un giorno e se mi verrà in mente di dare uno schiaffo ad un bambino, ricorderò questo discorso. Credo che non dimenticherò mai il viso di quella ragazza».
La conversazione era terminata, si era fatto buio, i riflessi dei lampioni tremolavano nell’acqua del fiume, ma gli amici non avevano voglia di alzarsi. Il Neckar scorreva …


Erano immagini in bianco e nero e così gli sembrava la città allorché scese dal treno. In fondo non gli dispiaceva essere a Berlino, perché dopo aver subito l’interrogatorio da parte del Vopos, non l’aveva visitata ed ora si presentava l’occasione. Ecco ancora una volta si sentì in colpa: non era un turista ed aveva un compito da assolvere. Ma chi non ne ha? E bisogna trascurare i piaceri per adempiere il proprio dovere? La vita è fatta di pause come i viaggi sono fatti di soste e deviazioni. Erano forse soltanto auto-giustificazioni, ma che importava? Non aveva prenotato nessun albergo, però non gli dispiaceva andare, per così dire, all’avventura. Non aveva chiesto il nome dell’albergo dove risiedeva Iris, ma per timore di prendervi una stanza decise di telefonare. Aveva pensato che se si fossero incontrati per caso, Iris avrebbe potuto avere un’impressione troppo violenta, qualora lo avesse riconosciuto. Mentre si avviava verso la cabina, passò dinanzi al binario dal quale partiva il treno D 1249, diretto ad Astana, la nuova capitale del Kazakistan. Anna aveva lavorato e vissuto in Kazakistan, dove una sua parente aveva trascorso dieci anni in un Gulag. Era a Berlino, dove un pazzo di nome Hitler aveva avviato lo sterminio di molti esseri umani. Lager, Gulag! Perché gli uomini sono così pazzi! Anna ora era tranquilla, vagava per casa, leggeva libri, guardava la televisione, si occupava dei due cani e dei molti gatti, curava il giardino, ma si possono dimenticare anni oscuri e senza speranza? I nonni di Sirvat erano da qualche parte sul Mussa Dagh e forse i loro cadaveri non avevano avuto sepoltura.
Seppe il nome dell’albergo di Iris. Si recò all’ufficio d’arrivo della stazione e prenotò una stanza al NH Berlin Alexanderplatz, perché il nome della piazza gli ricordava la conversazione con Fiona e Pablo ed anche perché gli sembrava così di rendere omaggio a Franz Biberkopf, uno dei primi sottoproletari della letteratura. Il giudizio di Pablo era veritiero: Federico era malato di letteratura. Era mattina presto e Federico giunse all’albergo in orario per accedere alla camera e per fare colazione. La sala pranzo era ampia e il cameriere chiese al nuovo cliente se preferisse la colazione calda o fredda. Federico era abituato a mangiare abbondantemente al mattino: prese una tazza di caffè nero con un po’ di latte, tre fette di pane nero con varie marmellate e una porzione di Apfelstrudel. Infine si recò in camera per una doccia e si gettò sul letto. Il sonno venne senza farsi attendere. In fondo un viaggio in treno stanca, anche se si sta seduti in un continuo dormiveglia, tuttavia nel breve tempo anteriore al sonno a Federico pareva ancora di sentire il rumore monotono del treno, che custodiva i suoi pensieri o li conduceva lontano, forse a Praga, che non avrebbe ancora visto, forse a casa, insieme ad Anna, forse ancora una volta nella sua Heidelberg, sulla panchina con i suoi amici stranieri. Stranieri? Ci si può sentire stranieri ovunque, perfino nel proprio paese, perfino nella propria casa. Non gli erano sembrate forse sconosciute le stanze della sua abitazione dopo ogni trapasso dei suoi familiari o più semplicemente non gli era mancato l’odore delle mattine nelle vie e nei vicoli di Heidelberg al ritorno al paese? Ed anche ora, a volte, quando usciva di casa per recarsi al lavoro, il ricordo di quel profumo lo investiva e portava con sé anche le voci di Fiona e di Pablo. Dove si è di casa? Non erano state case – Heimat, per essere più precisi – le panchine su cui si era seduto, le taverne dove si era fermato, la lingua che aveva imparato e che faceva parte del suo essere, le poche donne che aveva conosciuto? Casa, patria, parole che avevano senso soltanto se le associava ad un volto, ad un aroma, ad un sapore, ad una voce. Fiona, Pablo, Patrizia, Anna, Angelika, la fanciulla, Franco, Renato erano la sua patria, come Antonio, la madre ed il padre. La parola “nazione” non aveva alcun senso senza di loro o senza il loro ricordo.
Si svegliò alle undici. Era ora di uscire e continuare la ricerca. Il clima era rigido, nonostante la giornata fosse illuminata dal sole. Federico alzò gli occhi verso la torre di Alexanderplatz, che prima della sua punta presenta una sfera. Sfiorò la stazione della metropolitana. La piazza era per lui quella descritta nel libro di Döblin, attraversata da tram che rendevano rumorosamente insopportabile la vita. Ora c’era la metropolitana, che portava la vita sottoterra, nascondendola. Pensò a Franz Biberkopf, appoggiato ad un palo della luce in Alexanderplatz, solo e sconosciuto anche a se stesso. Dentro di sé Federico sorrise: non si sentiva come il personaggio del romanzo. Il caos cittadino descritto da Döblin assomigliava ad un perfetto stato di calma, paragonato a quello delle attuali città. Si sentì comunque contento di essere solo. Anch’egli era in un perfetto stato di calma, sebbene la ricerca lo preoccupasse. Era forse lieto di non aver trovato ancora Iris? E perché? Per paura del turbamento che ella avrebbe potuto provare? Oppure perché in fondo gli faceva piacere girare per l’Europa, vagabondare per le vie delle città, trovarsi ora in Alexanderplatz ed interrogarsi sulle ragioni che lo spingevano a proseguire il viaggio? Era in Alexanderplatz, solo, senza sapere dove andare, come Franz Biberkopf oppure come Franz Tunda, il protagonista di un romanzo di Joseph Roth(5), che si ritrova, dopo la prima guerra mondiale, a Parigi, in piazza della Concordia ed “ascolta rapito il canto dei tarli”. Federico non era né un sottoproletario, né un uomo in perenne fuga e la sua non era una grande avventura, ma una semplice storia personale. Era in Alexanderplatz: ripeteva spesso dentro di sé di essere là. E si domandava perché. Da quale biblioteca iniziare? Presso un chiosco comprò una cartina della città: a Vienna era stato in grado di girare senza mappa, grazie ai romanzi degli autori letti, ma Berlino era cambiata totalmente rispetto alla città che conosceva dai libri. Berlino sembrava un cantiere aperto. Iniziò dalla Universitäbibliothek, sebbene fosse distante. Scese nella stazione della metropolitana: migliaia e migliaia di esseri umani nascosti, sogni, delusioni, speranze, amori, odii che scorrono sottoterra in tutte le grandi città. Nel silenzio della biblioteca universitaria non trovò Iris. Il mezzogiorno era passato. Guardò sul retro della mappa i nomi dei ristoranti e decise di andare all’Oberbaum Restaurant. Fu contento della scelta, perché qui, mentre mangiava una Boulette, una polpetta fritta, e beveva la tipica birra Berlinerweiβe, poteva guardare il fiume Sprea. Gli parve di veder passare Iris sul ponte. Sul Ponte Vecchio di Heidelberg si erano conosciuti ed era logico che si incontrassero nuovamente su un ponte. Pagò in fretta ed uscì, ma giunto sul ponte, si trovò completamente solo. Da che parte andare? Si sporse per guardare il fiume ed ancora una volta quelle acque si confusero con quelle del lontano Neckar.

«Qual è l’ultimo libro che hai letto?» chiese Federico a Fiona.
«Quello che mi hai consigliato».
«“Il ponte sulla Drina” di Ivo Andric?».
«Sì».
«Che ne pensi?».
«Avevi ragione. È un grande romanzo, un capolavoro assoluto. Il terzo capitolo mi ha sconvolto»(6).
«Perché?»
«Per la descrizione dell’impalata a cui viene sottoposto l’attentatore. È eccessivamente minuziosa».
«Doveva esserla».
«Per te non è stato sconvolgente quel capitolo?»
«No. È un altro capitolo che mi ha sconvolto».
«Quale?».
«Il capitolo in cui l’imam, il rabbino ed il pope discutono, seduti sulla panchina, sul sofà di pietra, per decidere chi debba andare a parlare con il comandante austriaco».
«Cosa c’è di sconvolgente?».
«È un’immagine di un mondo perduto: tre rappresentanti di tre religioni e di tre culture diverse siedono e parlano da buoni amici, ma questo è possibile per l’ultima volta, perché di lì a poco si sarebbe scatenata la prima guerra mondiale e con essa i maledetti nazionalismi. Solo negli Imperi era possibile vivere tutti insieme senza odiarsi, senza idee di supremazia di un popolo su un altro».
«Anche noi tre apparteniamo a nazioni e culture diverse e siamo buoni amici».
«Certamente, ma noi non rappresentiamo nulla. Siamo pur sempre stranieri qui. A proposito, dov’è Pablo?».
«È andato a Stoccarda. Torna domani. Federico, lavori stasera?».
«Certamente».
«Avevo pensato di cenare insieme da qualche parte».
«Non posso. Avrei dovuto avvertire almeno con due giorni di anticipo».
Chissà se Fiona aveva fatto la stessa proposta a Pablo, quando Federico si trovava a Berlino.
«Ho un’idea».
«Dimmi».
«Hai mai visto Heidelberg deserta?».
«Come è possibile? È sempre piena di turisti e di studenti come noi».
«Lo sai che dopo il lavoro in birreria vado al forno e prendo il pane per portarlo in vari ristoranti. Vieni alle tre e mezzo dinanzi al forno con la bicicletta».
«Alle tre e mezzo di mattina?».
«Ovviamente».
«Va bene. Metterò la sveglia, ma non sono sicura di alzarmi».
Fiona fu puntuale e cominciarono il giro per la cittadina. Entrando sul Ponte Vecchio echeggiò lo sferraglio delle vecchie biciclette sulle poche assi di legno che si trovano all’inizio dalla parte della nuova di Heidelberg. A metà ponte Federico fece segno di fermarsi.
«Ascolta».
Fiona non aveva mai sentito prima d’allora tanto distintamente il mormorio del Neckar. Esso sarebbe rimasto per sempre impresso nella memoria.
«Tra poco ci addentreremo nei vicoli. Respira intensamente i profumi».
L’aroma di pane appena sfornato li investì.


Federico si sentì scuotere per un braccio.
«Alles in Ordnung?» (Tutto a posto?)
«Alles in Ordnung. Danke».
Era una poliziotta. Era già l’imbrunire. Quanto tempo aveva guardato il fiume? Le ore erano trascorse trasportate dall’acqua dello Sprea o del Neckar verso un mare di ricordi. Quel tempo era lontano: Heidelberg era lontana, Fiona era lontana, le biciclette erano lontane. Erano nelle acque del Neckar. Ora c’era altro da fare: non più vagabondare per ascoltare il mormorio del fiume, per respirare l’aroma del pane, per cogliere attimi da imprimere nella memoria, ma cercare un filo che potesse ricomporre una storia spezzata, che potesse dare un senso ad un amore incompiuto. Dopo aver mostrato la carta d’identità alla poliziotta, Federico si avviò per tornare in albergo. Un negozio nei pressi della stazione della metropolitana offriva a poco prezzo un pezzo del muro di Berlino. Quante vite aveva spezzato quel muro? Mogli, mariti, sorelle, fratelli, madri, padri, figlie e figli divisi in una sola notte. Una donna forse era andata a fare spesa ad est e non era mai più potuta tornare dalla sua famiglia. Una terribile meritata punizione! Dinanzi all’albergo decise di non entrare, ma di andare a vedere la porta di Brandeburgo, che aveva disegnato il destino della Germania e dell’Europa. Federico percorse a piedi il lungo viale Unter den Linden e ai piedi della quadriga che sormonta la porta si chiese da quale parte sarebbe stato, se fosse vissuto durante il nazismo. Quante discussioni aveva intessuto con Fiona e Pablo su questo argomento? Sarebbero stati anch’essi coinvolti in quella follia di massa? Avrebbero invece avversato quell’omuncolo che arringava ed istigava il popolo con argomenti assurdi? Si sarebbero fatti affascinare dall’apparato scenico delle adunanze di popolo? Nella piazza c’erano poche persone, ma nell’immaginazione di Federico risuonavano le urla del dittatore. Un anziano tedesco, che aveva fatto parte della “Rosa Bianca”, aveva detto una volta a Federico che Hitler parlava un tedesco sgrammaticato e abbaiava dal palco, ma la gente che si radunava dinanzi a lui non ascoltava le sue parole, ma era semplicemente trascinata dalla musica, dalle bandiere che sventolavano, dagli uomini in divisa. Federico si immaginò tra la folla, ma immediatamente un altro ricordo lo assalì.

Camminava per i vicoli di Heidelberg insieme a Fiona e Pablo, guardavano le vetrine dei negozi che a quell’ora di sera erano illuminate, ascoltavano il brusio della folla, che quel giorno di sabato sembrava più gioioso del solito. Finalmente entrarono in una delle tante librerie che la cittadina offre. Là il bisbiglio era più sommesso. Federico fu attratto da una fotografia che la cassiera teneva sul bancone. Egli sapeva bene chi era la ragazza ritratta, ma quella foto non l’aveva mai vista: ritraeva la giovane seduta sull’erba, con un libro sulla gonna a scacchi, i capelli mossi dal vento, in compagnia di un ragazzo. Era Sophie Scholl, appartenente alla Rosa Bianca, un gruppo di studenti universitari che lottò contro il nazismo. Federico aveva una foto di Sophie Scholl sul comodino accanto al letto, ma quell’immagine non la conosceva; da essa emanava una sensazione di serenità e d’amore, lontana dalla lotta che quei ragazzi avevano intrapreso. Forse da tutte le fotografie scaturisce la stessa sensazione, perché il passato appare sempre migliore del presente. A Federico piacevano le foto in bianco e nero, quelle da cui emanava un senso di anni lontani, di persone che sembrava sfidassero il tempo, quelle che erano sul mobile lungo in camera da pranzo e che Anna guardava spesso con curiosità e nostalgia, anche se quegli uomini e quelle donne non appartenevano alla sua storia personale. Forse anche in quel momento Anna stava guardando le fotografie, forse la preferita di Federico, nella quale appariva il padre con la cravatta all’anarchica. C’erano altre immagini, tutte in bianco e nero e qualcuna ingiallita dal tempo, di fronte alle quali Federico si fermava a guardare per molto tempo: una fotografia raffigurava soltanto giovani donne di una scuola di ricamo del paese; c’erano ragazze in ginocchio con in mano un pezzo di stoffa già ricamato, ma sua madre si vedeva appena, perché era in piedi in ultima fila, nascosta da altre fanciulle, con la testa un po’ reclinata. Doveva avere forse sedici anni quando la foto era stata scattata. C’era la fotografia del matrimonio di una delle zie di Federico, in cui apparivano solo pochi familiari; anche qui la madre era seminascosta. Infine il pensiero andò all’immagine di due bambini immersi nella neve, sorridenti.

In quel momento Federico s’accorse di avere il cappotto bagnato di neve. Era dunque ora di rientrare. Chiamò un taxi. In albergo si distese sul letto senza svestirsi e aprì uno dei libri che aveva comprato a Vienna, “Deutschland, ein Wintermärchen” di Heinrich Heine, libro, che, nonostante il titolo, era molto polemico. Non lesse a lungo, perché s’addormentò. Quando si destò, era già buio. Scese nella hall e finalmente telefonò ai genitori di Iris. Ella si trovava nello stesso albergo di Federico. Come mai non l’aveva incontrata? Forse non l’aveva voluta incontrare? Chiese al portiere. Iris era partita! Federico si sentì sollevato, anzi quasi felice di poter proseguire il viaggio, ma subito sottentrò un senso di colpa. Era possibile che egli avesse visto Iris in quei giorni ignorandola? Sì, era possibile. Il senso di colpa ebbe il sopravvento e Federico uscì in fretta, chiamò un taxi per recarsi alla stazione. Con calma cercò in tutti i binari, ma non trovò Iris. Avrebbe dovuto telefonare ancora, invece comprò un biglietto per Praga!


CAPITOLO SETTIMO


Una sera praghese


Mentre la luce del tramonto colorava i binari, Federico, già seduto comodamente nel suo scompartimento, si chiedeva se egli stesse cercando Iris o piuttosto fuggisse. E se fuggiva, da che cosa e perché? In fondo, si autoingannò, la vita stessa è una fuga. No! Egli cercava qualcosa, ma non soltanto Iris. Perché alimentare il senso di colpa? Avrebbe dovuto telefonare alla madre di Iris ancora una volta per sapere la nuova meta di Iris. Madre! Quella parola suscitò una serie di pensieri. La madre di Federico parlava spesso della guerra, della seconda guerra mondiale. Federico la immaginò giovane, non ancora sposata, in fuga con la madre, sotto i bombardamenti. Mentre guardava attraverso i finestrini succedersi campi coltivati e paesi, immaginava quelle cittadine ferite dalla guerra. Chiuse gli occhi, ma non si assopì, perché la memoria viaggiò di nuovo a ritroso, verso il suo paese, verso gli anni dell’infanzia, del secondo dopoguerra. Non gli piaceva fare esami di coscienza, ma era esattamente questo che stava facendo, sebbene non se ne avvedesse. In fondo era ancora troppo giovane per fare un bilancio della sua vita. C’era qualcosa di strano in quei ricordi: per quanto Federico si sforzasse, le immagini non avevano colori, apparivano in bianco e nero. Questa stranezza era forse dovuta alla sua preferenza per i vecchi film o alle fotografie in sala da pranzo. Tra queste foto apparve quella raffigurante Antonio e lui tra la neve, quella caduta in abbondanza nel 1956, immersi nel manto bianco, senza guanti, ma con indosso il montgomery, che, chissà come, la madre era riuscita a comprare. La grande nevicata del 1956! I montgomery! Come aveva potuto comprare quei due costosi capi d’abbigliamento la madre? Federico riannodò i fili di quegli episodi lontani: nella casa, ancora da ristrutturare, c’era un giardino a due terrazze e la madre era una sapiente contadina ed aveva piantato fiori dappertutto, fiori che vendeva a fiorai di Roma a poco prezzo. Il giorno della grande nevicata Federico era andato a Roma con la madre, in autobus, perché i biglietti del treno erano troppo costosi. Un viaggio di duecento chilometri, che a quel tempo durava sei ore, sia il tragitto di andata che quello di ritorno. Mentre lo sgangherato autobus, o meglio la corriera, come si diceva allora, percorreva le strade del ritorno, la radio, unico lusso su quel mezzo di trasporto, raccontava una tappa di montagna del giro d’Italia, passata alla storia sportiva con il nome di “Tregenda del Bondone”. Federico ricordava i grandi fiocchi di neve e la voce del radiocronista, che si esaltava, ma allo stesso tempo si lamentava del freddo e della bufera di neve. Allora Federico non poteva immaginare quanto quell’episodio lontano avrebbe segnato la sua vita. Che cosa c’era di speciale in quell’avvenimento sportivo? Un uomo, piccolo di statura, mingherlino, staccò tutti gli avversari in quell’inferno bianco e vinse il giro d’Italia.

«Che cosa c’è di speciale in quest’avvenimento sportivo? Forse ti senti come Charlie Gaul, quando percorri le strade di Heidelberg?» chiese ironicamente Pablo ed anche Fiona sorrise.
«Charlie Gaul mi ha salvato».
«Ti ha salvato! Che significa?» Fiona era incuriosita.
«Non ho voglio di parlarne».
«Eh no, Federico! Se cominciamo ad avere segreti tra noi, non c’è amicizia» sentenziò Pablo.
«Sono questioni molto private ed anche tristi e poco interessanti».
«Se sono poco interessanti, lo decidiamo noi. Tra amici non esistono solo questioni private».
«Pablo, dove trovi sempre le parole giuste?».
«Non cambiare discorso. Racconta».
Per un po’ di tempo restarono in silenzio, poi Fiona prese la mano di Federico. Era la prima volta che accadeva. Federico tremò, ma Fiona prese anche la mano di Pablo.
«Un segreto merita di essere celebrato da un gesto d’affetto. Racconta».
«Va bene. Non è stato molto tempo fa. Voi lo sapete, mio padre è medico, un grande medico. Quando lo vidi turbato come non mai, pensai che fosse per uno dei suoi malati. Mi chiese all’improvviso della mia salute. Tante domande, tante quante non me ne aveva mai poste. Io mi sentivo bene, andavo in bicicletta, giocavo a tennis. Era primavera, ma c’era un freddo terribile, nevicava. Nonostante il tempo mia madre decise di fare un viaggio a Roma. Sapete, era il 1956, ma possiamo dire che era ancora il dopoguerra. Mio padre non riusciva a chiedere denaro per le sue visite e pensava lei a procurarsi qualche denaro, coltivando fiori e vendendoli ai fiorai. Partimmo all’alba, sotto una nevicata incredibile; il viaggio durava sei ore. Al ritorno, su quell’autobus sgangherato un radiocronista commentava una tappa alpina del Giro d’Italia: un uomo magro, basso aveva staccato tutti gli avversari tra una bufera di neve. Charlie Gaul fu il mio eroe e quando mio padre diagnosticò la malattia, pensai a lui».


Finalmente a Praga. Sì, finalmente a Praga, ma a che fare? Federico non doveva cercare nessuno, era soltanto una deviazione del suo viaggio. Non sono forse importanti i cambiamenti di direzione nei viaggi come nella vita? Angelika era stata una deviazione, una meravigliosa pausa. Visitare la casa di Kafka. Aveva una mappa della città. Chiamò un taxi. Si fece consigliare dall’autista un albergo e un ristorante. Mentre nella camera disfaceva il bagaglio, dentro di lui nacque ancora il rimorso. Aveva interrotto la ricerca, ma si giustificava con se stesso, pensando che era solo un’altra pausa. Sulla cartina lesse il nome “Alchimist Grand Hotel”, che gli ricordò un libro di Gustav Merynck. L’albergo era molto costoso, ma lo affascinava. Dopo aver cenato nel ristorante dell’albergo, Federico s’incamminò senza meta, guidato piuttosto dai suoi pensieri. Leggeva i nomi delle strade e li guardava sulla cartina. La mente ora era rivolta a Iris e, strana associazione, ad Angelika. E se in quei giorni, in quella che era stata la più eccentrica avventura della sua vita, avessero concepito un figlio? Ora forse invece di cercare Iris e sua nipote Antonia, sarebbe stato alla ricerca di suo figlio? Che cosa lo legava ad Iris ed ad Antonia? Questa era sua nipote, ma Iris non era mai stata sua cognata, eppure si sentiva legato a lei dal ricordo del tempo trascorso ad Heidelberg. C’era una domanda nella sua mente: come mai non era stato lui ad innamorarsi di Iris? O forse si era innamorato di Iris e aveva immediatamente rifiutato quel sentimento? Era un rimpianto d’amore la nostalgia delle ore trascorse sulla panchina del Ponte Vecchio? Perché non era nato l’amore per Iris o per Fiona? I ricordi lo guidavano e lo condussero dinanzi al palazzo dove aveva abitato Kafka. Un altro strano pensiero: Kafka aveva pubblicato a sue spese i primi racconti in undici copie, ma dieci le aveva comprate lui stesso, tuttavia non aveva mai saputo chi avesse acquistato l’undicesima. Come comincia il libro di Angelo Ripellino “Praga magica”? Kafka ancora rientra la sera e siede al tavolo della sua camera. Forse una notte Kafka era uscito per cercare il suo primo lettore e forse questi era uscito per cercare lo scrittore. Si erano mai incontrati? No! Era più probabile che ambedue si fossero persi tra il labirinto dei vicoli del ghetto. Un’altra frase letta su un libro: “Kafka, ti senti l’uomo più solo del mondo?” “Di più” “Solo come?” “Solo come Kafka?”. Risuonarono le solite voci dal Ponte Vecchio di Heidelberg.

«Non vi pare che vi sia qualcosa di espressionista nella scrittura di Kafka?» domandò Fiona.
«Che significa espressionista? Niente, nada de nada, secondo me. Si scrive e certo non si pensa: adesso scrivo un’opera espressionista o realista, vero Federico, vero scrittore?».
«Non lo so. Gli espressionisti fondarono dei gruppi, ma non si può limitare un grande scrittore in schemi rigidi. È come dire che Dante era uno stilnovista, tuttavia è anche vero che nello stesso periodo storico esistono modi simili di percepire la realtà».
«Allora il mio giudizio è giusto. Non ho detto che Kafka fosse un espressionista, ma soltanto che c’è qualcosa che ricorda l’espressionismo nei suoi libri».
«Ad esempio?».
«Non saprei dirlo con precisione, ma considera “La metamorfosi”, è scritta da un punto di vista interiore».
«A me pare il contrario».
«È una proiezione dell’anima di Kafka. Gregor si sveglia e si trova trasformato in un insetto e non esce più dalla sua stanza. Kafka non usciva quasi mai, stava sempre chiuso in casa o in ufficio e dalla sua camera angusta guardava il mondo».
«Fiona, sono contrario alle spiegazioni autobiografiche delle opere letterarie».
«Anch’io, Fiona».
«Anch’io, Pablo, anch’io Federico».
«Ma hai appena dato un’interpretazione autobiografica».
«Questo è come voi avete interpretato il mio discorso, ma lo avete travisato».
«Spiegacelo meglio».
«Tutte le opere letterarie sono autobiografiche, ma solo nel senso che sono possibili vite dell’autore».
«Touché».
«Touché»

Improvvisamente Federico si sentì solo: Anna era sola nella grande casa, con la sua eterna nostalgia, Iris viaggiava sola attraverso l’Europa, Antonia non aveva mai conosciuto suo padre, lui stesso non sapeva che cosa facesse in quel luogo silente. Lo assalì il rimpianto dei meravigliosi discorsi con gli amici, ma anche il desiderio di immergersi tra la folla. Non avrebbe saputo dire in che modo, ma ora era sul ponte San Carlo. Evidentemente i ponti avevano una particolare importanza nella sua vita. Mentre si sporgeva, guardando l’acqua scorrere, nella sua mente iniziarono a risuonare le note della Moldava di Smetana e ancora una volta pensò alla sua vita a Heidelberg. Quel periodo si poteva paragonare al brano musicale: le prime note, lente come quando era sceso dal treno e aveva cominciato a guardarsi intorno, così come da una piccola sorgente sgorga un rivolo d’acqua, poi scendendo a valle il getto si amplia e diviene parte del paesaggio, così come egli si era adattato a una nuova vita, a nuovi amici, odori, ad un’altra lingua, che era divenuta parte di lui; infine il fiume sembra aver fretta di immettersi in un altro corso d’acqua o nel mare e diviene impetuoso, e tempestoso era stato l’amore tra Antonio e Iris, ma se i fiumi trovano pace confondendosi con altre acque, per il fratello e per lui la pace non era giunta. Sì, c’erano stati molti giorni di serenità, che ora paragonava ai luoghi dove i fiumi scorrono lenti: erano le ore trascorse con Pablo e Fiona, discutendo sulla panchina del Ponte Vecchio o girovagando in bicicletta per i vicoli di Heidelberg. Dove erano i suoi due amici? In quale fiume della vita si erano immessi? Perché non si erano mai scritti? Eppure molte volte si era messo a tavolino, con la penna in mano e un bel foglio di carta dinanzi. Una di quelle volte aveva aperto uno dei cassetti della scrivania e aveva trovato le lettere di Iris. “Trovato” non era il termine adatto, perché aveva sempre saputo dove fossero. Ripensò alla notte antecedente alla partenza, trascorsa a leggere quelle lettere, a tessere i fili invisibili di vite che fino a quel momento gli erano sembrate note. Esse, al contrario, erano tutt’altro che conosciute. Egli, Federico, era stato il tramite involontario di un amore, ma non ne era stato partecipe: in quelle notti d’estate dal suo letto solitario sentiva i passi di Iris salire le scale, quando rientravano tardi o i passi di Antonio che andavano verso la porta della camera che ospitava la ragazza. In quelle notti era stata concepita Tonia. Che aveva a che fare Tonia con la sua vita? Quali fili potevano legarli? Federico sentiva quella sconosciuta ragazza come sua nipote, ma ella lo sentiva un familiare? Uno strano pensiero: anche Tonia si era seduta sulla panchina del Ponte Vecchio come tutti i giovani di Heidelberg. Questo bastava a legarli. Anch’ella aveva guardato incantata lo scorrere lento del Neckar e si era sentita parte di esso. Federico guardava la Moldava dal Ponte San Carlo, ma era come se guardasse ancora una volta il Neckar: due fiumi che non si sarebbero mai incontrati ora si incrociavano nella sua memoria, anzi in quella strana entità che chiamiamo animo. Si sarebbero mai incontrate la sua vita e quella di Tonia? Nell’acqua della Moldava si accesero i riflessi dei lampioni. Federico sollevò lo sguardo: si era fatto buio. Rientrò nell’albergo e si accomodò ad un tavolo del ristorante: c’era brusio intorno. Era quello che desiderava: gente intorno a lui, anche se sconosciuta. Mangiò würstel affumicati e gnocchi di pasta lievitata, accompagnando il pasto con un boccale di birra, concludendo con lo strudel, poi entrò nella sala dove erano giornali e tavoli dove alcuni signori giocavano a scacchi. Sedette e aprì un giornale in tedesco, ma i suoi occhi si erano fermati su due giocatori. Guardò di soppiatto la partita, poiché, da appassionato scacchista, sapeva che i giocatori sono spesso infastiditi da sguardi indiscreti. Infine uno dei due giocatori gettò a terra il re e si alzò frettolosamente, diede la mano all’altro e se ne andò; il suo avversario restò seduto dinanzi alla scacchiera, chiamò un cameriere e gli disse qualcosa. Il cameriere si avvicinò poi a Federico e riferì l’invito a giocare una partita. Giocarono più di una partita, fino a mezzanotte. La folla di turisti sul Ponte San Carlo, il brusio degli avventori nel ristorante sconosciuto non avevano mitigato il senso di solitudine, anzi la partita a scacchi con lo sconosciuto signore aveva aumentato la nostalgia di casa: c’era più di una scacchiera nelle sale. C’era la bella scacchiera regalatagli da Anna con i pezzi che riproducevano soldati romani e barbari, c’era la scacchiera che simulava crociati e barbari e c’era soprattutto la scacchiera con cui giocava con Renato. In camera Federico telefonò a Renato. Ancora una volta sentì forte il senso di colpa, ma si giustificò con la nostalgia che lo aveva invaso. Lesse una delle lettere di Iris:

Non temere se inizio ancora una lettera con l’aggettivo “caro”, ma tu mi sei ancora veramente caro. È nata! È una bella bambina, piena di capelli e con gli occhi scuri, molto scuri come i tuoi, ma non so dire se somigli a te o a me. Strano, ha i capelli rossi, anche se nella mia famiglia non c’è stato mai nessuno con capelli così. E nella tua? Forse tutto questo non ti interessa, ma non te ne faccio una colpa. Credo che fossimo ambedue (beide si dice così?) troppo giovani e non voglio caricarti di alcuna responsabilità. In fondo sono felice di essere diventata madre. Forse sarà più difficile studiare e laurearmi, ma m’impegnerò sia come mamma sia come studentessa. Mamma! Che strana parola!
Liebe, Iris



CAPITOLO OTTAVO


L’orologio di Marienplatz


Praga era già lontana, perduta dietro il finestrino del treno. In verità si vedevano ancora le case della città, ma la lontananza non è una misura matematica, bensì appartiene all’anima. Erano molto più vicine Anna, Iris, Fiona e Pablo e Renato. Dal finestrino Federico guardava i fiocchi di neve scendere lentamente. Chissà se al suo paese nevicava. Quando ciò accadeva Anna emetteva grida di gioia, come fanno i bambini. E certo ella di neve se ne intendeva. In viaggio verso Monaco di Baviera Federico guardava i binari scorrere veloci e ancora una volta li paragonava al corso di un fiume, pensando al viaggio di Anna. Egli vagabondava attraverso città dell’Europa alla ricerca di alcune vite, ma era anche un viaggio di piacere, mentre quello di Anna era stato un viaggio alla ricerca di una vita degna. Partita da un piccolo paese dei Carpazi, da qualche parte nell’est europeo, senza conoscere altra lingua che la sua, era giunta in Italia dopo alcuni anni, dei quali Federico non sapeva niente, nella sua casa e l’aveva riempita con la sua voce squillante, con quell’accento che Federico aveva immaginato sulle bocche dei personaggi di Dostoevsij, Tolstoij, Checov, Pasternak. Per tanto tempo, dopo la dipartita dei suoi familiari, Federico aveva desiderato che la casa, divenuta all’improvviso silenziosa, si colmasse nuovamente di voci. In verità il silenzio era iniziato subito dopo la morte di Antonio, un silenzio fatto di sguardi tra lui e i genitori, un silenzio fatto di occhi umidi e lucenti da pianti trattenuti, che sgorgavano tuttavia, per ognuno, in solitudine. Quanta solitudine aveva provato Anna nel suo viaggio? Quanta solitudine aveva sentito prima di approdare nella sua casa? Quanta solitudine era penetrata in lei ascoltando una lingua ignota? Si può misurare la solitudine? Quale corrente l’aveva condotta fin nella sua casa? La corrente impetuosa di avvenimenti che non dipendono da coloro che ne vengono travolti. La storia è un flusso turbinoso, del quale sappiamo poco. Il comunismo, un sogno prima tradito e poi infranto, era un ricordo. I binari scorrevano veloci sotto lo sguardo di Federico. Apparivano attraverso il finestrino campi e tetti di paesi e cittadine ammantati di neve, stazioni con panchine vuote. Su quante panchine si era seduto? Pensò alle poesie che l’amico Alfonso pubblicava. Solo per amicizia? In quelle poesie parlava di panchine, sulle quali aveva letto e scritto, spesso in solitudine. Si rese conto che da giorni non parlava con nessuno, eccezion fatta per le telefonate e per le poche parole scambiate con i signori delle reception degli alberghi: veloci saluti di buon giorno e buona sera, un numero di camera, nient’altro. I discorsi sulla panchina del Ponte Antico erano lontani ma vicini nella sua memoria. “Lontananza” pensò ancora, una dimensione dell’anima. Erano vicini Pablo e Fiona, e Angelika che aveva abbracciato e baciato con passione su altre panchine? Li sentiva accanto a lui, ma essi lo sentivano vicino? Anna sicuramente sì, ma gli altri, che avevano avuto una parte importante nella sua vita, anzi che ancora adesso ne facevano parte, avevano memoria di lui? I binari scorrevano veloci. Pensò ai piccoli viaggi che aveva intrapreso con Anna, viaggi di un solo giorno o due.

Paestum e Pompei distano soltanto pochi chilometri, eppure queste due città sono lontane millenni per lo spirito che le contraddistingue. La cultura greca e romana vengono spesso accomunate, tuttavia esse sono molte differenti. Paestum e Pompei testimoniano questa diversità. Fra gli antichi templi di Paestum, per fortuna mai troppo affollata, si cammina in silenzio, rispettosi degli antichi Dei, perché questo luogo è spirituale. Paestum ispira il raccoglimento; trasferendo un termine proprio della poesia alla geografia, si può affermare che è un luogo elegiaco. L’elegia era la poesia che gli uomini dedicavano all’amico morto, cantando le sue gesta e banchettando, perché musica e cibo consolavano dalla perdita, ma era anche la forma poetica nella quale le donne si rivolgevano agli Dei invocandoli per i loro amori. Forse anche oggi qualche turista li invoca.
Niente di così spirituale invece si trova a Pompei, forse perché è testimonianza della caducità terrena o forse perché le sue rovine raccontano di una città dove gli antichi Romani venivano a trascorrere ore liete, soprattutto sessualmente.
Erano due modi di combattere contro la morte.
Anche l’apparato turistico è dimostrazione di questa differenza: a Pompei i proprietari delle bancarelle che vendono orribili souvenir chiamano a gran voce i turisti, a Paestum aspettano che il turista entri volontariamente e non insistono. Forse le anime così diverse di Greci e Romani sono entrate nei contemporanei
.

Sì, la distanza è una dimensione dell’anima.

I giardini di Ninfa, fra Sermoneta e Norma in provincia di Latina, sono una meraviglia che resta negli occhi e nel cuore. Sono opera della famiglia “Caietani”, che diede al mondo uno dei Papi più terribili che la Chiesa abbia conosciuto, Bonifazio VIII, per il quale Dante prepara il posto nell’Inferno. Questo Papa però ci ha lasciato le acque di Fiuggi e parte di questo giardino. Non si arriva facilmente ai giardini, perché non sono segnalati e forse è un vantaggio; infatti, sebbene i visitatori siano sempre in numero notevole, questo non è mai eccessivo. Che senso avrebbe passeggiare in un giardino con il chiasso? Nei giardini si cammina rallegrandosi della conversazione a bassa voce, compiacendosi del rumore del piccolo ruscello artificiale, apprezzando il colore dei fiori, la magnificenza degli alberi, usufruendo dell’ombra e della frescura che essi procurano. Una sola pecca esiste in questi giardini: c’è una sola panchina. Certamente oggi non occorre, perché la visita ha la durata di un’ora per permettere a tutti i gruppi di vedere ogni singola parte di questa oasi. Quando era privato, i proprietari non si fermavano a discorrere, a riposarsi, a leggere un buon libro? Credo che sia un desiderio che sicuramente provano tutti i visitatori.

Ancora una panchina appariva nella sua mente, ma c’erano state anche tante piazze. Una volta, dopo una delle sue lunghe camminate lungo la riva del Neckar si era trovato in un piccolo paese del quale non ricordava il nome. Si era seduto, stanco e felice, sui gradini della cattedrale e aveva osservato la piazza illuminata dalla luna piena. Da una finestra aperta giungeva il suono di un pianoforte e Federico aveva paragonato i gradini ai tasti dello strumento suonato dall’insonne pianista. Aveva aspettato l’alba prima di riprendere il cammino. Sorrise pensando alla poesia che aveva scritto sulla scala della chiesa e la recitò fra sé.
Sono uno in cammino
ho dimenticato la meta
lungo la strada
il sentiero lo ignoro
Passo e vedo
Per raccontare
per dimenticare
Ah! Le città antiche!
Le osterie!
Suoni di lingue ignote
brusio indistinto festoso
parole scambiate con un oste
amico d’una sera
di sempre nel cuore
un bicchiere levato
con uno sconosciuto
uno in cammino
Ah! Le osterie!
Le città antiche!
Di notte deserte
sui muri ombre
e splendori lunari
sulle selci eco
di passi
sono uno in cammino
ho salito i gradini
della cattedrale antica
il respiro della città
assopita
affollata di sogni
nella bisaccia la memoria
del tuo sorriso!
Ah! Le piazze antiche!
Mi sono seduto
quanto basta per riposare
sugli scalini antichi
mi ha assalito la memoria
del tuo sorriso
i miei passi sono parole
ho guardato i gradini
della cattedrale antica
ombre e splendori
lunari
tasti d’un pianoforte
i tuoi passi sono note


A chi aveva dedicato quella poesia? Ad Angelika? A Fiona? Non lo ricordava. C’erano altre piazze: c’era la piazza che per lunghi giorni aveva guardato con Anna alla televisione, Piazza Indipendenza di Kiev, assiepata di folla con bandiere color arancione. Forse un tempo gli avi di Anna avevano sventolato bandiere rosse in qualche piazza. La storia è un fiume in tempesta. Aveva dedicato la poesia a Patrizia? Nella piazza di Lubecca aveva stretto la mano ad Angelika, sebbene avesse fatto quel viaggio per la sua amica d’Università. A Berlino, in Alexanderplatz, si era sentito come Franz Biberkopf: colpevole! Tutto era dipeso da lui: aveva condotto Iris nella sua casa, aveva assistito all’amore nato tra lei e Antonio e spesso aveva tradotto i discorsi di Iris. Che cosa cercava ora? Il perdono? Tessere i fili di una vita? O piuttosto cercava di riempire la sua solitudine con la conoscenza di una nipote, della quale aveva appreso l’esistenza da breve tempo? Ricordando il passato, cercava di dare un significato al vuoto precipitato nella sua vita dopo la morte dei suoi familiari? In quale mare sarebbe sfociato quel suo viaggio? Hanno memoria i fiumi? Federico avrebbe voluto sentirsi una goccia d’acqua tra le altre, senza memoria e responsabilità.

Seduti su una panchina sulla riva di Sulz am Neckar, Fiona, Pablo e Federico discorrevano:
«Non faremo in tempo a vedere tutte le cittadine attraversate dal Neckar. Che peccato. È stupendo!».
«Come sei romantica, Fiona».
«Vorrei sentirmi una goccia d’acqua di questo fiume» rispose Fiona, senza dare importanza al sarcasmo dell’amico.
«E perché mai?».
«Fiona ha ragione. L’uomo è l’animale più assurdo che esista, se mi permettete l’espressione. Si è allontanato troppo dalla natura».
«Se non fossimo esseri umani, non potremmo ammirare la bellezza della natura».
«Ma la vivremmo».
«Certo, ma guarda queste case, i ponti. Anche queste costruzioni sono parte della bellezza del luogo».
«Pablo, mi fai sentire triste».
«Perché mai?».
«Alle tue parole ho ricordato un verso di Rilke».
«Delle elegie duinesi?».
«Sì».
«Lasciami indovinare».
«Prova».
«La seconda elegia».
«Sì».
«“Guarda, gli alberi esistono; le case che abitiamo reggono ancora. Solo noi passiamo via da tutto come aria che si cambia”».
«Mein Got! Avete rovinato tutto» si lamentò Fiona «Godete questo momento, questa vista senza pensare ed in silenzio».
«L’ho già detto, Federico, sei malato di letteratura».
Fiona prese le mani degli amici e continuò a guardare il fiume.
«Ora siamo gocce d’acqua trasportate dalla corrente».
Aspettarono il crepuscolo, poi inforcarono le biciclette e cominciarono a pedalare in direzione di Heidelberg. Allo scendere del buio si sarebbero fermati, ma non avevano programmato dove dormire. Si fermarono in un Gasthaus, una di quelle locande di campagna che amavano. Era tutto occupato, c’era una festa di nozze. Spiegarono all’oste che erano lontani. Ebbero fortuna: intervenne la sposa e li invitò a partecipare al festeggiamento. Mangiarono con appetito e poi si accomodarono in giardino, dove iniziarono le danze. Federico e Pablo sedettero con i loro boccali di birra dinanzi, mentre Fiona fu invitata da molti giovani a ballare.
«Guarda Fiona, si dà da fare».
«Sei geloso?».
«Ma no! Anzi un po’. E tu?».
«Un po’».
I due amici risero, continuando a guardare Fiona volteggiare.
I boccali di birra andavano e venivano e sembravano non finire mai.
L’oste concesse ai tre amici di poter trascorrere la notte in cantina nei loro sacchi a pelo, ma Fiona non dormì al loro fianco. All’alba Fiona svegliò Federico e Pablo. Pedalarono fino a Horb am Neckar, dove misero le biciclette sul treno che li avrebbe riportati a Heidelberg. Nello scompartimento Fiona si addormentò, mentre i due ragazzi tacevano. Anche lei aveva deviato? C’è un luogo dove il Danubio scompare sottoterra, fenomeno che i tedeschi chiamano Donauversickerung, per riemergere dopo circa ottanta chilometri così come nella vita esistono periodi ignoti agli altri per ognuno. Donauversikerung, come se il fiume stanco di essere guardato e ammirato cercasse sicurezza nel sottosuolo. È così anche per gli uomini? La gelosia era scomparsa dalle anime dei due amici. Merito del pensiero della Donauversikerung.


Il treno entrò nella stazione di Monaco di Baviera. Federico trovò alloggio presso l’Aichner Hotel, grazie all’ufficio informazioni della stazione. Dal finestrino del taxi Federico continuava a guardare la neve cadere abbondante.

«Davvero una bella nevicata» commentò Fiona.
«Sì. Ma noi non abbiamo tradito la nostra panchina».
«Anche se non possiamo sederci».


In camera Federico si distese sul letto e aprì un’altra lettera.

“Caro Antonio, oggi mi sono recata all’Uni per la prima lezione. Si comincia a vedere il pancione. All’inizio mi sentivo osservata, poi ho capito che ero io stessa ad osservarmi o meglio osservavo se qualcuno mi osservava. Nevica in abbondanza. E da te? Perché mai ti pongo domande, sapendo che non mi risponderai? Lo sai, spero di potermi innamorare di nuovo, ma ora mi sembrerebbe di tradirti. È veramente strano questo sentimento. Ti mando un bacio.
Iris”
.

Federico telefonò all’albergo in cui alloggiava Iris. Era già uscita. Uscì anche lui. Iris era andata sicuramente in qualche biblioteca, ma non avrebbe potuto visitarle tutte. Si recò al Deutsches Museum. Non era forse anche un viaggio di piacere? Non chiamò un taxi. C’era gente sul treno della metropolitana. Un fiume nascosto che trasportava vite umane. Il museo fu costruito su un’isola. Chissà se anche il fiume Isar rallenta per visitarlo. Federico visitò il primo piano, fermandosi soprattutto nel reparto dedicato alle comunicazioni. Guardò attentamente il compasso della rosa dei venti di Wilhelm Hinrich Iven, esempio di una primigenia bussola, dove tuttavia manca il nord. La storia è un fiume o un vento? Pensò alle biciclette con cui andava in giro con Fiona e Pablo, al suo viaggio. Fermo dinanzi al dipinto di Michael Zeno Diemer, che ritrae le tre caravelle di Cristoforo Colombo elencò nella mente le frontiere che aveva oltrepassato. “Varcare le frontiere è il Nirvana. Ma splendono sempre per me le stelle della nostalgia” scrive Herman Hesse(7). Pablo aveva ragione: era malato di letteratura. Lo assalì la nostalgia della sua casa, dell’odore dei libri, della sua collezione di soldatini, ben ordinati secondo l’epoca storica. Ogni casa in fondo è un museo; gli oggetti ricordano chi vi ha abitato.

«Federico, che hai in mano?».
«Un soldatino»
«Sei un bambino?»
«Li colleziono»
«Di’ la verità, ci giochi?»
«Giocavo quando ero bambino».
«Ed ora?»
«Ogni tanto li guardo e li conto».
«Li conti?»
«È la mania dei collezionisti».
«Quanti ne hai?».
«Non lo ricordo».
«Li conti e non ricordi quanti ne hai?».
«Li conterò di nuovo a casa».
«Tutti gli uomini restano bambini … per sempre».
«È vero, Fiona. La parte ludica è importante nella vita. Aiuta».
«È importante anche la maturità».
«Noi non siamo maturi?».
«Siete bambini».
«Ci piace».
«Anche a me piace la vostra infantilità».
«E tu non sei un po’ bambina?».
«Un po’».


Viaggiare è il Nirvana. Dove aveva letto che viaggiare è il più personale dei piaceri? Non sempre chi viaggia lo fa per diletto. Navi cariche di emigranti che sognavano la terra promessa di tutti i poveri del Novecento partivano alla volta dell’America; su una di quelle navi si era imbarcato uno zio della madre di Federico. Era tornato, ma senza il sogno americano. Anna aveva viaggiato alla ricerca di un altro sogno, un piccolo sogno, una vita dignitosa. Di nuovo si sentì in colpa. Egli viaggiava, in parte alla ricerca di Iris, in parte per piacere. Meglio dare spazio alla parte ludica della sua anima. Erano già le undici del mattino. Sebbene al di fuori del museo vi fosse anche uno spazio dedicato ai giocattoli, Federico cercò un altro balocco, quello con cui si trastullano tutti gli abitanti di Monaco, l’orologio di Marienplatz, il Glockenspiel(8). Ad un quarto a mezzogiorno era nella piazza e aspettava a faccia in su che il carillon suonasse l’ora. Finalmente iniziarono i dodici tocchi: apparirono i festeggiamenti per il matrimonio del duca Guglielmo V con la principessa Renate von Lothringen, poi al piano inferiore la danza dei bottai. Aspettò che lo spettacolo terminasse, si guardò intorno e gli occhi vagarono da una birreria all’altra. In una di queste c’era stato Hitler. Per fortuna, pensò Federico, quel pazzo non aveva fatto modificare l’orologio. Mentre andava via, udì il canto del gallo che è posto alla sommità del carillon. Chissà perché quei tre versi gli ricordarono le danze di Fiona a Horb am Neckar. Aveva fame, ma non voleva entrare in una di quelle birrerie. Gli girò la testa. Sembrava che tutto il viaggio affluisse nella sua testa: Vienna, Alexanderplatz, la casa di Kafka, le note della Moldava che si mescolavano ai tocchi della campana e al verso del gallo, i binari che correvano sotto il treno velocemente, il fumo che saliva dai comignoli dei tetti del paese. Barcollò. Aveva fame. Entrò in una birreria, sperando che non fosse quella delle riunioni del dittatore. Ordinò Bretze e Weiβwurst(9) e un boccale di birra. Quando uscì dal locale, si sentì meglio. Telefonò e seppe che Iris sarebbe partita il giorno seguente. Si propose di andare al suo hotel a sera. Forse il suo viaggio stava volgendo al termine e provò un po’ di dispiacere. Ancora una volta s’insinuò in lui il senso di colpa. Probabilmente neanche Ulisse aveva desiderio di tornare ad Itaca. Aveva ancora un pomeriggio. Salì sul tram n.17, che lo portò fino a Nymphenburg. Visitò tutte le sale, sostando soprattutto nella Sala degli specchi, che gli sembrò alquanto strana. Perché mai era stata costruita una stanza che permetteva di guardarsi? Infine passeggiò nel parco e finalmente sedette su una panchina, osservando i bianchi cigni nell’acqua del lago. Ricordò di essere stato a Füβen, dove aveva visitato il castello di Neuschwanstein, ma non riusciva a rammentare né il periodo di quel viaggio né se vi era stato con qualcuno. Continuò a guardare i cigni. Quante volte aveva osservato i cigni nel Neckar con Fiona e Pablo dalla loro panchina sul Ponte Antico. Era ora di andare. Avrebbe finalmente incontrato Iris. Il viaggio volgeva al termine. All’albergo non trovò Iris, uscita da poco. Si trovò nuovamente in Marienpalatz. Erano quasi le nove di sera. Volse di nuovo lo sguardo in alto e aspettò: alle ventuno l’orologio suonò. Le piccole finestre ad arco ai lati del carillon s’illuminarono, apparve la sentinella notturna che suonò il corno e un angelo che benedisse un piccolo monaco, con il sottofondo di una ninnananna. Aveva nuovamente fame. Entrò nella stessa birreria. Ordinò Haxen(10) di maiale con crauti e birra. Mangiò e si ripromise di trovare Iris la mattina seguente. Voleva davvero che il viaggio finisse? In albergo, disteso sul letto, pensò alla giornata appena trascorsa. Era probabile che Iris fosse stata molto vicino a lui: a Marienplatz! Si addormentò insieme al senso di colpa.
Si destò di buon’ora, mangiò un’abbondante colazione e lasciò l’hotel. Iris era già partita. Si sentì felice e colpevole. Telefonò: Iris andava a Verdun.

(continua terza parte

5) Roth, Joseph, Fuga senza fine, Adelphi
6) Andric, Ivo, Il ponte sulla Drina, Mondadori, 2001
7) Hesse, Hermann, L’azzurra lontananza, Sugargo
8) Letteralmente “gioco di campane”
9) Bretzel = biscotto salato arrotolato; Weiβwurst = salciccia bianca
10) Coscia di maiale cucinata con aglio, pepe , dragoncello e rosmarino
 


 
rammemorare/dismemorare 
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Mario Amato
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LETTERE DA LONTANO - Terza Parte
 
CAPITOLO NONO


La scacchiera di Verdun


Anche sul treno il senso di colpa non lo abbandonò, ma non riguardava soltanto Iris. C’era un luogo che non aveva visitato a Monaco, un luogo legato ad un suo grande amore, un amore insolito: la piazza dell’Università, la piazza dedicata ai ragazzi della Rosa Bianca. Su uno degli scaffali della sua casa c’era la fotografia incorniciata di Sophie Scholl, una foto trovata in una libreria di Heidelberg, che ritrae la ragazza su un prato; una immagine di rara felicità in una vita dedicata ad una lotta destinata alla sconfitta. Ma erano stati davvero sconfitti i giovani studenti di Monaco, che lottavano contro la follia nazista con la sola forza delle parole distribuite dai loro volantini? Ed ora egli non si stava recando presso un luogo di follia? Pensieri troppo seri per un viaggio, che in parte era di piacere! I binari scorrevano verso Verdun. I soldati mandati a morire in quel luogo erano gocce d’acqua trascinate dalla storia. Gocce d’acqua!

Il treno stava per entrare nella stazione di Tubingen. Fiona propose: «Abbiamo un altro giorno. Fermamioci qui».
«A Tübingen?»
«Volete?»
«Certamente. Può darsi che ci sia un altro matrimonio. Potresti ballare ancora, Fiona». La frase era stata pronunciata con un pizzico di gelosia.
Scesero con le loro biciclette e iniziarono a girare la città. Si confusero con altre biciclette di altri studenti.
«Il prossimo anno veniamo qua» disse Fiona.
«Sì, tradiamo la nostra panchina».
«Ne adotteremo una in questa città».
«Federico» chiese Pablo «è la città del tuo poeta prediletto?».
«No. È la città dove si è rinchiuso nella torre e dove è morto».
«Ci andiamo?».
«Andiamo».
«Sì».
In silenzio guardarono la casa gialla con la torre che aveva tenuto nascosto al mondo il poeta.
«Federico, perché si rinchiuse qui?»
«Non lo sa nessuno».
«In fondo è un bel posto. Tra gli alberi, sul fiume» commentò Pablo.
«Nessun posto può essere bello, se non esci mai».
«Ma Hölderlin usciva» precisò Federico.
«Di nascosto?»
«Non volevo dire questo. Ci sono mille modi di evadere».
«Che cosa intendevi?» insistette Fiona.
«Non ricordi le poesie scritte nella torre?»
«Certo che le ricordiamo».
«Parlano di sole, di fiumi, di prati, di stagioni, insomma parlano di natura. Usciva con la mente. Se ne stava nella stanza, eppure la sua mente si apriva al mondo».
«Basta secondo te per non impazzire?»
«Può bastare, ma bisogna chiamarsi Hölderlin».
«Forse hai ragione» ammise Pablo «In effetti nessun lettore di Hölderlin direbbe che è stato infelice».
«Io mi chiamo Fiona e ho bisogno di sentire il sole o la pioggia o il vento sulla pelle, di respirare i profumi dei fiori, degli alberi, di ascoltare la voce dei miei simili».
«Anche noi, Fiona, ma Hölderlin tutte queste cose le aveva sentite. Non c’è stato nessun altro poeta tedesco tanto vicino alla natura».
«Com’è possibile, Federico?».
«Federico ha ragione» intervenne Pablo «Hölderlin aveva un rapporto mitico con il mondo».
«Che significa?»
«Ci sono due modi di vivere: la maggior parte di noi guarda il mondo, ma altri, pochi, lo vivono, sono parte di esso. Fiona, ti ricordi quando ci hai detto che ti sentivi come una goccia d’acqua, ecco, in quel momento eri come Hölderlin, almeno avevi con la natura lo stesso rapporto che aveva lui».
«Bravo, Pablo. È il mio poeta prediletto, ma tu lo hai spiegato come io non avrei saputo fare».
«Spiegati ancora».
«Proverò» disse Federico «Hai nella mente i versi della poesia che Hölderlin ha dedicato a Heidelberg?»
Fiona chiuse gli occhi e cominciò a recitare la poesia.
«Fermati qui, dove dice “sul ponte mi prese l’incanto”. In quel momento, mentre attraversava il ponte, ovviamente il Ponte Antico, egli si sentiva trasportato da tutto ciò che gli era intorno, non solo il fiume, i vigneti, l’aria, ma perfino le case, il castello in alto, la vita degli uomini».
«Il castello, i ponti, le case sono opera dell’uomo, non della natura» obiettò Fiona.
«A tuo, a nostro modo di vedere, ma la visione di un poeta è più acuta, almeno è diversa. Le case, i ponti, il castello fanno parte della storia e la storia fa parte della natura».
«Com’è possibile?»
«Pensa all’idea che avevano i Greci del mondo: tutto, anche la vita degli uomini è parte del ciclo naturale».
«Hölderlin aveva abbracciato questa ideologia, secondo voi?»
«Non è un’ideologia, Fiona, è un modo di sentire, come tu avevi coscienza di essere una goccia d’acqua. A noi però succede poche volte».
«Peccato!» concluse Fiona «Si sta facendo buio».
«Ho un’idea. Mangiamo qui, da qualche parte e poi dormiamo sotto un ponte. Partiamo domani, ma non in treno».
«Vorresti andare fino a Heidelberg in bicicletta?»
«Fin dove ci portano le gambe» precisò Federico.
«D’accordo!»


Gocce d’acqua i soldati che andavano a Verdun, ma certamente non si sentivano parte della natura. L’autobus portava Federico nel teatro della battaglia. Apparivano croci distanti l’una dall’altra, poi esse aumentavano fino a quando diventavano distese a perdita d’occhio. Federico camminò in silenzio tra le croci; anche gli altri visitatori tacevano, perfino ragazzi in viaggio d’istruzione. Federico entrò nell’ossario, dove sui muri sono scritti i nomi dei caduti. C’era un silenzio che Federico definì, in cuor suo, infinito. Uscì e si recò al museo, costruito su una trincea. Un insegnante tedesco spiegava agli studenti che dovevano immaginare la trincea ai tempi della battaglia, tra il fango. Federico guardava le vetrine: tra le armi e maschere anti-gas lo colpì una piccola scacchiera spezzata. Pensò ai due soldati che avevano forse giocato la loro ultima partita su quella scacchiera, prima che una granata li uccidesse. Chissà se Dio era stato tanto comprensivo da aver permesso loro di finire la partita? Pensò al soldato che aveva portato con sé la scacchiera in quel luogo: un oggetto per provare un po’ di piacere dove c’erano soltanto dolore e morte. Sì, Dio doveva aver loro concesso di finire la partita. Immaginò lo scoppio della granata vicino ai due giocatori, poi uscì nuovamente e fu investito dal vento gelido. Pensò ancora alla scacchiera, ma alla sua, a quella con cui giocava con Renato.

Dormirono sotto un ponte, a pochi chilometri da Tübingen. All’alba ripartirono, riposati e felici. Scesero dalle biciclette soltanto vicino a Nurtingen e a Plochingen per ammirare il panorama. Alle tre del pomeriggio erano a Stoccarda. Tornarono in treno nella loro Heidelberg.
«Mancano ancora tante cittadine».
«Non credo che faremo in tempo a vedere tutte le cittadine attraversate dal Neckar».
«È un peccato».
«Lo faremo l’anno prossimo».
«Certamente».


Non era mai arrivato quell’anno; Fiona, Pablo, Federico si erano persi nel mare della vita come le acque dei fiumi si perdono irriconoscibili nelle acque di altri fiumi o dei vasti mari. C’era silenzio intorno a Federico. Le lettere di Iris erano rimaste silenziose nel cassetto della scrivania. In albergo aprì una di quelle lettere. Provò piacere nel toccare la bella carta, del colore delle antiche pergamene. Per la prima volta notò la bella grafia di Iris: chiara, scorrevole, ma che indulgeva nello scrivere le maiuscole in caratteri gotici. Una piacevole civetteria!

Carissimo Antonio, ti farà piacere sapere che mi sono laureata. Antonia è bellissima, ma forse tutte le mamme vedono bellissime le loro figlie. La porto spesso a passeggio per le strade di Heidelberg, in riva al Neckar, sul Ponte Antico, dove è cominciata la nostra storia. Tu non conosci la città. Avevo sperato che tu venissi a trovarmi, ma quella speranza risale a tanto tempo fa. Come ti ho già scritto, non voglio più sapere le ragioni del tuo silenzio. Anche per me l’amore è terminato, anzi no! Ora c’è soltanto l’amore per questa bambina. Sì. Il nostro amore iniziò a Heidelberg, quando conobbi tuo fratello Federico. Forse lui è tornato a Heidelberg e non ha avuto il coraggio di telefonarmi, ma a me avrebbe fatto piacere rivederlo.
Iris


Era la prima lettera che non terminava con tua Iris. Federico non era mai tornato a Heidelberg. C’era un’ingiustificata associazione nella sua mente tra l’incidente stradale in cui il fratello aveva trovato la morte e il suo periodo nella cittadina. Le ultime parole lette lo fecero sentire nuovamente in colpa. Iris lo avrebbe accolto con piacere. Era finalmente ora di trovarla. Telefonò. Era tornata a Heidelberg. Un senso di piacere si sostituì a quello di colpa. Avrebbe rivisto la sua cittadina, la sua panchina e forse, come in un libro di Charles Dickens, avrebbe per caso incontrato nuovamente Fiona e Pablo. Si sarebbe seduto con loro sulla panchina e avrebbero di nuovo parlato. Non avrebbero intessuto grandi discorsi, ma avrebbero raccontato le loro vite, le gioie e i dolori quotidiani. I tempi delle grandi speranze e dei grandi ideali erano trascorsi, ma forse c’è bellezza e grandiosità anche nei piccoli avvenimenti di ogni giorno.
I binari scorrevano come scorrono i fiumi, come fluisce eterno il Neckar.



CAPITOLO DECIMO


Come in un libro di Charles Dickens


Federico lesse la lettera che aveva appena scritto. Sul Ponte antico passeggiavano già i turisti e studenti pedalavano con le loro biciclette. Egli guardava il Neckar e aspettava Iris e Tonia o forse attendeva di vedere apparire Fiona e Pablo, come in un romanzo di Charles Dickens. Provava a ricordare i discorsi di vent’anni prima, ma essi si perdevano nel flusso del fiume. Chiuse gli occhi, ma i visi dei suoi amici non erano nitidi nella memoria. Si guardò intorno: volti ignoti. Non gli era forse sconosciuta la vita di Pablo e Fiona? Dove erano adesso? Che cosa era accaduto loro? Perché non si erano mai scritti? Un nuovo senso di colpa lo avvinse. Li aveva forse dimenticati o piuttosto ingannati? Non era stato un vero amico? Che cosa aveva avvicinato quelle tre vite tanto diverse? Solo un senso di transitorietà? La sicurezza che non si sarebbero mai più rivisti? Iris aveva continuato a scrivere ad Antonio, anche quando era stata sicura che non avrebbe mai avuto alcuna risposta. Non riusciva a rispondere alle domande che sorgevano nella sua mente. Si appoggiò allo schienale della panchina, chiuse nuovamente gli occhi e lasciò che un dolce senso di nostalgia entrasse in lui. Il brusio della gente sul ponte si confuse con il mormorio del fiume e con il ricordo delle voci di Fiona e Pablo. I visi dei due amici erano avvolti nella nebbia, ma avrebbe riconosciuto le loro voci, anche tra il mormorio della folla. Era freddo, ma continuava ad aspettare.
La sera precedente aveva cenato nella casa di Iris, ma aveva preferito dormire in albergo. Non era stato facile spiegare il silenzio di Antonio, un silenzio non voluto, del quale egli era il responsabile. Più difficile ancora era stato spiegare il proprio silenzio; parole pronunciate con voce titubante e a capo basso. Si aspettava un rimprovero, ma Iris aveva accolto la notizia dell’incidente in silenzio, poi era corsa via. Quando era tornata nella sala da pranzo Federico notò che aveva pianto. L’amore non era dunque svanito. Dov’era il suo amore per Fiona e Pablo? Era rimasto solo l’amore per il Neckar? Più tormentoso era stato per Federico spiegare perché avesse atteso tanto tempo per aprire le lettere. Aveva confessato la sua colpa. Si era sentito finalmente libero.
Sentì un lieve tocco sulla spalla. Come in un libro di Charles Dickens? No! Non era Angelika, non era Fiona, non era Pablo. Essi appartenevano alla memoria, appartenevano al Neckar che portava lontano ogni ricordo. Iris e Tonia, una ragazza dai capelli rossi, gli sorridevano, reggendo nelle mani i bagagli.
I binari scorrevano verso casa, dove Anna lo aspettava, con Renato, pronto ad una partita a scacchi, vicino al camino dove ardeva il fuoco.
La neve cadeva sui tetti del paese, dai comignoli saliva il fumo, accogliendo con un silente saluto Iris, Tonia e Federico. In cucina Federico aprì i regali per Anna, mentre ella cucinava e raccontò qualcosa del viaggio. Anna aveva imbandito la tavola come nei giorni di festa; cenarono poi chiacchierarono a lungo seduti dinanzi al fuoco. Anna non aveva smontato l’albero di Natale ed il presepe. Era ancora Natale nella sua casa! Essa accoglieva una nuova vita, una nuova giovane voce risuonava nella stanza. Anna consegnò una lettera: era un invito di matrimonio. Fiona e Pablo si sarebbero sposati il mese successivo, a Heidelberg, sul Ponte Antico, dinanzi alla loro panchina. Non era più la panchina dei tre amici, era di Fiona e di Pablo. Provò gelosia, forse per Fiona, forse per la panchina. Avrebbe aspettato un mese e sarebbe tornato a Heidelberg per festeggiare i due amici.
Si sentì felice, perché sarebbero scorsi ancora i binari, si sarebbe seduto ancora sulla panchina, avrebbe sognato di veder passare Angelika, come in un romanzo di Charles Dickens, si sentì felice perché il Neckar continua a scorrere.