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AmatoKafka 
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  registrazione n.94 del 28.2.1972 presso il tribunale di frosinone
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Alfonso Cardamone
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AMATOKAFKA/KAFKAAMATO
 
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Mario Amato
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FRANZ KAFKA, UNA FINE ED UN PRINCIPIO
 
Esistono libri inevitabili, personaggi inevitabili e, naturalmente, autori inevitabili.

È continuamente in atto una discussione fra i critici su quale sia il più grande scrittore del Novecento, dibattito sterile quando inutile, poiché non è possibile e neanche sensato compilare una graduatoria di merito fra i letterati. I nomi che più spesso vengono pronunciati sono quelli di Marcel Proust, James Joyce, Franz Kafka.
È più giusto dire che tutti hanno segnato il secolo, ognuno con opere imperiture.
Proust e Joyce hanno impresso la loro traccia rispettivamente con “La Ricerca del tempo perduto” e con “Ulisse”, mentre per una lettura approfondita di Kafka è doverosa la lettura dei tre romanzi "Amerika”, “Il Processo”, “Il Castello”. In Amerika, il protagonista, di nome Karl Rossmann, emigra nel nuovo mondo per aver messo incinta la cameriera dello zio; nel Processo, Joseph K. viene arrestato una mattina e non gli viene mai detta quale sia l’accusa; nel Castello infine K. è stato forse chiamato dal castello.
Karl Rossmann, Joseph K., K.: è evidente come progressivamente vi sia la perdita del nome, ovvero della propria identità.
Il romanzo è già dall’inizio la storia di un eroe, e per essere tali è necessario credere in sé stessi.
Kafka decreta la definitiva morte dell’eroe, riducendo il protagonista ad una mera sigla.
Vi è tuttavia un paradosso: Karl Rossmann cerca lavoro in America, Joeph K. è probabilmente un impiegato, K. è un agrimensore. Solo di quest’ultimo conosciamo il lavoro.
Il primo romanzo è ambientato nella terra promessa, il Processo si svolge in un labirinto di uffici, il terzo in un paese che ha quale caratteristica la lontananza, anche temporale. Joseph K. non riuscirà mai ad accostarsi al Tribunale, né saprà mai di quale colpa sia stato accusato, K. non si avvicinerà mai al Castello, ammesso che esso esista; solo Karl Rossmann troverà una soluzione alla propria esistenza, sebbene precaria, poiché sarà assunto da un circo e quindi destinato a girovagare, a vivere in una eterna diaspora.
I tre romanzi si svolgono in una dimensione metastorica e tuttavia essi appartengono al Novecento.
L’America è la terra promessa: se questo può rappresentare simbolicamente la parola data da Dio agli ebrei, non bisogna dimenticare che siamo all’inizio del Novecento, allorché migliaia di persone partivano con la speranza di trovare una vita economicamente degna.
Nel Processo non vi è alcun riferimento storiografico, e tuttavia il labirinto nel quale si smarrisce Joseph K. ricorda le metropoli moderne; inoltre il protagonista è oppresso da cavilli burocratici, è alla ricerca di documenti che spieghino, chiariscano, perché nel mondo moderno non basta avere nome e cognome (il suo cognome è solo una sigla), ma è necessario un documento.
Il paese nel quale si svolge la vicenda narrata ne “Il Castello” è apparentemente connotato da una esistenza semplice, eppure all’inizio, allorché K. giunge alla taverna, si ha un elemento della modernità: egli parla al telefono con qualcuno al castello (ammesso che esso esista), ma la voce giunge confusa, contraffatta dal groviglio di fili. K. non riesce a dire il suo nome, né comprende chi vi sia dall’altra parte.
Gli eroi dei romanzi sono ben definiti nella loro identità, agli eroi degli antichi poemi bastava pronunziare il loro nome: avevano nome ed avevano soprattutto un compito da svolgere.
Karl Rossmann è destinato a svolgere un mestiere incerto, di Joseph K. non conosciamo esattamente l’occupazione, solo di K. sappiamo che è un agrimensore, attività tuttavia che non è necessaria al Castello. Più volte K. sottolinea quale sia il proprio lavoro. K. ha un lavoro, ma non un nome.
Nel mondo capitalistico non è importante l’essere, ma la funzione: bisogna produrre.
Vi è una conseguenza terribile socialmente e individualmente: chi produce può essere sostituito e rimpiazzato, perché è simile al prodotto, è res, e merce.
Non è irrilevante che K. sia un agrimensore (Landvermesser), letteralmente un misuratore di terra: egli ha un sistema di misure per valutare il mondo, ma di fronte al Castello la sua Weltschaung non serve, non gli permette di comprendere.
È probabile che nella scrittura kafkiana il Castello, inaccessibile, lontano, forse inesistente, rappresenti l’Assoluto, ma nella situazione di K. è anche da vedere quella dell’uomo del Novecento che perde le certezze raggiunte dalla scienza positivistica ed i grandi ideali romantici e non trova strumenti di conoscenza in grado di spiegare il mondo, il nuovo mondo che sta nascendo.
Kafka scrive agli inizi del Novecento e il mondo sta per essere sconvolto da una guerra impensabile, che cancellerà tre imperi, quello austro-ungarico, al quale apparteneva lo stesso Kafka, quello ottomano e quello zarista.
La medicina ha scoperto il lato oscuro dell’uomo, il subconscio, grazie a Sigmund Freud, sebbene la letteratura avesse anticipato lo scienziato austriaco; Albert Einstein ha rivoluzionato la fisica con la teoria della relatività, che cambia i concetti di spazio e di tempo.
L’uomo nuovo del Novecento si trova dinanzi ad un mondo che i vecchi strumenti filosofici, scientifici e religiosi non sanno spiegare. Quegli strumenti non danno sicurezze e non si può più essere certi nemmeno della propria identità; ormai tutto può essere sostituito, anche gli uomini, che hanno valore soltanto per quello che producono, e tutto può essere ridotto ad una cifra, ad una sigla o ad una lettera.
È tipico dei periodi di crisi l’uso del simbolo, che è per sua natura polivalente.
Anche nella scrittura di Franz Kafka vi è un paradosso: la sua lingua è semplice, ma non lo è la sua letteratura. Un castello è un castello, ma K. non riesce a vedere neanche la sua struttura architettonica.

Vi è nella letteratura un’altra lettera famosa, la “A” scarlatta da cui è contrassegnata Ester Pearl, la protagonista de “La lettera scarlatta” di Nathaniel Hawthorne: il narratore nota che tutti gli uomini che vogliono fondare la città di Dio sulla terra destinano una parte di terreno al cimitero ed un’altra parte alla prigione ed in una di queste prigioni giaceva Ester Pearl. La lettera scarlatta riluceva più intensamente alla luce delle stelle. La “A” simboleggia l’adulterio, il peccato commesso dalla protagonista, ma simboleggia anche l’America.
Anche qui siamo in presenza di una colpa, anche qui siamo in presenza di uomini che non comprendono il mondo dinanzi a loro. I puritani sbarcarono sulle coste americane con la loro fede incrollabile, con il loro cristianesimo intollerante, così come lo era quello di coloro che li perseguitarono e li costrinsero a fuggire, così come lo era quello della Santa Inquisizione cattolica, e si trovarono di fronte a popolazioni che avevano con la natura, con il mondo, un rapporto completamente diverso. La Bibbia, unico strumento di conoscenza dei puritani, non poteva spiegare il modo di vivere di quegli uomini e la risposta, l’unica possibile, fu che quegli uomini erano esseri demoniaci.
E quante volte abbiamo sentito definire le macchine moderne aggeggi infernali?

I personaggi dei romanzi kafkiani non comprendono il mondo, ma non lo demonizzano, perché è Kafka che non lo demonizza.
Vi è una via di salvezza, non trovata da Karl Rossmann o Joseph K. o K., ma da un altro personaggio kafkiano, da Josephine, la cantante (Franz Kafka, Josephine, la cantante ovvero del popolo dei topi, Racconti).

La soluzione è la poesia. Nella ressa di messaggi, nella confusione di voci che strepitano, urlano, nella moltitudine di informazioni che giungono dalle nostre sofisticate macchine elettroniche, possiamo ascoltare ancora l’unica voce consolatrice: la poesia.


dicembre 2003
 


 
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KAFKA E IL CANTO DI GIUSEPPINA
 
Kafka, meine liebe!

Albert Camus ha scritto che Kafka invita alla rilettura.
Franz Kafka è scrittore complesso, a dispetto della semplicità della sua prosa. La superficie testuale sembra richiedere continuamente un’interpretazione. Eppure le vicende narrate nei testi kafkiani prendono vita da un singolo avvenimento e intorno ad esso si sviluppano, o meglio non si sviluppano, perché non vi è mai ampliamento o progresso.
La vita dei romanzi e dei racconti è interamente affidata ad un unico accadimento: un uomo che viene arrestato per una ragione che è ignota, a lui come al lettore, un agrimensore che forse è stato convocato da qualche autorità risiedente in un presunto castello, un impiegato che si scopre trasformato in un mostruoso insetto e non chiede mai la ragione di quanto gli è avvenuto, un misero suddito che riceve un messaggio dall’imperatore moribondo e che mai giungerà a destinazione. Quale destinazione? Quale imperatore? Di quale impero? Perché il racconto si intitola un messaggio e non il messaggio dell’imperatore? Non è forse importante il messaggio? "Ha fatto inginocchiare il messaggero al letto, sussurrandogli il messaggio all’orecchio; e gli premeva tanto che se l’è fatto ripetere all’orecchio. Con un cenno del capo ha confermato quel che veniva detto".
Tento una duplice interpretazione, teologica e letteraria.
L’imperatore rappresenta Dio, un Dio lontano, che bisbiglia il suo messaggio e se lo fa ripetere, per essere certo di non essere frainteso. Quale sia il messaggio non viene riferito. Il Dio di Abramo e Moshé parlava con voce tonante, e tonante era la voce dei profeti, tonante era la voce di San Giovanni il Battista ed esse erano ascoltate da un popolo intero, ma il messaggero kafkiano è un misero suddito, minima ombra sperduta nella più lontana delle lontananze dal sole imperiale e s’incammina in silenzio. Conosce la sua meta? Conosce la strada? Non ci viene detto. Egli ha il petto segnato dal sole imperiale, ma questo segno non appare un privilegio, bensì quasi una macula di condanna, …ad un viaggio senza fine. I profeti erano vicini a Dio. Silenzio, macchia, distanza incolmabile: il messaggero ha connotazioni opposte a quelle dei profeti. Egli non giungerà mai e poi mai, anzi non riuscirà nemmeno ad uscire dal palazzo imperiale ed anche se ciò accadesse, si troverebbe di fronte al secondo palazzo (ma prima dovrebbe attraversare tutti i corridoi del primo) e così via per millenni. Per millenni! Il palazzo imperiale è un babelico labirinto, nel quale è impossibile trovare la porta per uscire, ammesso che una porta vi sia da qualche parte.
Che cosa raffigura questo labirinto? In che modo nasce nella fantasia kafkiana? Il ghetto di Praga, la città di Kafka, era formato da strette viuzze, vicoli angusti che si intersecavano l’un l’altro. La terra promessa è lontana, forse irraggiungibile. Si appartiene al ghetto, fa parte del proprio essere, è una dimensione spirituale. Ed anche se il messaggero riuscisse ad uscire, si troverebbe nel centro del mondo, ripieno dei suoi rifiuti. La legge cattolica per lungo tempo ha vietato di uscire dal ghetto durante la notte.
Perché il centro del mondo è pieno di rifiuti? Nella Kabbalah luriana viene detto che Dio ha inviato ovunque sulla terra piccole scintille (sekkinah) non immediatamente visibili e spetta all’uomo cercarle. L’esilio assume la dimensione di missione divina.
Il messaggero si troverebbe nel centro del mondo: significa che tutto il resto è periferia, distanza, lontananza.
La domanda iniziale assume un senso. Perché un e non il messaggio? Il messo imperiale (o divino?) si fa spazio tra la folla e troverebbe il centro del mondo soltanto dopo aver superato innumerevoli palazzi. Tra la folla, tra la moltitudine è difficile trovare la strada, tra la molteplicità è difficile riconoscere le sekkinah. Il rumore del mondo, il chiasso della modernità distraggono.
Vi sono altre due domande: a chi è indirizzato il messaggio? Qual è il suo contenuto?
La fine del racconto è enigmatica: Ma tu stai alla finestra e ne sogni, quando giunge la sera. È un’immagine malinconica, elegiaca. La malinconia è un peccato, perché nei colori imbruniti del crepuscolo v’è il pericolo di assegnare alla quotidianità un carattere trascendente ovvero un valore maggiore del voluto. Non è detto che colui o colei che aspetta, riconosca il messaggero imperiale. Il testo tuttavia non dice che egli aspetta, ma che ne sogna! Il messaggero è nei recessi profondi dell’anima. Si aspetta il messaggero o il messaggio?
Kafka ha parlato di letteratura, ma l’ha fatto non come un critico, bensì come un narratore, nella cui mente tutto diviene alta creazione immaginifica.
La letteratura è canto, ma è difficile riconoscerlo in un’epoca nella quale le voci si confondono. Di canto parla l’ultimo racconto di Kafka “Giuseppina la cantante ovvero il popolo dei topi” (1924), che ad una lettura attenta sembra essere il testamento spirituale dello scrittore. "La nostra cantante si chiama Giuseppina. Chi non l’ha sentita non conosce il potere del canto…Ma è proprio un canto? Non è forse soltanto un fischiare?". La letteratura è presentata come dilemma, ma dilemma della modernità, perché "nei tempi antichi il nostro popolo cantava, ne parlano le leggende, e si sono perfino conservate canzoni, che nessuno però sa più cantare". Alle leggende era affidata la memoria dei popoli, ma nel tempo della scrittura i miti perdono il loro carattere di verità inconfutabile, si perdono tra le righe impresse d’inchiostro. E soprattutto vanno smarriti allorché narrare diviene un mestiere.
Bisogna vendere la merce. Questa la regola del capitalismo, del consumismo. Non c’è tempo di stare alla finestra e sognare. Anche la letteratura deve sottostare a questa regola.
Giuseppina è personaggio ambiguo, perché se da un lato ella sembra disegnare l’artista occupata soltanto dalla sua arte, dall’altro pare configurare l’esperto nello sfruttare gli umori del pubblico: "D’altronde lei è sempre così; ogni inezia, ogni caso fortuito, ogni renitenza, uno scricchiolio in platea, uno stridere di denti, un guasto nell’illuminazione le offre il destro di aumentare l’effetto del suo canto". Giuseppina è anche presa dalla sua arte. Ma bisogna pur vivere:"Già da molto tempo, forse dal principio della sua carriera d’artista, Giuseppina lotta per essere dispensata da ogni lavoro in considerazione del suo canto…"; "Diversa è invece la sua lotta per l’esonero dal lavoro; è sempre una lotta per il suo canto".
Sappiamo quanto Kafka abbia sofferto la sua duplice esistenza, quella giornaliera di impiegato e quella notturna di scrittore, ma non si deve commettere l’errore di pensare che lo scrittore praghese abbia inteso parlare della propria scrittura, o meglio se anche questa fosse stata la sua intenzione, si deve sempre considerare il fatto che i grandi narratori rivelano verità universali. Le considerazioni esposte, se pure nell’intenzione di Kafka fossero state limitate alle sue opere –ma non lo credo-, vanno estese a tutta la letteratura del Novecento, e forse esse sono più valide oggi che nel 1924, in un’era che appare più kafkiana di quella di Kafka, nel nostro tempo strepitante del chiasso dei giornali, della televisione, della radio, di internet, poiché si rischia di scambiare un canto per un sibilo e un sibilo fastidioso per un canto. Non più ascoltiamo le verità dei miti, assisi intorno ad un uomo sapiente, non più ascoltiamo il messaggio di colui che conosceva, ma soli leggiamo e cerchiamo fra le righe, ascoltiamo mille e mille voci e le confondiamo.
La letteratura moderna impone più attenzione e può anche sembrare, all’immediata lettura, di ascoltare un sibilo, ma leggendo o rileggendo -ad esempio leggendo e rileggendo Kafka- accade di percepire una melodia infinita ed allora porremo fra i grandi del tempo gli autori che penetrano nel nostro spirito. E forse ascolteremo anche il messaggio dell’imperatore.
può darsi perciò che non ne sentiremo molto la mancanza, mentre Giuseppina, liberata dagli affanni terreni, i quali sono riservati a tutti gli eletti, si perderà lietamente nella innumerevole moltitudine degli eroi di nostra gente, e presto, dato che noi non registriamo la storia in una redenzione superiore, sarà dimenticata come tutti i suoi fratelli”(1).

1)Franz Kafka, Racconti, Milano, pag 597
 


 
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LA DISMISURA DEL CACCIATORE GRACCO
 
Il Canto XXVI della prima cantica della Divina Commedia di Dante Alighieri sembra contenere uno scontro fra due culture: quella greca dell’eterno ritorno e quella giudaico-cristiana della unicità di ogni elemento della vita.
Ulisse viene inabissato insieme ai suoi compagni da Dio di fronte alla montagna del Purgatorio.

(Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,

quando n'apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
ché de la nova terra un turbo nacque,
e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fé girar con tutte l'acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com'altrui piacque,

infin che 'l mar fu sovra noi richiuso».)


Conosciamo il peccato di Ulisse: egli ha oltrepassato i limiti imposti all’uomo, ha troppo confidato nel suo multiforme ingegno.
Piero Boitani (1) ha correttamente rilevato che Ulisse è l’unico personaggio dell’Inferno dantesco punito personalmente da Dio, da un Dio però completamente sconosciuto all’eroe greco. La tragicità dell’evento risiede nell’aggettivo sconosciuto.
Inseriamo nella vicenda narrata dalla multiforme fantasia di Dante la Weltanschauung greca di Odisseo: quel Dio non soltanto è sconosciuto, ma soprattutto è letteralmente non immaginabile (Non ti farai immagini né dipinte né scolpite di me), non nominabile (Io sono colui che sono), e quindi non conoscibile, ed il nome è identificazione. Saul di Tarso divenne cieco sulla via di Damasco per aver visto la luce e manata da Dio. Questo Dio non ha forma e ciò che non ha forma per i Greci non esiste.
C’è nell’episodio dantesco la rappresentazione dell’insanabile contrasto tra la cultura greca, che è amore del mitos e fiducia nel logos, e la cultura ebraica e cristiana che s’allontana dal mito ed insinua nell’Occidente il terribile dubbio che la sapienza non sia il fine della vita e non sia foriera di gioia, il dubbio che l’uomo non viva in una terra del tutto a lui conoscibile, sebbene gli uomini s’approprino del controllo dei fenomeni naturali e indaghino continuamente per conoscere i segreti della natura.
L’Ulisse dantesco sta nella terra di nessuno, viaggia nella patria senza patria, nella landa al penultimo stadio del ciclo eterno del mondo (nascita, prosperità, dismisura, decadenza); egli risiede sul confine tra ubris e disfacimento: egli è l’uomo che eternamente parte ed eternamente ritorna. La decadenza, ultimo grado del ciclo, non significa per i Greci morte assoluta, perché dalla pianta morente rinasce una nuova linfa vitale.
Egli varca le colonne erette da Ercole a misura di soglia invalicabile, ma non è concepibile che egli non sia cosciente che tale atto arrecherà conseguenze, non è accettabile che egli ignori che il suo gesto è foriero di effetti, e basterebbe a mostrare tale consapevolezza le implicazioni nascoste nella orazion picciola rivolta ai suoi compagni per esortarli a seguirlo nel folle volo; egli osa sapendo di provocare con la sua azione, totalmente empia da un punto di vista ebraico- cristiano e quindi anche dantesco, effetti per sé stesso e per il suo equipaggio.
Odisseo, quello culturalmente greco, certamente non ignorava il mito di Prometeo e la punizione da questi sofferta, ma l’atto di Prometeo fu vantaggioso per gli uomini che poterono godere di molti doni divini, soprattutto della civiltà. L’avvoltoio mangia in continuazione il fegato, sede dell’anima, di Prometeo, ma il fegato continuamente rinasce, segno che gli uomini si erano impossessati della facoltà degli Dei di rinascere. Ulisse conosce Prometeo come conosce Poseidone, contro il quale ha lottato durante i lunghi anni del ritorno non soccombendo.
Anche a Poseidone è legato un mito della ri-nascita. Il mito del dio che muore e rinasce si trova in tutte le culture, da Oriente ad Occidente, da Nord a Sud; nessuna civiltà ne è priva. Questo Dio che punisce Ulisse non permette l’agnizione, che rappresenta lo scioglimento positivo del mito, vale a dire l’atto con cui l’uomo non soltanto identifica e possiede le forze della natura, ma anche la dimostrazione di chi è, da dove proviene, dov’è, perché è.
Lo stesso Ulisse dantesco non è né immorale né amorale: egli infatti dice “fatti non foste a viver come bruti,/ma per seguir virtute e conoscenza".(vv. 119-120), ove virtute sta a significare che Ulisse brama la conoscenza, ma guidata dall’etica. Nel Canto III del Purgatorio i versi di Dante recitano “Perder tempo a chi più sa più spiace”, a manifestazione che fra il poeta fiorentino ed Ulisse esiste una similarità di Weltanschauung, poiché entrambi assegnano alla vita una altissima missione, tuttavia diverge il tipo di sapienza che essi cercano: l’Ulisse dantesco si trova in un mondo altro, opposto alla grecità, in un mondo nel quale non è permesso comunicare con gli Dei, perché vi è un solo Dio, che è al di là, che è altrove, è jenseits, e non basta oltrepassare le colonne d’Ercole per trovarlo e conoscerlo; egli è infinitamente lontano, è l’imperatore assiso sul trono che delega un messaggio all’ultimo dei sudditi sperduto nelle lontananze, che mai e poi mai riuscirà a portarlo a destinazione. Fra l’Ulisse dantesco, che non si lamenta della condanna subita, e l’Odisseo culturalmente greco non esiste alcun rapporto. Allorché Dante permette ad Ulisse di superare le colonne d’Ercole, immette il personaggio nella propria visione cristiana del mondo, lo trasporta in una cultura altra, e da qui nasce una seconda dismisura, forse ignota allo stesso Dante: da una parte c’è la ubris greca di Odisseo, dall’altra c’è la non attitudine di quella cultura a misurare il mondo, un mondo nuovo con un Dio altro. Odisseo, quello che conosciamo dalla lettura del grande poema omerico, era in un rapporto diretto con Dei e semidei; è nella sua incessante sfida con i misteri, con l’ignoto e l’insondabile, il senso della vita: egli inganna Eolo, che certamente dovrebbe essere il protettore più caro ad un marinaio; è nemico di Nettuno sovrano assoluto del mare; rifiuta il dono dell’eternità dell’amante Calipso. Con la sfida agli Dei Ulisse divine partecipe del mito, o almeno cerca di esserne parte.
La cultura greca è trasgressione, la cultura ebraica e cristiana predica il timor di Dio.
Nel racconto dantesco il mito è lontano, è ormai in un tempo perduto allorché l’eroe fa rotta verso “il mondo sanza gente” nell’ “alto mare aperto”. Il mito è probabilità di conoscere, non di possedere, le forze inspiegabili, e nel suo significato più profondo è fiducia nella possibilità dell’uomo di vincere la morte, perché, pur non essendo ancora logos, il mito è già parola che pretende risposta ed in ciò viene soddisfatto sempre, è parola che sta continuamente di fronte alla alterità e la vince divenendo parte di essa, affrontando tutte le possibili conseguenze, consapevole che nessun atto ne è privo; inoltre il mito è anche coscienza che nessun atto dell’Altro è esente da effetti, poiché – grandezza della democraticità teologica greca – gli Dei provano per gli esseri umani invidia, sentimento umano come la dismisura.
Il Dio che Ulisse non incontra, che è Dio - (“il Dio di Moshé è Dio” dice il Faraone Rames II nel film di John Houston, dopo aver visto la separazione della acque del Mar Rosso, ed è una frase tremendamente tragica per un egiziano, convinto che le statue fossero divinità, per coloro che sono in rapporto con gli Dei), - può essere soltanto Sé Stesso, può pensare soltanto Sé Stesso, può parlare soltanto a Sé Stesso, e per l’uomo, che abbia nome Adamo o Ulisse, Egli resta in silenzio, che è la risposta più terribile che si possa immaginare alla ineluttabile domanda metafisica; è il drammatico silenzio della Inconoscibilità, della Inenarrabilità, della distanza incolmabile fra uomo e cielo, lontananza che la morte del mito succeduta all’avvento della cultura ebraica – cristiana ha causato.
Il mondo sanza gente non è tuttavia il regno del nulla, perché il silenzio è già qualcosa, e non è ancora il regno dei morti, è piuttosto il regno delle penombre, del sogno ove le voci si confondono, è la terra ove più sfuggenti si fanno i segni della vita, ove più incerto è si fa “seguir virtute e conoscenza”, ove tutto è labirinto.
Eppure una speranza resta: nel racconto “I due re e i due labirinti”, J. L. Borges narra di due re che vicendevolmente si smarriscono nel labirinto altrui: il primo riesce a trovare la via fra scale, corridoi, meandri, corridoi, e ad uscire; il secondo, lasciato nel deserto non sa orientarsi e muore di fame e di sete: la vita, i segni che essa ci propone quotidianamente, è un labirinto, ma importante non è trovarne il senso, bensì cercarlo.
Il labirinto non è terribile, come non lo è la foresta – e ciò sanno i narratori e le narratrici di fiabe - , terribile è il deserto, è il non cercare, è non poter narrare. Da questa impossibilità deriva il terrore. Ma allora, se Ulisse sta dinanzi al Silenzio, che cosa può ormai narrare? Non ci sono più interrogativi, non c’è più una meta, e soltanto la via percorsa forse può essere detta. La via però è la terra di nessuno, è già silenzio.
Paradossalmente è il Silenzio a rigenerare la poesia ed a creare forse un nuovo mito. Ulisse è il personaggio più solo dell’Inferno dantesco, non accomunato ai lai ed alle grida di dolore, non percosso da demoni, bruciato da una fiamma senza calore.
Qui siamo oltre il nostro interesse rappresentato dalle acque oltre le colonne d’Ercole e dall’incontro/non incontro con Dio. Il disperso non è nel mondo dei morti, ma fra le penombre, nella semioscurità.
Nel mondo antico i miti erano patrimonio della comunità, erano verità tramandate non di padre in figlio, ma di generazione in generazione, ed essendo tali erano anonimi. È forse per questo che la poesia del mito ha un particolare fascino per noi tanto bisognosi di identità, di nome, di riconoscibilità.
Non è un caso che la perdita sia stata fissata nella letteratura moderna da uno scrittore ebreo, ma nel quale l’ebraicità e l’ebraismo stanno al di sotto della superficie testuale.
Non è soltanto nella scomparsa del nome dei personaggi dei tre romanzi kafkiani - (Karl Rossmann in “Amerika”, Joseph K. In “Il Processo”, K. in “Il Castello) - che si attua la perdita d’identità.
Nel racconto Il cacciatore Gracco”(2) ritroviamo il dramma di Ulisse, vale a dire il mondo del Silenzio inquietante che si oppone alla domanda metafisica dell’uomo. Questo terribile silenzio attraversa tutta l’opera di Franz Kafka, ma nel “Cacciatore Gracco” la fine del mito ha una costruzione più evidente.
Ulisse è un grande navigatore ed il suo mezzo è una nave con un equipaggio di marinai esperti, che hanno superato centomila pericoli; questo solo dato proietta Odisseo nel mito, lo fa personaggio ad essere adatto alla fantasia, lo fa eroe, poiché il mare è elemento adeguato come nessun altro all’avventura. Nel mare Ulisse, l’eroe, può sperimentare ed esplicare la sua temerarietà, può sfidare Poseidone; affrontando l’elemento più terribile che esista in natura, Odisseo entra dapprima nella leggenda e successivamente nel mito e diviene mito egli stesso.
Il cacciatore Gracco naviga nel mondo al confine tra la morte e la vita su una misera barca non adatta a grandi viaggi, non opportuna ad affrontare pericoli, e va alla deriva.
Il fatto che il luogo in cui si trova il cacciatore Gracco sia tra la vita e la morte è testimoniato dal dialogo che egli ha con il sindaco di Riva, posto in cui approda durante l’eterno viaggio:
Sie sind tot” “Ja” sagte der Jäger “wie Sie sehen. Vor vielen Jahren, es müssen aber ungemein viel Jahre sein, stützte ich im Schwarzwald – das ist in Deutschland – von einem Felsen, als ich eine Gemse verfolgte. Seitdem bin ich tot“. „Aber Sie leben doch auch“(3) sagte der Burgermeister.
(„Lei è morto” “Si” disse il cacciatore “come lei vede. Da molti anni, devono essere molti anni, precipitai nella foresta nera – è in Germania – da una rupe, mentre inseguivo una cerva. Da allora sono morto.” “Ma lei vive anche” disse il sindaco).

Il cacciatore chiarisce che la barca ha banalmente sbagliato rotta ed egli sta sempre al confine con l’aldilà.
L’Ulisse dantesco non ha sbagliato rotta, ha scelto l’alto mare aperto ed il mondo senza gente, ma parimenti è nel luogo delle penombre, nella regione antistante al regno dei morti, ed anch’egli è come il cacciatore Gracco vivo e morto ad un tempo, poiché è uomo ormai al di là del mondo, ha rinunciato agli affetti familiari, all’amore della moglie, del padre e del figlio, alla sua carica di sovrano d’Itaca, ha rinunciato a tutto ciò che è identità.
Ulisse nel suo viaggio incontra la montagna del Purgatorio e Dio, mentre il cacciatore Gracco approda in un luogo che ha nome semplicemente e banalmente Riva ed incontra semplicemente e banalmente un sindaco.
Non si vuole certo affermare che Kafka abbia voluto consciamente ridurre la figura di Ulisse trasformandola nel cacciatore Gracco, ma piuttosto che il personaggio kafkiano scaturisce da un lungo processo letterario che conduce alla morte dell’eroe.
Fra il cacciatore Gracco e l’Ulisse dantesco esistono delle similarità.
La nave di Ulisse segue una rotta, ma non è una vera rotta, poiché dopo le colonne non vi sono più punti di riferimento veri, se non un vago Occaso, e l’eroe non sa dove sta andando; il cacciatore Gracco dice “Mein Kahn ist ohne Steuer, er fährt mit dem Wind, der in dem untersterten Regionen des Todes bläst”(4) (La mia barca è senza timone, viaggia con il vento che soffia nelle più basse regioni della morte).
Sia il navigatore Ulisse che il cacciatore Gracco sono connotati da misura: il primo ha cieca fiducia nella possibilità di conoscenza della ragione, il secondo è convinto di essere ancora un personaggio epicamente eroico, persuasione che lo spinge ad affermare: “Der große Jäger vom Schwarzwald hiess ich”(5)(Il grande cacciatore della Foresta Nera mi chiamavo); ambedue periscono in un incidente e l’accidente che uccide Ulisse è solo apparentemente eroico, perché l’eroe greco non è tale di fronte al Dio giudaico-cristiano; ambedue non comprendono la ragione della loro fine, perché si trovano ad una distanza infinita dal cielo e da Dio, stanno in un mondo dove, non tragicamente, ma semplicemente e banalmente, ed ironicamente (ironia terribile), non esistono risposte, stanno nel mondo del Silenzio.
In questo Silenzio sta la morte del mito, ma paradossalmente sta anche la possibilità di una nuova letteratura. Kafka ha scritto “Io sono una fine ed un principio”.

1) Boitani, Piero, L’ombra di Ulisse, Il Mulino, Bologna, 1992
2) Kafka, Franz, Der Jäger Graccus, in Sämtliche Erzählungen, Fischer Verlag, pagg. 285 - 288
3) Ivi, pag. 287
4) Ivi, pag. 288
5) Ivi, pag. 288
 


 
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RILETTURE: UN MESSAGGIO DELL'IMPERATORE
 
Eine kaiserliche Botschaft
Der Kaiser - so heißt es - hat dir, dem Einzelnen, dem jämmerlichen Untertanen, dem winzig vor der kaiserlichen Sonne in die fernste Ferne geflüchteten Schatten, gerade dir hat der Kaiser von seinem Sterbebett aus eine Botschaft gesendet. Den Boten hat er beim Bett niederknien lassen und ihm die Botschaft ins Ohr geflüstert; so sehr war ihm an ihr gelegen, daß er sich sie noch ins Ohr wiedersagen ließ. Durch Kopfnicken hat er die Richtigkeit des Gesagten bestätigt.Und vor der ganzen Zuschauerschaft seines Todes - alle hindernden Wände werden niedergebrochen und auf den weit und hoch sich schwingenden Freitreppen stehen im Ring die Großen des Reichs - vor allen diesen hat er den Boten abgefertigt. Der Bote hat sich gleich auf den Weg gemacht; ein kräftiger, ein unermüdlicher Mann; einmal diesen, einmal den andern Arm vorstreckend schafft er sich Bahn durch die Menge; findet er Widerstand, zeigt er auf die Brust, wo das Zeichen der Sonne ist; er kommt auch leicht vorwärts, wie kein anderer. Aber die Menge ist so groß; ihre Wohnstätten nehmen kein Ende. Öffnete sich freies Feld, wie würde er fliegen und bald wohl hörtest du das herrliche Schlagen seiner Fäuste an deiner Tür. Aber statt dessen, wie nutzlos müht er sich ab; immer noch zwängt er sich durch die Gemächer des innersten Palastes; niemals wird er sie überwinden; und gelänge ihm dies, nichts wäre gewonnen; die Treppen hinab müßte er sich kämpfen; und gelänge ihm dies, nichts wäre gewonnen; die Höfe wären zu durchmessen; und nach den Höfen der zweite umschließende Palast; und wieder Treppen und Höfe; und wieder ein Palast; und so weiter durch Jahrtausende; und stürzte er endlich aus dem äußersten Tor - aber niemals, niemals kann es geschehen -, liegt erst die Residenzstadt vor ihm, die Mitte der Welt, hochgeschüttet voll ihres Bodensatzes. Niemand dringt hier durch und gar mit der Botschaft eines Toten. - Du aber sitzt an deinem Fenster und erträumst sie dir, wenn der Abend kommt.

“Kafka invita alla rilettura” ha scritto Albert Camus. Il lettore di Franz Kafka non si accontenterà mai di una sola lettura e di una sola interpretazione, ma cercherà sempre al di là della superficie testuale, pur sapendo che ogni spiegazione può essere quella corretta o quella errata. Tutte le interpretazioni possono essere accettate, perché Kafka ha donato al lettore il piacere di vagare nel labirinto dei significati nascosti nel testo.
Torno sul racconto forse più enigmatico di Kafka, “Un messaggio dell’Imperatore” e tento altre due interpretazioni.
Kafka ha parlato spesso della sua scrittura, naturalmente in modo simbolico. Nel primo romanzo, “Amerika”, il protagonista Karl Rossmann parla dal balcone di un albergo con uno studente che studia di notte, perché di giorno lavora ed ha ancora tanto tempo per dormire. Qui è abbastanza facile intuire che lo scrittore praghese alludeva al fatto che egli scriveva soltanto di notte, mentre di giorno lavorava nell’ufficio della società di assicurazione presso cui era impiegato.
È possibile, ed anche probabile, che nel racconto “Nella colonia penale”, nel quale si narra di un uomo condannato ad indovinare la sua colpa che una macchina terribile scrive sulla sua fronte, Kafka simboleggi la fatica della scrittura, così come in “Josephine, la cantante del popolo dei topi”, viene raffigurato il malessere dello scrittore novecentesco che deve adattarsi al mercato.
Nel novecento scrivere diviene un mestiere. Kafka pubblicò i suoi primi racconti a proprie spese. La casa editrice pubblicò undici copie, delle quali dieci furono comprate dallo stesso Kafka, ma egli non seppe mai chi avesse comprato l’undicesima.
Verrebbe da pensare che Kafka si sia adattato al mercato anche come compratore.
Rileggiamo “Un messaggio dell’Imperatore”. Nella infinità di pubblicazioni che il mercato ci offre, e che offriva anche all’inizio del Novecento, è difficile distinguere la buona letteratura dalle cosiddette pubblicazioni-spazzatura.
Il messaggero incaricato dall’Imperatore non riuscirà mai ad uscire dal palazzo imperiale, ed anche se vi riuscisse, non servirebbe a nulla, perché vi sarebbe un altro palazzo e ancora un altro e così per millenni.
E se pure alla fine di questi millenni il messaggero riuscisse ad uscire, a farsi largo fra la moltitudine, giungerebbe nel centro del mondo pieno dei suoi rifiuti.
Il messaggio è forse la stessa scrittura di Kafka, la moltitudine è forse l’infinità delle pubblicazioni. Du aber sitzt an deinem Fenster und erträumst sie dir, wenn der Abend kommt .(Ma tu siedi alla tua finestra e lo sogni, quando arriva la sera).
Chi è che sogna il messaggio? È forse il lettore, che sogna che qualcuno un giorno giunga e spieghi il senso della scrittura di Kafka. Ma la sera induce alla malinconia ed il lettore può solo sognare…
Contro questo interpretazione tuttavia c’è un segnale all’inizio: Der Kaiser - so heißt es (L’Imperatore- così si dice).. “Così si dice” “Così si racconta”: questa piccola frase richiama la letteratura orale.
Per ogni attento lettore di Kafka non è un mistero che ogni racconto sia scritto come un testo antico. In “Un messaggio dell’Imperatore” ciò è ancora più evidente: esso ha il tono e il ritmo di una parabola biblica, così come il racconto “Davanti alla Legge”.
L’Imperatore ha chiamato il più misero dei sudditi, l’ombra più lontana dal sole imperiale, per affidargli il messaggio dal letto di morte, un messaggio che non giungerà mai a destinazione, perché forse non c’è destinazione, o forse perché fra la moltitudine il messaggero si smarrirà.
Nel racconto c’è una voce narrante, ma che sa soltanto ciò che l’antica leggenda racconta.
La voce narrante non scrive il racconto, così come nessuno sa chi abbia scritto la Bibbia.
I talmudisti leggono e rileggono la Torah e danno infinite interpretazioni di ogni narrazione, di ogni frase, di ogni parola, perfino di ogni lettera.
Il popolo ebraico era un popolo di pastori ed è il primo che nella religione ha sostituito il Dio unico alla molteplicità degli Dei.
Era un popolo dunque che non aveva città, vagava nel deserto, lontano, come il messaggero kafkiano, da ogni autorità, era un’ombra rispetto agli altri popoli del Medio Oriente. Allora Dio scrive un libro per questo popolo. Ma il viaggio non termina mai, perché il popolo si disperde nella molteplicità del mondo, nella moltitudine dei popoli. Che fare? Aspettare che Dio invii un messaggio, aspettare che Dio invii finalmente il messia promesso o almeno un messaggio che spieghi infine il senso della vita o almeno di quel misterioso libro. Ma trascorrono secoli, anzi millenni, fra le moltitudini, nei ghetti pieni di spazzatura, e si legge sempre lo stesso libro e nel tempo il ricordo del significato si dimentica, si smarrisce. Non resta altro che aspettare o forse solo sognare che un giorno il messaggio giungerà, ma la sera induce alla melanconia e nella luce del crepuscolo vi sono soltanto ombre, come in sogno.


5 ottobre 2008
 


 
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KAFKA E I SIMBOLI NASCOSTI
LETTURA CRITICA
 
Davanti alla legge (Franz Kafka)

Davanti alla legge c'è un guardiano. Davanti a lui viene un uomo di campagna e chiede di entrare nella legge. Ma il guardiano gli dice che ora non gli può concedere di entrare. L'uomo riflette e chiede se almeno potrà entrare più tardi. Può darsi" risponde il guardiano, "ma per ora no.". Siccome la porta che conduce alla legge è aperta come sempre e il custode si fa da parte, l'uomo si china per dare un'occhiata, dalla porta, nell'interno. Quando se ne accorge, il guardiano si mette a ridere: 'Se ne hai tanta voglia prova pure a entrare nonostante la mia proibizione. Bada, però: io sono potente, e sono soltanto l'infimo dei guardiani. Davanti ad ogni sala sta un guardiano, uno più potente dell’altro. Già la vista del terzo non riesco a sopportarla nemmeno io". L'uomo di campagna non si aspettava tali difficoltà; la legge, pensa, dovrebbe pur essere accessibile a tutti e sempre, ma a guardar bene il guardiano avvolto nel cappotto di pelliccia, il suo lungo naso a punta, la lunga barba tartara, nera e rada, decide di attendere piuttosto finché non abbia ottenuto il permesso di entrare. Il guardiano gli dà uno sgabello e lo fa sedere di fianco alla porta. Là rimane seduto per giorni e anni. Fa numerosi tentativi per passare e stanca il guardiano con le sue richieste. Il guardiano istituisce più volte brevi interrogatori, gli chiede notizie della sua patria e di molte altre cose, ma sono domande prive di interesse come le fanno i gran signori, e alla fine gli ripete sempre che ancora non lo può far entrare. L'uomo che per il viaggio si è provveduto di molte cose dà fondo a tutto per quanto prezioso sia, tentando di corrompere il guardiano. Questi accetta ogni cosa, ma osserva: "Lo accetto soltanto perché tu non creda dì aver trascurato qualcosa". Durante tutti quegli anni l'uomo osserva il guardiano quasi senza interruzione. Dimentica gli altri guardiani e solo il primo gli sembra l'unico ostacolo all'ingresso della legge. Egli maledice il caso disgraziato, nei primi anni ad alta voce, poi quando invecchia si limita a brontolare tra sé. Rimbambisce e siccome studiando per anni il guardiano conosce ormai anche le pulci del suo bavero di pelliccia, implora anche queste di aiutarlo e di far cambiare opinione al guardiano. Infine il lume degli occhi gli si indebolisce ed egli non sa se veramente fa più buio intorno a lui o se soltanto gli occhi lo ingannano. Ma ancora distingue nell'oscurità uno splendore che erompe inestinguibile dalla porta della legge. Ormai non vive più a lungo. Prima di morire tutte le esperienze di quel tempo si condensano nella sua testa in una domanda che finora non ha rivolto al guardiano. Gli fa un cenno poiché non può ergere il corpo che si sta irrigidendo. E il guardiano è costretto a piegarsi profondamente verso di lui, poiché la differenza di statura è mutata molto a sfavore dell'uomo di campagna. "Che cosa vuoi sapere ancora?" chiede il guardiano, "sei insaziabile.". L'uomo risponde: "Tutti tendono verso la legge, come mai in tutti questi anni nessun altro ha chiesto di entrare?". Il guardiano si rende conto che l'uomo è giunto alla fine e per farsi intendere ancora da quelle orecchie che stanno per diventare insensibili, grida: "Nessun altro poteva entrare qui perché questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo".

Lettura di Mario Amato
Spesso la scrittura di Franz Kafka è enigmatica e costringe a cercare anche origini culturali antiche. C’è un dato costante nelle narrazioni kafkiane: esse non hanno una datazione precisa, tanto che Walter Benjamin scrisse “Kafka pensa per ere”[1]. Il racconto che tento qui di interpretare è forse uno dei più ricchi di simboli e appunto per questo parto da molto lontano.
Nella letteratura biblica ebraica esiste uno strano ed incomprensibile divieto: Dio proibisce a Mosé di entrare nella terra promessa. La spiegazione religiosa è chiara: Mosé non fu completamente fedele a Dio. Al lettore di letteratura questa proibizione appare sì conforme al Dio dell’Antico Testamento, ma pur sempre ingiusta. Mosé è il prescelto per guidare il popolo eletto fino a Canan; Dio è al suo fianco nella lotta per la libertà; a Mosé si devono i riti per Pessach (“Mangeremo pane non lievitato ed erba amara per ricordare questo giorno”); egli invoca il Signore per i miracoli in soccorso del suo popolo; a lui soprattutto sono affidate le tavole della legge sul monte Sinai. La legge è dunque il compito più alto affidato a Mosé. Su quelle dieci norme scritte direttamente da Dio, il popolo ebraico dovrà edificare la sua storia, eppure Mosé non ne farà più parte; andrà vagabondo nel deserto, dove l’unica legge è la sopravvivenza.
L’uomo di campagna nel racconto di Franz Kafka somiglia a Mosé, che nell’immaginario del lettore non è errante nel deserto, ma fermo dinanzi ai confini della terra promessa. A differenza del personaggio di Kafka, Mosé conosce la ragione della sua esclusione, ma ciò non comporta che egli aspetti di entrare. Può darsi che il racconto kafkiano abbia tratto ispirazione dall’episodio biblico. Kafka forse non era credente, tuttavia egli sentì l’attrazione per l’ebraismo, soprattutto per l’ebraismo dello “stehlt”, come testimonia la “Lettera al padre”, nella quale accusa il genitore di ebraismo soltanto esteriore.
La porta della legge è aperta, così come il deserto, da cui il popolo ebraico proveniva, è spazio aperto. L’uomo di campagna non entra, come Mosé non entra. Entrare nella legge significherebbe farne parte, così come ne fa parte il guardiano. Mosé non entra e non farà parte della storia futura del suo popolo. Possiamo immaginare che Mosé, dopo tanto cammino e tanto dolore, non guardi la terra nella quale gli è stato vietato di entrare? Certamente Mosé guardò così come il personaggio di Kafka si china a dare un’occhiata. Il guardiano dice “Prova pure a entrare, nonostante la mia proibizione”.
Se in “Un messaggio dell’Imperatore”, l’imperatore può rappresentare Dio, in questo racconto non esiste un solo guardiano, ma esistono altre porte e altri guardiani più terribili del primo. Il pensiero va ovviamente alla “Divina Commedia” di Dante ed ai guardiani infernali, tuttavia questo custode appare terribile soltanto all’uomo di campagna. Dante aveva usato figure mitiche come Cerbero o Minosse o Flegiàs, personaggi dalle tre teste o dalla coda che si avvinghia a tutto il corpo. Kafka riduce questo guardiano ad un uomo in cappotto e pieno di pulci e che accetta anche di essere corrotto. La sua giustificazione per l’accettazione dei doni è infantile.
Il lettore deve porsi altre domande? Che cosa rappresenta la porta della legge? E soprattutto la porta di quale legge? Perché l’uomo di campagna non prova ad entrare? Qual è la domanda che l’uomo di campagna doveva rivolgere al guardiano fin dall’inizio?
La legge! Quale legge? Kafka inserì questo racconto nel romanzo “Il processo”, ma qui è un prete cattolico a raccontare la storia dell’uomo di campagna a Josef K. dinanzi ad un duomo. Il capitolo nel romanzo si intitola “Il Duomo”.
C’è una considerazione da fare: le tavole mosaiche della legge erano uno strumento per mantenere unito un popolo ed effettivamente il popolo ebraico è riuscito nel corso delle varie diaspore, e persino negli inferni dei campi di sterminio nazisti, a mantenere la propria cultura e la propria lingua (“Signore, fa che la mia lingua si attacchi al mio palato. Come farò altrimenti a cantare le tue lodi in terra straniera?” recita una preghiera ebraica).
I comandamenti dati a Mosé da Dio non sono soltanto regole religiose, ma anche leggi civili per la comunità. Basti pensare che i comandamenti aboliscono la legge del taglione e negano con forza la pena di morte. Se si esaminano alcuni comandamenti si nota immediatamente come essi siano norme giuridiche; ad esempio “Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te” è una norma comportamentale di rispetto; essa corrisponde anche al precetto liberale: “la mia libertà finisce dove inizia quella dell’altro”. Allo stesso modo il comandamento “onora il padre e la madre” prescrive il rispetto per il genitori, non l’amore. E noi sappiamo che in molti paesi la legge vieta ai parenti di testimoniare a favore o contro i propri parenti. È però vero che nell’ebraismo queste regole sono anche religiose. Nella diaspora gli ebrei si trovarono a dover rispettare due tipi di legge: quella ebraica e quella della nazione nella quale erano giunti ed in cui si sentivano ancora stranieri. Il racconto di Kafka adombra il problema dell’assimilazione. A volte queste leggi venivano in contrasto, ad esempio nella Spagna della Santa Inquisizione, allorché gli ebrei erano costretti a praticare il loro culto in segreto ed alcuni fra essi fingevano di convertirsi al cattolicesimo. Nella narrazione kafkiana l’uomo di campagna trascorre un tempo lunghissimo davanti alla legge, fino al punto che i suoi occhi si indeboliscono ed egli non sa più distinguere se sia buio oppure se sia la sua vista ad infiacchirsi. Nella diaspora i due tipi di legge possono confondersi ed è arduo comprendere a quale si debba obbedire. Eppure dalla legge emana ancora uno splendore, una luce inestinguibile. Che cosa è questa luce? È forse la luce della conoscenza o è forse la luce della scrittura kafkiana, che pure sembra tanto oscura? La porta che conduce alla legge – dice il guardiano – era destinata all’uomo di campagna, ma egli non ha posto la semplice domanda “Per chi è questa porta?”. L’errore dell’uomo di campagna risiede nella sua inattività, nella cattiva interpretazione delle parole del guardiano. Così come nel racconto “Giuseppina ovvero la cantante del popolo dei topi” il canto di Giuseppina diviene una melodia ad un ascolto attento, anche qui Kafka invita il lettore a non fermarsi alla superficie del testo, ma ad una lettura attenta e profonda, ad una continua rilettura, perché la letteratura non è soltanto narrazione, ma infinita ricerca.

1) Benjamin, Walter Angelus Novus Einaudi, Torino
 


 
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EIN TRAUM
 
Josef K. träumte:
Es war ein schöner Tag und K. wollte spazierengehen. Kaum aber hatte er zwei Schritte gemacht, war er schon auf dem Friedhof. Es waren dort sehr künstliche, unpraktisch gewundene Wege, aber er glitt über einen solchen Weg wie auf einem reißenden Wasser in unerschütterlich schwebender Haltung. Schon von der Ferne faßte er einen frisch aufgeworfenen Grabhügel ins Auge, bei dem er haltmachen wollte. Dieser Grabhügel übte fast eine Verlockung auf ihn aus und er glaubte, gar nicht eilig genug hinkommen zu können. Manchmal aber sah er den Grabhügel kaum, er wurde ihm verdeckt durch Fahnen, deren Tücher sich wanden und mit großer Kraft aneinanderschlugen; man sah die Fahnenträger nicht, aber es war, als herrsche dort viel Jubel.
Während er den Blick noch in die Ferne gerichtet hatte, sah er plötzlich den gleichen Grabhügel neben sich am Weg, ja fast schon hinter sich. Er sprang eilig ins Gras. Da der Weg unter seinem abspringenden Fuß weiter raste, schwankte er und fiel gerade vor dem Grabhügel ins Knie. Zwei Männer standen hinter dem Grab und hielten zwischen sich einen Grabstein in der Luft; kaum war K. erschienen, stießen sie den Stein in die Erde und er stand wie festgemauert. Sofort trat aus einem Gebüsch ein dritter Mann hervor, den K. gleich als einen Künstler erkannte. Er war nur mit Hosen und einem schlecht zugeknöpften Hemd bekleidet; auf dem Kopf hatte er eine Samtkappe; in der Hand hielt er einen gewöhnlichen Bleistift, mit dem er schon beim Näherkommen Figuren in der Luft beschrieb.
Mit diesem Bleistift setzte er nun oben auf dem Stein an; der Stein war sehr hoch, er mußte sich gar nicht bücken, wohl aber mußte er sich vorbeugen, denn der Grabhügel, auf den er nicht treten wollte, trennte ihn von dem Stein. Er stand also auf den Fußspitzen und stützte sich mit der linken Hand auf die Fläche des Steines. Durch eine besonders geschickte Hantierung gelang es ihm, mit dem gewöhnlichen Bleistift Goldbuchstaben zu erzielen; er schrieb: Hier ruht Jeder Buchstabe erschien rein und schön, tief geritzt und in vollkommenem Gold. Als er die zwei Worte geschrieben hatte, sah er nach K. zurück; K., der sehr begierig auf das Fortschreiten der Inschrift war, kümmerte sich kaum um den Mann, sondern blickte nur auf den Stein. Tatsächlich setzte der Mann wieder zum Weiterschreiben an, aber er konnte nicht, es bestand irgendein Hindernis, er ließ den Bleistift sinken und drehte sich wieder nach K. um. Nun sah auch K. den Künstler an und merkte, daß dieser in großer Verlegenheit war, aber die Ursache dessen nicht sagen konnte. Alle seine frühere Lebhaftigkeit war verschwunden.
Auch K. geriet dadurch in Verlegenheit; sie wechselten hilflose Blicke; es lag ein häßliches Mißverständnis vor, das keiner auflösen konnte. Zur Unzeit begann nun auch eine kleine Glocke von der Grabkapelle zu läuten, aber der Künstler fuchtelte mit der erhobenen Hand und sie hörte auf. Nach einem Weilchen begann sie wieder; diesmal ganz leise und, ohne besondere Aufforderung, gleich abbrechend; es war, als wolle sie nur ihren Klang prüfen. K. war untröstlich über die Lage des Künstlers, er begann zu weinen und schluchzte lange in die vorgehaltenen Hände. Der Künstler wartete, bis K. sich beruhigt hatte, und entschloß sich dann, da er keinen andern Ausweg fand, dennoch zum Weiterschreibcn. Der erste kleine Strich, den er machte, war für K. eine Erlösung, der Künstler brachte ihn aber offenbar nur mit dem äußersten Widerstreben zustande; die Schrift war auch nicht mehr so schön, vor allem schien es an Gold zu fehlen, blaß und unsicher zog sich der Strich hin, nur sehr groß wurde der Buchstabe.
Es war ein J, fast war es schon beendet, da stampfte der Künstler wütend mit einem Fuß in den Grabhügel hinein, daß die Erde ringsum in die Höhe flog. Endlich verstand ihn K.; ihn abzubitten war keine Zeit mehr; mit allen Fingern grub er in die Erde, die fast keinen Widerstand leistete; alles schien vorbereitet; nur zum Schein war eine dünne Erdkruste aufgerichtet; gleich hinter ihr öffnete sich mit abschüssigen Wänden ein großes Loch, in das K., von einer sanften Strömung auf den Rücken gedreht, versank. Während er aber unten, den Kopf im Genick noch aufgerichtet, schon von der undurchdringlichen Tiefe aufgenommen wurde, jagte oben sein Name mit mächtigen Zieraten über den Stein. Entzückt von diesem Anblick erwachte er.

Un sogno

Joseph K. sognò:
Era una bella giornata e K. voleva andare a spasso. Ma appena ebbe fatto due passi, si trovò già al cimitero. Là c’erano strade molto artistiche e labirintiche, ma egli scivolava su una strada come sospeso su una rapida corrente, con portamento imperturbabile. Già da lontano aveva scorto un tumulo scavato da poco, presso cui voleva fermarsi. Questo tumulo esercitò subito un fascino su di lui ed egli aveva fretta di arrivarci. A volte però lo intravedeva soltanto, perché era nascosto da insegne, i cui drappi sventolavano con forza sbattendo l’uno contro l’altro; non si vedevano i portabandiera, ma era come se regnasse grande giubilo.
Mentre egli stava ancora volgendo lo sguardo in lontananza, egli vide vicino a sé lo stesso tumulo sul sentiero, proprio dietro di sé. Saltò subito sull’erba. Poiché la strada sotto il suo piede saltante continuava a correre, egli barcollò e cadde in ginocchio dinanzi al tumulo. Dietro alla tomba c’erano due uomini in piedi che tenevano alzata una lapide; appena era comparso K., la conficcarono nel suolo dove rimase come murata. Apparve immediatamente da un bosco un terzo uomo, che K. riconobbe subito come un artista. Indossava soltanto un paio di pantaloni e una camicia mal abbottonata. In testa aveva un berretto di velluto; teneva in mano una comune matita, con la quale tracciava in aria, mentre si avvicinava, dei segni.
Con questa matita egli tracciava la parte superiore della pietra; la pietra era molto alta e perciò egli non doveva curvarsi, ma doveva sporgersi in avanti, poiché il tumulo, che non voleva calpestare, lo separava dalla lapide.
Stava sulle punte dei piedi e si appoggiava con la mano sinistra alla superficie della pietra.
Maneggiandola con particolare destrezza gli riusciva con la comune matita di incidere lettere d’oro; scrisse: “Qui riposa” – (Tutte le lettere apparivano precise e belle, profondamente incise e perfettamente d’oro). Quando ebbe scritto le due parole, egli guardò verso K.; K., che era molto curioso la continuazione dell’iscrizione, si preoccupava a malapena dell’uomo, ma guardava soltanto la lapide. L’uomo infatti riprese a scrivere, ma non vi riusciva più, c’era qualche intralcio; abbassò la matita e si girò di nuovo verso K. Ora anche K. guardò l’artista e notò che questi era in grande imbarazzo, ma non poteva dirne la ragione.
Tutta la precedente animazione era svanita. Anche K. per questo si trovò in imbarazzo; si scambiavano sguardi perplessi; c’era un odioso malinteso, che nessuno riusciva a risolvere. Inopportunamente ora cominciò a suonare una campanella dalla cappella mortuaria, ma l’artista gesticolò con la mano alzata e quella smise.
Dopo poco tempo la campanella ricominciò, questa volta piano e, senza particolare richiesta, smettendo subito, come volesse solo provare il suo timbro.
A K. dispiaceva la situazione dell’artista; cominciò a piangere e singhiozzò a lungo con il volto tra le mani. L’artista aspettò finché K. non si fu calmato e poi si decise a continuare a scrivere, poiché non c’era altra via d’uscita. Il primo segno che tracciò fu per K. una liberazione, ma chiaramente l’artista riusciva a farlo con eccezionale ripugnanza; anche la scrittura non era più così bella, soprattutto sembrava che mancasse l’oro e il segno si estendeva pallido e incerto, ma la lettera era molto grande.
Era una J., ed era quasi finita, quando l’artista calpestò furioso con un piede il tumulo, così che la terra schizzò in aria. Finalmente K. comprese; non c’era più tempo per scusarsi; con tutte le dita scavò la terra, che quasi non opponeva resistenza; tutto sembrava preparato; solo in apparenza era stato eretto un sottile strato di terra; subito sotto a quello si apriva una grande buca dalle pareti ripide, in cui K., spinto riverso sul dorso da una leggera corrente, sprofondò. Mentre laggiù, la testa ancora sollevata sul collo, era stato già accolto dalla impenetrabile profondità, lassù il suo nome si disegnava con possenti decorazioni sulla lapide.
Incantato da questa visione si svegliò.
(Traduzione e interpretazione di Mario Amato)


L’incanto e la maledizione della scrittura

Spesso l’interpretazione dei libri deve iniziare dal titolo. Kafka ci dice chiaramente che qui si tratta solo di un sogno. E lo ripete nella prima frase del racconto: “Joseph K. Sognò”.
Sappiamo bene che l’orrore ne “La Metamorfosi” non risiede nel fatto che Gregor Samsa una mattina si sveglia e si trova trasformato in un insetto mostruoso. La letteratura è ricca di metamorfosi, basti pensare ai miti greci o alla capacità degli dei nordici di mutarsi in animali, alle Metamorfosi di Ovidio, e ancora alle fiabe. L’orrore, ed anche la grande innovazione che Kafka immette nella letteratura fantastica risiede nella semplice frase riferita alla trasformazione di Gregor Samsa: “Non era un sogno”.
Kafka non è certo il primo scrittore ad usare la dimensione onirica, ma è il primo ad introdurre quella dell’incubo nella quotidianità.
Il racconto “Un sogno”, il cui protagonista è Joseph K. è datato 1914-1915 ed quindi contemporaneo alla stesura del romanzo “Il processo”. Nel romanzo Joseph K. si smarrisce fra le squallide stanze del palazzo di Giustizia; in questo racconto Joseph K. si trova in un cimitero, dove c’è un labirinto di viuzze, o come traduce Ervinio Pocar, di strade sentieri artificiosamente disposti [1]. È comunque un labirinto, ed il labirinto è un artificio.
Le valenze simboliche del labirinto sono infinite, ma vale la pena di rivelarne qualcuna.
Jean Chevalier e Alain Gheerbrant notano come il labirinto “annunzia la presenza di qualcosa di prezioso e di sacro” e come “la trasformazione dell’io che si opera nel centro del labirinto e che si affermerà nel grande giorno alla fine del viaggio di ritorno al termine del passaggio dalle tenebre alla luce, contrassegnerà la vittoria dello spirituale sul materiale, e nello stesso tempo dell’eterno sul caduco, dell’intelligenza sull’istinto, del sapere sulla violenza cieca” [2].
Il labirinto del cimitero in cui si trova in sogno Joseph K. è tuttavia piccolo ed egli vede quasi subito la meta e ne è attratto. Egli non deve cercare affannosamente l’uscita del labirinto e non sembra avere alcun compito preciso.
Egli cade in ginocchio dinanzi alla sua meta, che è un tumulo. Due uomini tengono in mano una lapide ed ecco la comparsa di un terzo uomo, che è un artista ed usa una comune matita.
Possiamo sostituire alla parola artista il termine “scrittore” e forse il racconto ci apparirà più chiaro.
La lingua tedesca di Kafka è semplice, ma la sua scrittura è labirintica. L’artista del racconto comincia ad incidere la pietra e le lettere sono nitide, belle, d’oro. La prima frase è quella comune di tutte le lapidi: “Qui riposa”.
Tutti i racconti e i romanzi di Kafka iniziano con una frase semplice. Ma accade qualcosa: l’artista si ferma, perché Joseph K. lo guarda e quando riprende i segni sono incerti.
Kafka ha scritto nei diari di essere solo letteratura, ma pure ebbe molti dubbi sulla sua scrittura, e dobbiamo solo al suo amico Max Brod il piacere di poter leggere gli scritti dell’artista praghese. Sappiamo anche quanto il padre di Kafka abbia avversato l’attività letteraria del figlio.
Gli scritti di Kafka iniziano con una frase semplice, con parole comuni, come la matita dell’artista del cimitero, ma i personaggi di Kafka si smarriscono spesso in labirinti infiniti, come accade a Joseph K. ne “Il processo” o al messaggero in “Un messaggio dell’Imperatore” o all’animale de “La tana”. Ed anche il lettore si perde nel mistero della scrittura di Kafka, anche se la sua scrittura non diviene “pallida e incerta”.
Perché questo sogno si svolge in un cimitero? Perché una lapide?
Eli Wiesel ha scritto ne “L’ebreo errante” che per lui la letteratura è una mitzevah, una lapide, perché soltanto attraverso la letteratura possiamo parlare con quanti ci hanno preceduto. Tutti i libri sono l’eredità lasciata da quanti hanno abitato il mondo prima di noi, ma noi dobbiamo scoprirne il senso.
Dobbiamo scoprirne il senso, anche se essi sono spesso un labirinto, come le vie del cimitero in cui si trova Joseph K., che comprende solo alla fine, quando vede la lettera J. disegnata sulla lapide, che quella è la sua pietra.
Ma è un sogno ed egli si sveglia incantato da quella visione. Ed il giorno che sprofonderemo nella scrittura di Kafka, anche noi semplici lettori ne saremo incantati.

[1] Franz Kafka, Racconti, Mondadori, Milano 1990, pag 263
[2] Jean Chevalier, Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli, BUR, volume secondo, Seggiano di Piolnello, 1997
 


 
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IL SILENZIO DELLE SIRENE
 
Il personaggio più interpretato della letteratura è senza alcun dubbio Ulisse. Neanche Kafka ha resistito al desiderio di dare una sua figurazione all’eroe greco, ma naturalmente lo ha fatto in modo del tutto rivoluzionario. Nel racconto “Il silenzio delle sirene”[1] il narratore racconta che l’espediente di tapparsi le orecchie con la cera non è una grande astuzia e che in fondo tutti i viaggiatori avrebbero potuto farlo. Inoltre neanche questa accortezza avrebbe salvato Ulisse, perché il canto è talmente seducente che egli, come ogni altro viaggiatore, avrebbe spezzato catene e alberi maestri.
Nel racconto di Kafka le sirene usano un’arma molto più potente, il silenzio. “Ulisse – dice Kafka – non udì il loro silenzio, credette che cantassero e immaginò che lui solo fosse preservato dall’udirle”[2]. L’eroe greco vede gli occhi delle sirene piene di lacrime. Quando finalmente è vicino ai mitici esseri, Ulisse non sa più niente di loro.
Come in ogni scritto, Kafka chiama il lettore a risolvere un enigma.
Cos’è questo silenzio delle sirene? È forse il silenzio del mondo? È forse il silenzio di Dio?
Nel racconto di Kafka tutto è silenzio.
Nell’Odissea le sirene incantano Ulisse cantando che in quel luogo è il suo destino, che il termine del suo viaggio è sulla loro isola, in loro compagnia. Come poteva avrebbe potuto resistere Ulisse? Sapere qual è il proprio destino significa conoscere il senso della propria vita, anzi della vita in genere, significa sapere perché si nasce, si vive, si muore. Significa scoprire tutti i misteri del mondo.
Ma qui le sirene tacciono ed Ulisse crede che esse cantino.
È forse lo smarrimento dell’uomo di fronte a un mondo che non riesce più a spiegare, in un mondo in cui si sente estraneo?
Chi è Ulisse? Kafka non dimentica che Ulisse è il è anche il grande mentitore: “La tradizione però aggiunge un’appendice. Ulisse, dicono, era così ricco di astuzie, era una tale volpe che nemmeno il Fato poteva penetrare nel suo cuore. Può darsi –benché ciò non riesca comprensibile alla mente umana – che realmente si sia accorto che le sirene tacevano e in certo qual modo abbia soltanto opposto a loro e agli dei la sopra descritta finzione” [3]. Se non comprendiamo il mondo, se ci sentiamo estranei sulla terra, se non troviamo risposte alle domande inevitabili che la vita ci pone, non ci resta altro che fingere di aver compreso il senso del misterioso Tutto che ci circonda. Non ci resta altro che scrivere storie, fingendo che esse siano la soluzione ai nostri dubbi. Ulisse è un grande mentitore, ma anche un grande fabulatore, perché la letteratura è la grande menzogna, è l’illusione e la conferma che viviamo. La letteratura è anche il grande silenzio, è il silenzio dello scrittore che traccia segni sulla pagina bianca ed è il silenzio del lettore che interroga quei segni. E Kafka, che scriveva solo di notte, ascoltava il silenzio, non il silenzio di Praga, ma il silenzio del mondo.
Egli immette ancora una novità nella leggenda di Ulisse: non è l’eroe greco ad essere incantato dalle sirene, ma sono esse che subiscono il fascino di Odisseo (Non avevano più voglia di sedurre, volevano soltanto ghermire il più a lungo possibile lo splendore riflesso dagli occhi di Ulisse[4]).
Non esiste luogo più seducente del mare, né più silenzioso, e se ne siamo lontani possiamo aprire un libro e ascoltare il suo silenzio, profondo come i racconti di Kafka.

[1] Franz Kafka, Racconti, Mondadori, Milano 1990, pagg. 428-429
[2] Ivi
[3] Ivi, pag. 429
[4] Ivi, pag. 429
 


 
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Mario Amato
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UN VECCHIO FOGLIO PROFETICO
 
Affascinante è perdersi nei labirinti costruiti da Kafka, ma anche negli stessi labirinti dei significati reconditi della sua scrittura. Può accadere accompagnando Joseph K. nei corridoi e nelle stanze del tribunale, immaginando la serie di edifici e giardini che dovrebbe attraversare il messaggero imperiale, può accadere perfino quando non ci sono labirinti, ma si è immobili in uno spazio chiuso, come avviene al calzolaio del racconto “Un vecchio foglio” [7]. L’antichità del foglio non è chiaramente detta, ma è l’argomento stesso che immette in un tempo remoto: il calzolaio ha un laboratorio nella piazza di fronte al palazzo imperiale e dal suo negozio può vedere “l’ingresso di tutte le strade che qui sboccano”. È presumibile quindi che quelle strade costituiscano un labirinto. La piazza è piena di soldati armati, ma essi non appartengono all’esercito dell’Imperatore, ammesso che ci sia un esercito imperiale. Sono invasori nomadi. Abbiamo quindi il contrasto tra nomadi e sedentari. Questi nomadi non conoscono la lingua del posto, hanno sporcato la piazza, rifiutano di comprendere le usanze del popolo assoggettato.
È abbastanza agevole comprendere che l’ispirazione per tale racconto proveniva a Kafka dal ghetto di Praga e dal tentativo del processo di assimilazione del popolo ebraico. Non bisogna neanche dimenticare che Kafka era uno scrittore praghese che scriveva in lingua tedesca, appartenente dunque all’Impero austro-ungarico, che forse è stato l’ultimo sogno di uno Stato sovrannazionale dove più popoli potessero vivere in pace, rispettando le rispettive culture. Non a caso Joseph Roth, Stefan Zweig e Franz Werfel, Robert Musil indicarono nei nazionalismi uno dei massimi mali del Novecento [8]. L’impero austro-ungarico non era un mondo, ma erano più mondi che si incrociavano. Kafka non viaggiò molto, ma pure dalle sue pagine traspare e traspira quel mondo. Si diceva che l’Austria-Ungheria non aveva una capitale, ma molti capitali. Vienna era la capitale, la Hauptstadt (letteralmente città principale) di riferimento, ma anche Praga, Budapest, Trieste erano a loro modo capitali. E certo Kafka sentiva la contraddizione di vivere in una terra multietnica e multiculturale, come si direbbe oggi, e di restare chiuso nel ghetto di Praga. Egli sentì, come ci confermano i suoi Diari e la “Lettera al padre”, il fascino della cultura jiddish, ma ciò non significava la rinuncia ad appartenere all’Impero asburgico.
Leggiamo ancora un passo del racconto: “Appena apro, al primo albore, il mio negozio, vedo l’ingresso di tutte le strade che qui sboccano già pieno di armati. Non sono però i nostri soldati, ma come si vede bene, nomadi che vengono da settentrione. Sono riusciti ad entrare – e non riesco a capir bene – perfino nella capitale, che pure è lontana dal confine”[9]. Vienna era lontana dal confine, ma non Praga. Anche a Praga tuttavia c’era la sede imperiale, dove era avvenuta la famosa defenestrazione[10].
Leggiamo ancora: “Era già subentrato un gran silenzio quando mi arrischiai a uscire: (…..). Proprio in quell’occasione mi parve di veder l’imperatore stesso a una finestra del palazzo; non vene mai, di solito, in queste stanze che confinano con l’esterno, vive sempre nel giardino più lontano dall’ingresso; ma questa volta – così almeno mi parve – era a una finestra e guardava con la testa china quel che succedeva dinanzi al suo castello” [11].
Qui l’imperatore rappresenta forse la speranza, forse finalmente il messia che si interessa di nuovo alle sorti del suo popolo eletto, ma è una speranza fievole: “Come andrà a finire? – ci chiediamo tutti – Quanto sopporteremo ancora questo peso e tormento? Il palazzo imperiale ha attirato i nomadi, ma non riesce ad allontanarli. Il portone resta chiuso;…..”.
Come nel racconto “Un messaggio dell’Imperatore” anche qui c’è la presenza di un castello, e sebbene il laboratorio del calzolaio sia sito proprio di fronte al palazzo imperiale, questo non pare accessibile. L’ultimo romanzo di Kafka si intitola “Il castello”. Vediamo allora qual è in generale il significato simbolico del castello: “Nella realtà, come nelle fiabe e nei sogni, il castello è generalmente situato sulle alture o in una radura della foresta: è una dimora solida e di difficile accesso; rispetto alla casa, dà un’impressione di maggiore sicurezza ed è, generalmente, un simbolo di protezione. La sua collocazione lo isola in mezzo a campi, boschi, o colline; ciò che esso racchiude è separato dal resto del mondo, assume un aspetto lontano, inaccessibile e desiderabile”. [12]
È vero, in questo racconto il palazzo imperiale è in città, ma ciò che racchiude è inaccessibile; del resto l’Imperatore vive sempre nel giardino più lontano dall’ingresso, frase che ci rivela l’impenetrabilità del castello.
Nell’ultimo incompiuto romanzo Kafka torna all’antica collocazione e pone il castello – che forse non è un castello- in alto, non ad una grande distanza dal borgo, ma che per l’agrimensore K. è impercorribile.
Kafka usa spesso gli stessi simboli, è mono-tono, eppure la sua scrittura è ad ogni lettura una scoperta, ma è anche inquietante.
Leggendo attentamente il racconto “Un vecchio foglio”, datato 1917, non può non venire in mente ciò che sarebbe accaduto non molti anni dopo, quando Praga venne occupata dalle truppe naziste [13]. Leggiamo: “Anche tra i miei prodotti hanno preso qualche oggetto di valore. Ma non me ne posso lamentare quando, per esempio, guardo quel che capita al macellaio di faccia. Non fa a tempo a portare la sua merce, che gli vien già tutta strappata e divorata dai nomadi. Anche i loro cavalli si nutrono di carne; spesso un cavaliere se ne sta disteso accanto al suo cavallo e ambedue mangiano lo stesso pezzo di carne, ognuno a un’estremità. Il macellaio è impaurito e non osa smettere di portar la carne” [14].
Spesso ci siamo chiesti perché il popolo ebraico non si sia difeso, tranne che a Varsavia. È Kafka stesso a risponderci: “A noi artigiani e commercianti è affidata la difesa della patria, ma non siamo all’altezza della situazione; né ci siamo vantati di esserlo. È un malinteso, ed è quello che ci manda in rovina” [15].
Kafka era un profeta? Lo era solo nel senso e nella misura in cui lo è ogni grande scrittore. Se la malattia fece in modo che gli fossero risparmiate le sofferenze in qualche campo di sterminio, i nazisti non risparmiarono dal fuoco i suoi libri, ma le dittature passano, i dittatori muoiono, e noi per nostra fortuna possiamo ancora ascoltare il canto che proviene dai libri e porlo fra gli eroi del nostro popolo, ovvero, come rispose Albert Einstein al poliziotto statunitense che gli chiedeva a quale razza appartenesse, fra gli eroi della razza umana.

[7] Franz Kafka, Racconti, Mondadori, Milano 1990, pagg. 235-237
[8] A tale proposito vedi l’articolo di Joseph Roth “Il dolore del Novecento”, “Il mondo di ieri”, di Stefan Zweig, “Il crepuscolo di un mondo” di Franz Werfel, “L’uomo senza qualità” di Robert Musil (Capitolo “La Cacania”)
[9] Franz Kafka, op. cit., pag. 235
[10] Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Con il nome di Defenestrazione di Praga si intendono due episodi nella storia della Boemia, avvenuti rispettivamente nel 1419 e nel 1618, e a volte uno più recente, del 1948, nella storia della Cecoslovacchia; in questi eventi, svoltisi tutti nella città di Praga, una o più persone furono gettate da una finestra (con defenestrazione si intende proprio l'atto di gettare fuori da una finestra qualcuno). Entrambi i primi due eventi contribuirono a innescare prolungati conflitti all'interno della Boemia e altrove, ma tra i due il secondo è quello più noto, perché tradizionalmente indicato come l'episodio iniziale della Guerra dei trent'anni; oggi, con il termine "Defenestrazione di Praga", si intende normalmente l'evento del 1618.
Prima defenestrazione
La prima defenestrazione di Praga, avvenuta il 30 luglio 1419, consistette nell'uccisione di sette membri dell'ostile consiglio cittadino da parte di una folla di radicali cechi hussiti. La prolungata guerra hussita scoppiò subito dopo, e durò fino al 1436.
Jan Želivský, un prete hussita della chiesa della vergine della neve organizzò una processione dei propri fedeli lungo le strade di Praga sino al palazzo Novoměstská radnice, nella piazza Carlo; tale atto doveva rappresentare un segno di protesta contro il rifiuto da parte dei membri del consiglio della città ad uno scambio di prigionieri, inteso a liberare alcuni hussiti rinchiusi nelle carceri. Inoltre, la processione era il risultato del crescente malcontento causato dall'ineguaglianza tra le posizioni nobiliari e la chiesa; questo malcontento, combinato con un crescente nazionalismo e un aumento di influenza delle correnti radicali, come quella guidata dallo stesso Jan Želivský, si accanì contro la corruzione della chiesa cattolica.
Durante la processione una pietra lanciata da una finestra colpì Želivský; in seguito a questo attacco la folla, guidata da Jan Žižka, irruppe nel palazzo. Qui presero prigionieri un giudice, il borgomastro e altri membri del consiglio per un totale di sette individui, gettandoli poi da una finestra sulla strada, dove vennero finiti dalla folla. Secondo alcuni, re Venceslao (Václav IV in ceco), venuto a conoscenza della notizia, ne fu talmente impressionato da morire poco tempo dopo per lo shock.
Seconda defenestrazione
La seconda defenestrazione di Praga, avvenuta il 23 maggio 1618, fu l'evento scatenante della guerra dei Trent'Anni. L'aristocrazia boema era in rivolta a seguito dell'elezione di Ferdinando II, duca di Stiria e cattolico zelante, a sovrano del Regno di Boemia,di popolazione prevalentemente protestante.
Particolari
Con l'elezione di Ferdinando II la tolleranza mostrata fino ad allora verso i protestanti veniva messa in discussione, e l'ordine di cessare la costruzione di alcune cappelle protestanti fece da scintilla per la sollevazione. I rivoltosi, sostenendo che i terreni su cui si stavano costruendo le cappelle fossero del re e non della chiesa cattolica, denunciarono la violazione della lettera di maestà, scritta dall'imperatore Rodolfo II nel 1609, che permetteva la libertà di culto.
Al castello di Hradčany, noto anche come Pražský hrad (ovvero "Castello di Praga"), il 23 maggio 1618 alcuni rappresentanti dell'aristocrazia, galvanizzati dal Conte Thurn, catturarono due governatori imperiali, Jaroslav Martinitz e Wilhelm Slavata, e li lanciarono fuori dalle finestre del castello insieme a un loro segretario Philip Fabricius; i malcapitati atterrarono su un cumulo di letame, Slavata svenne, ma nessuno di loro si ferì gravemente. Il Fabricius poco dopo fu nominato nobile dall'imperatore con il titolo di von Hohenfall (letteralmente “caduto dall'alto”).
La sopravvivenza dei tre delegati imperiali fu vista, in ambienti cattolici, come una grazia divina e il segno che la lotta cattolica era più che approvata da Dio.
[11] Franz Kafka, op. cit., pag. 236
[12] Jean Chevalier, Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli, BUR, volume secondo, Seggiano di Piolnello, 1997
[13] Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Reinhard Tristan Eugen Heydric (7 marzo 1904 – 4 giugno 1942) è stato un militare tedesco, uno dei più importanti sostenitori di Adolf Hitler durante il suo dominio sulla Germania. Detto der Henker (il boia), divenne ben presto un gerarca nazista. Fu stretto collaboratore di Heinrich Himmler nella Gestapo. Agì in Boemia e Moravia nel 1941, compiendo sanguinose repressioni. Fu ucciso nel 1942, all'età di 38 anni, in un attentato organizzato da patrioti cecoslovacchi. Fu a lungo sospettato di avere origini ebraiche, sospetti che comunque non furono mai confermati ufficialmente dal momento che Heydrich impersonava nel regime nazista l'esempio del perfetto ariano, anche se al momento attuale possiamo dire con sicurezza che tali origini erano presenti da entrambi i genitori.
Reinhard Heydrich nacque ad Halle, in Germania, il 7 marzo 1904 figlio del musicista e compositore Richard Bruno Heydrich e di Elisabeth Anna Amalia Krantz, una cantante d'opera.
Entrambi i genitori erano appassionati di musica (il padre era un compositore) e fecero nascere nel figlio una passione per il violino che durò per tutta la vita. Sebbene Reinhard fosse una persona timida, era fisicamente molto prestante ed eccelleva nell'atletica, nel nuoto e nella scherma.
Heydrich entrò nei Freikorps sin da giovane. Nel 1922 entrò in marina ma fu presto congedato perché, dopo aver avuto una storia con la figlia di un suo superiore, la tradì per una donna più giovane. La figlia dell'ufficiale riferì l'accaduto al padre che l'accusò di "condotta deplorevole per un ufficiale e per un gentiluomo". Al processo Heydrich si presentò con una spavalderia tale che gli costò anche l'accusa di insubordinazione. Cacciato dalla marina e senza più nessuna prospettiva di carriera, nel 1931 si sposò.
Nel 1931 Himmler volle creare un'unità di controspionaggio interna alle Schutzstaffel (SS). Su consiglio di un amico, il barone Von Eberstein, prese contatti con Heydrich che venne poi selezionato per il compito e che entrò così a far parte anche del Partito Nazista.
In questo periodo Heydrich fu piuttosto insignificante nell'apparato nazista. Guadagnava poco e lavorava in un piccolo ufficio. Il suo compito, e quello della sua unità, era però molto delicato: costruire un archivio di notizie riservate su tutte le persone che potevano minacciare il Reich, ma anche di alti ufficiali e personalità politiche di spicco.
Nel 1932 la sua divisione venne ribattezzata Sicherheitsdienst (SD). Heydrich cominciò ad acquisire potere. Sfruttando le informazioni in suo possesso si guadagnò l'amicizia di Himmler che lo mise a capo del Reichssicherheitshauptamt (RSHA) (il quale comprendeva: SD, Gestapo e le Einsatzgruppen), il tutto nonostante le sue origini ebraiche, le quali furono strumento di ricatto nei suoi confronti da parte delle alte sfere del partito nazista.
Dopo la presa del potere da parte di Adolf Hitler, Heydrich si occupò di quelle organizzazioni o quelle persone che potevano ledere alla causa nazista. Egli stesso, in seguito, organizzò il falso attacco alla centrale radio di Gleiwitz denominato "operazione Himmler" che diede il via alla Seconda guerra mondiale.
Heydrich all'inizio del conflitto prestò servizio nella Luftwaffe, ottenendo anche delle decorazioni per la sua audacia. Nel 1941 venne abbattuto da razzi della contraerea sovietica e fu costretto a nuotare in un fiume per salvarsi. Questo fu troppo sia per Himmler che per Hitler, che sapevano quanto poteva essere pericoloso per la Germania Nazista il fatto che Heydrich potesse essere catturato vivo.
Nel settembre 1941 divenne governatore del Protettorato di Boemia e Moravia, sostituendo Konstantin von Neurath. Heydrich diventò il dittatore de facto della zona, ordinando repressioni e persecuzioni tanto da guadagnarsi l'appellativo di boia (der Henker in tedesco). Spesso guidava per le strade della Boemia e della Moravia con una macchina scoperta per mostrare l'efficacia delle sue forme repressive alle forze di occupazione.
Il 20 gennaio del 1942 Heydrich tenne a Wannsee la tristemente famosa conferenza nella quale venne pianificata la Soluzione Finale (Endlösung der Judenfrage in tedesco).
Il 27 maggio del 1942 un commando composto da membri del governo cecoslovacco in esilio addestrato dagli Inglesi del SOE (Special Operations Executive) attentò alla vita di Heydrich. Il gruppo, composto da Adolf Opálka (il capo), Josef Valčík, Jan Kubiš e Jozef Gabčík, riuscì a fermare l'auto su cui Heydrich viaggiava insieme al suo autista, l'SS-Oberscharführer Klein, ed a gettargli contro una granata anticarro. Tuttavia ciò non bastò ad uccidere Heydrich che scese dalla macchina e cercò di inseguire i suoi aggressori, prima di accasciarsi svenuto. Fu mandato, su ordine di Himmler, all'ospedale di Praga. Le ferite riportate nell'attentato risultarono però troppo gravi, e alle ore 4,30 del 4 giugno spirò all'età di 37 anni per setticemia, anche per la decisione da parte dei medici che lo curavano di somministrargli sulfamidici, collaudato prodotto della scienza tedesca, invece che la più efficace penicillina, nuovo ritrovato di quella inglese.
Gli attentatori nel frattempo trovarono rifugio presso una chiesa ma, rintracciati dalle forze di occupazione ed impossibilitati a difendersi, scelsero la via del suicidio.
Ad Heydrich spettarono tutti gli onori militari. Un grandioso funerale fu allestito a Berlino con tutte le più alte cariche del Reich, Adolf Hitler compreso, che così ricordò Heydrich: "E’ stato stupido ed idiota. Un uomo come lui non doveva esporsi a simili rischi".
Come rappresaglia, i tedeschi assassinarono tutti i maschi oltre i 16 anni nel villaggio di Lidice, vicino a Praga, ed in seguito lo bruciarono completamente.
In onore di Heydrich il piano per la costruzione dei primi tre campi di sterminio tedeschi (Treblinka, Sobibór, e Belzec) prese il nome di Operazione Reinhard.
Reinhard Heydrich fu sepolto nel cimitero degli Invalidi di Berlino, in una tomba a fianco di quella del generale Tauentzien Von Wittenberg, eroe della guerra tedesco-prussiana contro Napoleone (1815). Il cippo funebre fu distrutto dopo l'occupazione sovietica di Berlino così che oggi la sepoltura risulta priva di qualsiasi segno di identificazione.
[14] Franz Kafka, op. cit., pag. 236
[15] Ivi, pag. 237
 


 
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Mario Amato
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LE MOLTE ANIME
 
Kafka è mono-tono, eppure, leggendo le sue opere, possiamo scoprire molte anime: l'anima del romanziere, del costruttore di labirinti, del dicitore di parabole, del narratore di fiabe.
Un esempio di queste due anime lo possiamo trovare nel racconto, narrato in prima persona, “Il cavaliere del secchio”[1], datato 1917. La fabula, come si dice in termine tecnico, è semplice: un cavaliere ha freddo, per cui si reca dal carbonaio affinché questi gli riempia il secchio[2]. Il carbonaio ha intenzione di acconsentire alla richiesta, ma la moglie lo ferma sulla scala dello scantinato e dice di non vedere né il carbone né il cavaliere, ma con il grembiule cerca di scacciarlo. Il cavaliere sale sulle Montagne di ghiaccio e si perde, per non tornare mai più.
Prima di esaminare il racconto, c'è da fare una notazione: in genere, i personaggi di Kafka appartengono o alla piccola borghesia o al proletariato. Joseph K, il protagonista de “Il processo”, è un impiegato; K, il personaggio principale de “Il castello”, è un agrimensore, ma il messaggero imperiale è un misero suddito, minima ombra sperduta nella più lontana delle lontananze; Karl Rossmann, l'eroe di “Amerika”, che come tutti i reietti del Novecento, fuggiti dall'Europa, sogna il paradiso americano, finirà per accrescere l'esercito dei vagabondi del nuovo mondo, anche se nel capitolo finale traspare una flebile speranza.
A quale ceto appartiene allora il cavaliere?
Nel “Dizionario dei simboli” di Jean Chevalier e Alain Gheerbrant[3] troviamo: “Le statue o i ritratti equestri commemorano un capo vittorioso e sono un simbolo del suo trionfo, della sua gloria: come domina il suo cavallo, così il cavaliere ha padroneggiato le forze avverse. Si rappresenta così l'ascesa al paradiso degli dei, degli eroi e degli eletti... ....Jung osserva invece che, nell' arte moderna, l'immagine del cavaliere non espresso più tranquillità, ma paura angosciata e una certa disperazione, come una sorta di panico davanti a forze di cui l'uomo, o la coscienza, avrebbero perduto il controllo”; dobbiamo anche leggere quale significato simbolico abbia il cavallo, ma lo facciamo sommariamente, perché la citazione troppo lungo allontanerebbe dallo scopo di questo scritto. Il cavallo è portatore sia di vita che di vita, ...è animale dei poteri magici, ...della forza del desiderio, ...di maestà[4].
Forse tutti questi significati erano ignoti a Kafka, ma i simboli, soprattutto nei grandi scrittori, agiscono in modo recondito. Noi sappiamo tuttavia che Franz Kafka aveva una grande cultura letteraria e che ha portato nella letteartura molte novità. L'immagine del cavaliere è per antonomasia letteraria. Chi erano veramente i cavalieri? Essi non erano le figure nobili che ci hanno tramandato le leggende arturiane e bretoni, ma in maggioranza erano i figli minori dei nobili, costretti a vagabondare e a guadagnarsi da vivere alle dipendenze di qualche signorotto. Erano spesso incolti e violenti, come ben intuì Lodovico Ariosto, i cui personaggi sono dominati soprattutto dalla “libido”.
Possiamo, con qualche sforzo di fantasia, ascrivere il cavaliere del secchio kafkiano a personaggi la cui dignità è decaduta. Questo infreddolito personaggio non cavalca un magnifico destriero e nenche un ronzino macilento, come quello di Don Chisciotte, ma cavalca il secchio, il suo secchio vuoto. Non va a compiere imprese, come Parzifal o Lancilotto, ma va a chiedere una palata di carbone, fosse anche del peggiore. Come era accaduto nel racconto “Il cacciatora Gracco”[5] Kafka opera una reductio dell'eroe romanzesco e questa volta lo fa anche con ironia; il cavaliere infatti ha con il secchio lo stesso tipo di rapporto che i suoi predecessori avevano con il cavallo: lo loda, ma è anche cosciente dei suoi limiti. “Il mio secchio ha tutti i pregi d'una buona cavalcatura, ma non ha alcuna resistenza”[6]. Non sembra forse di sentire un cavaliere che si giustifica dinanzi ad un sigorotto per un'impresa fallita? Ivi però l'impresa era soltanto quella di salvarsi dal gelo, ma è fallita ed il cavaliere torna nelle regioni delle Montagne del ghiaccio. Ecco apparire un altro simbolo: la montagna. Essa rappresenta la trascendenza, la purezza e l'immutabilità[7].
Il cavaliere si perde in quelle regioni e noi intuiamo nuovamente solitudine, silenzio, ma anche spazi illimitati, come la fantasia stessa di Kafka. Ed il gelo? Kafka ha scritto che quando scendeva il gelo nella sua anima, prendeva un libro e leggeva e l'anima si scaldava...Accogliamo l'invito...


Il Limite Invalicabile

Milan Kundera ha affermato che ogni romanzo è una visione del mondo[8]. Cenni della Weltanschaung che informa di sé “Il Castello” si trovano in alcuni racconti di Kafka.
Leggiamo “Il prossimo villaggio” [9]: “Mio nonno soleva dire: "La vita è straordinariamente corta. Ora, nel ricordo, mi si contrae a tal punto che, per esempio, non riesco quasi a comprendere come un giovane possa decidersi ad andare a cavallo sino al prossimo villaggio senza temere (prescindendo da una disgrazia) che perfino lo spazio di tempo, in cui si svolge felicemente e comunemente una vita, possa bastare anche lontanamente a una simile cavalcata".
Siamo ancora una volta dinanzi ad un enigma ed un paradosso kafkiano. La vita intera non è sufficiente a raggiungere a cavallo il paese più vicino. Come il messaggero imperiale non riuscirà mai ad uscire dal palazzo imperiale, come Joseph K. non troverà mai il tribunale, così nessun giovane potrà mai percorrere, pur impiegando tutto il tempo della sua vita, la distanza che separa il suo villaggio da quello limitrofo ed allo stesso modo, ne “Il Castello”, l'agrimensore K. non riuscirà ad entrare nel castello. Qualsiasi distanza, anche la più breve, per i personaggi di Kafka è infinita. È vero c'è una differenza di fondo tra questi personaggi: il messaggero e il giovane vogliono uscire, Joseph K. e K. vogliono entrare, ma c'è anche una somiglianza, perché ambedue i desideri sono assurdi.
I personaggi kafkiani si muovono nelle due dimensioni dello spazio e del tempo, ma di un tempo non definibile e di uno spazio problematico. Nei racconti di Kafka non ci sono mai riferimenti precisi al tempo storico delle vicende narrate, ma noi sappiamo che l'America in cui viaggia Karl Rossmann è quella dei vagabondi e dei disperati dei primi anni del Novecento e sappiamo che il tempo dell'agrimensore K., è ancora il Novecento, non foss'altro per il riferimento iniziale al telefono, strumento che qui diviene simbolo di una nuova babele. Le parole che giungono attraverso il filo telefonico all'agrimensore sono infatti incomprensibili. Naturalmente il messaggero imperiale, il cacciatore Gracco, e l'Ulisse de “Il silenzio delle sirene” sono meta-storici.
Più complesso è forse comprendere le distanze nelle narrazioni kafkiane. Perché il villaggio più vicino è irraggiungibile? Perché l'agrimensore K. non riuscirà mai ad entrare nel castello, anzi non riesce neanche a capire se esso esista veramente? Soffermiamoci sull'agrimensore: abbiamo già visto che il castello simbolicamente rappresenta, fra l'altro, la trascendenza. In tedesco agrimensore è come in italiano una parola composta: Landvermesser significa letteralmente misuratore di terra.
Se il castello è la trascendenza, l'agrimensore K. tenta di misurare con unità terrene ciò che divino. Non dimentichiamo che K. afferma di essere stato chiamato dal castello. A differenza degli altri personaggi di Kafka, a differenza di Joseph K., di Gregor Samsa, di Karl Rossmann, l'agrimensore non sente un senso di colpa. Joseph K. cerca il tribunale, ma per sfuggire ad esso, Samsa non si chiede perché abbia subìto la trasformazione in insetto, ma l'agrimensore afferma di essere un prescelto. Egli è allo stesso tempo un escluso. È vero che Kafka non dice mai che i suoi personaggi sono innocenti, ma nel caso dell'agrimensore non dice neanche che la chiamata dal castello non ci sia stata.
Se la chiamata non c'è stata, è certo più facile capire perché la distanza tra il villaggio ed il castello non può essere percorsa. Ma se la chiamata c'è stata, perché l'agrimensore K. non può entrare? Perché resta un escluso? Il castello è la trascendenza o Kafka ha sostituito il nulla a Dio? Questa è la tesi di Gyorgy Lukàcs [10], opponendosi all'intepretazione di Max Brod, che vede nel castello l'allegoria della grazia e della salvezza[11].
Possiamo accettare l'una o l'altra tesi, ma la posizione di K., e dell'uomo, di fronte all'ignoto ed all'inspiegabile non cambia. Se il castello è in nulla, allora non c'è stata nessuna chiamata e l'affannarsi dell'agrimensore è inutile. Se il castello rappresenta la trascendenza, non poter entrare genera angoscia, paura, stanchezza. È anche la stanchezza degli ebrei dopo secoli di esilio, di reclusione nel ghetto.
Perché i simboli e le allegorie di Kafka sono così plurivalenti?
L'allegoria è figura retorica antica in letteratura ed era un exemplum atto a chiarire un concetto. Per noi moderni una delle difficoltà di comprendere i testi medievali risiede nell'uso eccessivo che essi fanno delle allegorie, ma i lettori medievali conocevano perfettamente i loro significati; inoltre la lettura silenziosa, in solitudine, è pratica abbastanza recente. I discepoli medievali avevano di fronte a loro il magister, che spiegava e chiariva. L'allegoria è figura propria dei periodi di fede, ma quando le ideologie e le religioni non sono più sufficienti a spiegare il mondo, il posto dell'allegoria viene preso dal simbolo, che è per sua natura polivalente, che esprime il dubbio, soprattutto il dubbio dell'uomo moderno dinanzi al mondo.
Sia che il castello rappresenti il nulla, sia che raffiguri Dio o la Grazia e la Salvezza, esso è lontano, irraggiungibile, perché gli antichi strumenti di interpretazione sono andati perduti. Possiamo affermare che K. crede nella forza dell'allegoria, ma vive nel tempo del simbolo.
Egli si ostina a misurare l'incommensurabile - anche il Nulla lo è - con unità umane. Nel romanzo ciò è ben espresso all'inizio del capitolo in cui si dice che forse il castello non è affatto un castello, ma forse un ammasso di casupole fatiscenti[12]. Vengono allora in mente le parole di Isaac Singer nel racconto “Un amico di Kafka”: Dio, tu vedi tutto, conosci tutto, sai tutto, il passato, il presente e il futuro, ma io che cosa devo fare con le mie briciole di vita?.
Siamo tutti esclusi? Non certo dai libri di Franz Kafka.

[1]Franz Kafka, Racconti, Mondadori, Milano, 1990, pag 394-396
[2]Franz Kafka, op. cit., nella nota a pag. 608 si legge Nell'inverno 1917-18 regnava a Praga, come in tutta la monarchia, una grande penuria di carbone
[3]Jean Chevalier, Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli, volume primo A-K, BUR, Milano, 1997
[4]Ivi
[5]Franz Kafka, op. cit, 383
[6]Ivi, pag. 396
[7]Jean Chevalier, Alain Gheerbrant, op. cit.
[8]Kundera, Milan, Teoria del romanzo,
[9]Kafka, Franz, Racconti, op. cit., pag. 249
[10]Lukàcs, Gyorgy, Il significato attuale del realismo critico (Zur Gegenwartbedeutung des kritischen Realismus), Einaudi, Torino, 1957
[11]Brod Max, Der Dichter Franz Kafka, in “Die Neue Rundschau”, n. 11, 1921
[12]Kafka, Franz, Il Castello, Milano, Mondadori, 1969, trad. di Anita Rho
 


 
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MATTINE PRAGHESI
 
- Als Gregor Samsa eines Morgens aus unruhigen Träumen erwachte, fand er sich in seinem Bett zu einem ungeheueren Ungeziefer verwandelt.
- Jemand mußte Josef K. verleumdet haben, denn ohne daß er etwas Böses getan hätte, wurde er eines Morgens verhaftet


- Una mattina, destandosi da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò nel suo letto trasformato in un insetto mostruoso.
- Qualcuno doveva aver calunniato Joseph K., perché senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato.

La prima frase è l’incipit de La metamorfosi, la seconda è l’inizio de Il processo.
Ambedue le narrazioni iniziano al mattino, ambedue sono state oggetto di infinite analisi letterarie. Soffermiamoci su due particolari: Joseph K. viene arrestato senza che avesse fatto niente di male e Gregor Samsa si sveglia da sogni inquieti. È vero, Kafka non dice mai dei suoi personaggi che sono innocenti, ma neanche che sono colpevoli, nondimeno essi sono caratterizzati dal senso di colpa.
Di Joseph K. tuttavia si dice senza che avesse fatto niente di male. Non è il punto di vista del narratore né di Kafka. È forse il punto di vista del personaggio? No, perché Joseph K. non si dichiara innocente. E come potrebbe? Non conosce l’accusa e non fa niente per venirne a conoscenza, ma cerca soltanto di trovare il tribunale. Che significa allora senza che avesse fatto niente di male? È una mattina come tutte le altre, non c.è nulla di diverso. Kafka o il narratore presenta gli avvenimenti come se si trattasse di eventi del tutto normali. Certamente, ciò che accade a Joseph K. può accadere a chiunque. Come ha scritto Milan Kundera ne "L’arte del romanzo"[1] i cecoslovacchi, grazie ai romanzi di Kafka, avrebbero potuto immaginare le strategie di una dittatura.
Tralasciamo per un momento la questione della colpa e rivolgiamo l'attenzione al fatto che l'arresto di Joseph K. e la metamorfosi di Gregor Samsa avvengono al mattino. È per ambedue i personaggi l'inizio di una nuova vita; essi si trovano in un nuovo mondo, ma non è l'Amerika di Karl Rossmann, dove pure traspare un sottile filo di speranza, è piuttosto un mondo dominato dall'oscurità e dalla solitudine. In quest'universo non c'è la nuova che illuninerà la terra all'arrivo del messia, né la luce della terra promessa. I corridoi e le stanze del palazzo di giustizia sono oscuri e squallidi e la stanza dell'insetto Gregor è buia. Joseph K. e Samsa non fanno nulla per sfuggire alle loro nuove condizioni, ma cercano soltanto di adattarsi ad esse. Per Gregor la luce è soltanto quella della lampada da cui, in qualità di insetto, è attirato. Più complessa la luce per Joseph K. Nel capitolo nono de "Il processo" intitolato "In Dom" (Nel Duomo) un prete cattolico narra a Joeph K. la storia dell'uomo di campagna che si trova "davanti alla legge". Sappiamo che questa narrazione Kafka l'ha usata come racconto, ma pochi interpreti dello scrittore praghese si sono trattenuti sul fatto che nel romanzo è un sacerdote cattolico il narratore della parabola. Così come il Tribunale è un mondo sconosciuto per Joseph K., anche il cattolicesimo è per l'ebreo Kafka una terra ignota, un sistema alle cui leggi gli ebrei sono stati costretti ad adattarsi. È una legge del tutto diversa da quella di Mosé, eppure anche per Joseph K. forse c'era una speranza, forse c'era la porta a lui riservata. La legge di Mosé, come la legge del cattolico Impero austro-ungarico, è anche la legge dei padri, ma Joseph K. non ha né il coraggio né la forza di ribellarsi.
Ecco allora ricomparire la colpa. Torniamo allora alla frase che dovrebbe spiegare gli avvenimenti occorsi a Joseph K.: qualcuno doveva aver calunniato Joeph K.. Egli si trova nel territorio della colpa a causa di una calunnia. Questo non è certo, ma sappiamo comunque che la calunnia è un peccato mortale. Nel "Talmud" si legge: "Il quarto peccato capitale è la calunnia. Per indicare questa pecca si usa la curiosa espressione lishan telitaë (la terza lingua): fu così chiamata “perchè uccide tre persone: quegli che parla, quegli cui si parla, quegli di cui si parla”; e ancora “Come un uomo considera il proprio onore, così deve considerare quello del suo vicino. Come nessuno desidera vedere calunniata la propria reputazione, così non deve mai cedere al desiderio di calunniare la reputazione del proprio vicino”; e poi “Chi riferisce calunnie, chi le accetta e chi fa testimonianza falsa contro il prossimo, merita di essere pasto per i cani”. Joseph K. non cerca di sapere quale sia l'accusa e non cerca di conoscere il calunniatore, comportamento che equivale all'accettazione della calunnia. Nel Talmud leggiamo inoltre a proposito della calunnia: “Chiunque pronunzia una calunnia accumula peccati uguali alle tre trasgressioni di idolatria, impudicizia, e spargimento di sangue”.
Kafka aveva a disposizione l'enorme apparato burocratico dello Stato asburgico per edificare l'allegoria della Legge, ma pure fu affascinato dall'ebraismo dell'Europa orientale. Ed allora possiamo dire che Joseph K. accumula i tre peccati compresi nella calunnia: egli idolatra il tribunale, che non è la Legge dalla quale emana la luce, è impudico perché non ha vergogna di cercare espedienti, tanto che le ultime parole del romanzo recitano Wie ein Hund!« sagte er, es war, als sollte die Scham ihn überleben. "Come un cane!” disse "come se la vergogna dovesse sopravvivergli"; infine è lui stesso la causa del proprio spargimento di sangue.
Una colpa sconosciuta caratterizza anche la storia di Gregor Samsa. Nell'incipit non viene detto che Gregor non ha ha fatto niente di male, tuttavia egli si desta da sogni inquieti. Siamo dunque indotti a chiederci quale sia la causa dell'inquietudine che ha agitato la notte precedente e soprattutto se se fra tale angoscia notturna e la metamorfosi vi sia una relazione. È da notare che nell'inizio del racconto per ben due volte troviamo la parola di riferimento alla dimensione onirica. I sogni della notte erano stati inquieti e quanto gli accadeva non era un sogno.
Molte sono gli interrogativi che l'inizio de "La metamorfosi" pone al lettore: come mai Gregor non si chiede il perché dell'evento? Su tale mancata domanda del personaggio di Kafka sono state scritte molte pagine e da quella omissione deriva la tragicità del racconto. Gregor, erede di personaggi fiabeschi, dal momento del terribile risveglio fino alla desolata morte cercherà solo di adattarsi ad una vita animalesca, ma pure continuerà a pensare come un uomo. Gregor pone ai lettori una domanda terribile: noi esseri umani siamo oppure esistiamo? Essere è complessità, ma è anche ricchezza, esistere è semplicità, ma è anche povertà, penuria di spirito. Gregor accetta di esistere, ed è forse questa la sua colpa maggiore. Il peccato non risiede dunque nei precedenti sogni inquieti, ma nel comportamento successivo di Gregor Samsa: egli sceglie di esistere, non di essere!
 


 
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FIGLI DI KAFKA!
 
In un certo senso siamo tutti figli di Kafka: lo scrittore praghese ci ha rivelato che l'assurdo può essere nella quotidianità, ci ha fatto scoprire la muostruosità della macchina burocratica, ha messo a nudo il terribile anonimato dello Stato per il cittadino, ha scavato nei recessi profondi dell'anima.
A pag. 254 troviamo il racconto "Undici figli"(1917) (1). Nella nota relativa(2) leggiamo: A proposito di questo racconto si veda un interessante capitolo di Malcom Pasley (in Kafka-Symposion, Berlino, 1965) secondo il quale ci troviamo davanti a un raggiro di Kafka. Nella biografia di Kafka Max Brod scrive che questa prosa “va intesa quale miraggio di una paternità della creazione di una famiglia che possa contrapporre all'esempio del padre qualcosa di equivalente, cioè di altrettanto grandiosamente patriarcale, ecc” e aggiunge che questa spiegazione non è contraddetta da ciò che Kafka gli disse una volta: “Gli undici figli sono semplicemente undici racconti ai quali sto lavorando”. Spiegazione che letteralmente risponde al vero, come dimostra il Pasley. In un quaderno di Kafka i racconti (cioè i figli) sono elencati in quest'ordine: Un sogno, Davanti alla legge, Un messaggio dell'Imperatore, Il prossimo villaggio, Un vecchio foglio, Sciacalli e arabi, In loggione, Il cavaliere del secchio, Un medico di campagna, Il nuovo avvocato, Un fratricidio. La presentazione di ciascun figlio è accuratamente velata e soltanto vaghe allusioni lo possono identificare.
È lo stesso Kafka che dà una chiave di lettura dei suoi racconti, ma prima di addentrarci in alcuni di questi racconti facciamo alcune considerazioni: Max Brod racconta che quegli undici figli, quei racconti, sono una contrapposizione al padre. È vero che Kafka aveva pregato l'amico Max Brod di bruciare i suoi libri, richiesta che per nostra fortuna non fu esaudita, ma è anche vero che Franz Kafka era un profondo conoscitore della letteratura e, strano a dirsi, amava la precisione delle descrizioni di Balzac ed inoltre nei Diari egli ha scritto di essere soltanto letteratura. Come si possono contrapporre dei racconti al mondo reale? Al sistema patriarcale? La risposta non è difficile: Kafka trovava nella scrittura un mondo e questo mondo egli lo oppone a quello del padre. Abbiamo già visto come Kafka avesse a disposizione la legge asburgica e la legge ebraica per le sue rappresentazioni e se i suoi personaggi non si ribellano, è pur vero che i suoi libri raffigurano in modo critico le regole scritte dei padri. Egli non poteva prevedere che le due dittature successive alla sua vita -e che avrebbero coinvolto la sua nazione e la sua amata Praga- avrebbero l'una, il nazismo, bruciato i suoi libri, l'altra, il comunismo, li avrebbe proibiti. Come tutti gli scrittori e come tutti coloro che conoscono la storia e la letteratura, sapeva che essa è sempre critica verso gli autoratismi. Non a caso Mario Vargas Llosa nel suo saggio "È possibile il mondo moderno senza il romanzo?"(3) scrive che la letteratura è l'arte più democratica che esista.

Torniamo adesso ad alcuni degli undici racconti non ancora qui esaminati. "Sciacalli e arabi"(1917) (4): se seguiamo lo schema proposto da Pasley esso è il sesto racconto. Leggiamo cosa scrive Kafka: "Il mio sesto figlio sembra, almeno a prima vista, il più metitamondo di tutti. È malinconico e insieme un chiacchierone. Perciò non è facile con lui spuntarla. Se sta per aver la peggio cade in una invicibile tristezza; se invece conquista il sopravvento cerca di conservarlo chiacchierando. Tuttavia non gli nego una certa passione che lo rende dimentico di se stesso; spesso, in pieno giorno, si dibatte nei suoi pensieri come in sogno. Senz'esser malato -gode anzi di un'ottima salute- barcolla a volte, specialmente sull'imbrunire, ma non occorre aiutarlo, non cade. Forse di questo fenomeno ha colpa il suo sviluppo: egli è forse troppo alto, per la sua età. Questo nel complesso non lo rende bello, nonostante la bellezza eccezionale di singole parti del corpo, per esempio delle mani e dei piedi. Non è bella, poi, anche la sua fronte: ha un che d'incartapecorito, tanto nella pelle come nella formazione delle ossa"(5).
È abbastanza semplice riconoscere in queste parole alcune caratteristiche di Kafka: la malinconia, la dimenticanza di se stesso, l'essere come in sogno durante il giorno (Kafka scriveva soltanto di notte), la carnagione giallognola, dovuta forse già alla tisi, ma possiamo riconoscere forse anche alcuni tratti della scrittura kafkiana. Le mani e i piedi così belli corrispondono forse agli incipit e agli epiloghi delle narrazioni. Non resta altro allora che leggere il racconto(6).
L'incipit recita: "Eravamo accampati nell'oasi. I compagni dormivano. Un arabo mi passò accanto; aveva governato i cammelli e andava verso il suo giaciglio".
Come in tutte le altre narrazioni di Kafka, anche questa inizia con una frase sintatticamente semplice, ma se ne "La metamorfosi" e ne "Il processo" l'evento è inquietante, qui abbiamo una situazione di calma e serenità: l'oasi è il luogo deputato al ristoro e al riposo. Subito dopo però il narratore non riesce a dormire, pur desiderandolo, perché è disturbato dal lamento in lontananza di uno sciacallo. L'animale si avvicina e gli parla dell'antica lotta fra sciacalli e arabi; intanto gli altri sciacalli si avvicinano e fanno cerchio. La bestia fa una richiesta all'uomo che viene dal Nord, dall'Europa: "Signore” gridò egli e tutti gli sciacalli ululavano sicché nella più lontana distanza sembrò suonare come una melodia ”Signore, tu devi chiudere la lotta che divide il mondo. I nostri antenati hanno descritto colui che lo farà, così, come sei tu. Dobbiamo aver pace dagli arabi: aria respirabile; che lo sguardo intorno all'orizzonte sia purificato da loro; che non s'intenda più il gridar lamentoso del montone scannato dall'arabo; ogni bestia deve crepare tranquillamente: senza noie il suo sangue deve essere bevuto fino all'ultima goccia, il suo corpo deve essere ripulito da noi fino alle ossa. Purezza, soltanto purezza vogliamo noi.
I riferimenti all'ebraismo sono evidenti: un popolo aspetta il messia che reca un mondo di purezza. Ci sarà pace, purezza. Non sarà più necessario sacrificare animali a Dio; il mondo di Abramo, a cui Dio chiede il terribile olocausto del figlio Isacco sarà dimenticato. Ma subito dopo il racconto si complica, perché all'europeo vengono consegnate delle forbici, simbolo dell'inimicizia tra arabi e sciacalli. Ed ora è un arabo che parla degli sciacalli: "È cosa nota dappertutto; finché esiste un arabo queste forbici girano per il deserto e gireranno con noi sino alla fine dei tempi. A ogni europeo vengono offerte per la grande impresa ed ogni europeo sembra quello invocato da loro”. Le forbici vengono offerte ad ogni europeo. Il narratore non è dunque il messia ed il pugnale di Abramo è ancora presente nella cultura ebraica, anche nella diaspora.
Naturalmente l'opera di Kafka non è una raffigurazione dell'Antico Testamento né della società asburgica, ma entrambi questi elementi informano di sé la scrittura kafkiana nel senso che essi erano parte della cultura dello scrittore; e del resto nessuna delle opere è autobiografica, sebbene egli abbia disseminato le sue opere di riferimenti alla sua vita. Si può affermare che la sua scrittura è autobiografica come lo sono tutte le opere letterarie, vale a dire che esse rappresentano vite possibili.
Nel racconto "In loggione" (1916-1917) troviamo all'inizio un accenno alla malattia: "Se un'acrobata a cavallo, fragile, tisica venisse spinta per mesi interi senza interruzione in giro nel maneggio sopra un cavallo vacillante dinanzi a un pubblico instancabile da un direttore di circo spietato sempre colla frusta in mano, continuando a frullare sul cavallo, gettandi baci, oscillando sulla vita, e se questo spettacolo proseguisse in mezzo al fracasso dell'orchestra e dei ventilatori nel grigio futuro che continua a spalancarsi sempre, accompagnato dall'applauso, che si estingue e poi torna ad ingrossare, di mani che sono veri e martelli a vapore - forse un giovane frequentatore del loggione si precipeterebbe per la lunga scala, traversando tutti gli ordini di ordini di posti, nel maneggio, e griderebbe: Basta! tra le fanfare dell'orchestra sempre pronta a seguir gli ordini."(7). Abbiamo qui non solo l'accenno alla tisi, che condurrà Kafka alla morte, ma soprattutto alla sua scrittura. L'acrobata può essere letto come una metafora dello scrittore, non solo dello stesso Kafka, ma dello scrittore in generale. Sappiamo che Kafka scriveva soltanto di notte, instancabilmente, così come l'acrobata a cavallo viene spinto senza interruzione nel maneggio.
Ammesso che questa chiave di lettura sia valida, il seguito della lunga frase iniziale invita a porci alcune domande: chi è lo spietato direttore d'orchestra? Chi è il pubblico pronto ad appalaudire e a tacere con facile alternanza? Possiamo suppore che il direttore d'orchestra sia stato ispirato dalla figura autoritaria del padre di Kafka, il quale disprezzava la vocazione letteraria del figlio. E forse fu quello stesso dispregio a far sì che Kafka non rinunciasse alla sua solitaria attività notturna. Ma se tale attività era solitaria, come mai nel racconto si parla di pubblico, di fanfara, di battiti di mani? Possiamo fare due ipotesi: sappiamo che Kafka leggeva i suoi racconti agli amici e lo faceva in modo ironico, addirittura facendo ridere questo suo ristretto pubblico; la seconda ipotesi risiede nella difficoltà di pubblicazione che incontrarono i suoi scritti all'inizio. Kafka era tuttavia cosciente della validità delle sue opere ed accenna chiaramente al futuro, che però è grigio. Pensava già forse di pregare l'amico Max Brod di bruciare i suoi libri? Non possiamo saperlo, ma siamo grati a Brod di averli salvati.
A sostegno della precedente interpretazione leggiamo le parole relative al settimo figlio nel racconto "Undici Figli"(8):"Il settimo figlio mi appartiene forse più di tutti. Il mondo non sa apprezzarlo; non capisce la particolarità del suo umorismo. Non che io lo sopravvaluti; so bene che è piuttosto comune; se il mondo non avesse altro difetto che quello di non saperlo apprezzare, sarebbe ancora puro. Ma non vorrei che questo figlio mancasse in seno alla mia famiglia. Egli vi porta inquietudine ed insieme rispetto per la tradizione; e sa fondere questi due elementi, almeno a mio parere, in perfetta unità".
La letteratura tedesca ha rappresentato la scissione tra la sfera artistica ed il mondo borghese(9), ma in Kafka tale separazione si complica. Se per gli altri scrittori di lingua tedesca la divisione operata dalla vocazione letteraria allontana dal mondo borghese, per lo scrittore praghese essa separa non solo da quel mondo che avrebbe dovuto essere il mondo della sicurezza, ma anche dal mondo della tradizione ebraica, che secondo quanto scrive Kafka nei Diari è divenuta solo esteriorità. È per questo che quel figlio porta inquietudine ed insieme rispetto per la tradizione. Kafka sa fondere questi elementi, ma dice chiaramente che questo è il suo parere. L'inquietudine può nascere sia dal fatto che egli giudica farisiaco l'ebraismo del padre, sia dal fatto che egli sia costretto a raffigurare gli elementi dell'antica tradizione attraverso simboli e allegorie. Questa è però anche la ricchezza degli scritti di Kafka e dei suoi lettori.
La scrittura di Kafka è ricca di riferimenti letterari, come accade nel racconto "Il nuovo avvocato(10)". Il nuovo avvocato è il dottor Bucefalo! Sappiamo che Bucefalo era il nome del cavallo di Alessandro il Macedone, Alessandro Magno. Come mai è diventato un avvocato? Giuliano Baioni ha scritto giustamente che "La metamorfosi" di Kafka è una fiaba al contrario(11), ma il rapporto di Kafka con le fiabe non si ferma a questo, perché in tutta la sua opera incontriamo i tipici personaggi fiabeschi, gli animali, ma naturalmente essi non rappresentano la saggezza o la malvagità; essi sono divenuti rappresentanti di un mondo assurdo, enigmatico, labirintico. Nel racconto "La tana(12)" un animale, forse una talpa, descrive minuziosamente la costruzione del suo rifugio e forse egli stesso si smarrisce fra i cuniculi e le gallerie da lui stesso edificate. Bucefalo è forse diventato un uomo? Ha forse subito la trasformazione inversa a quella di Gregor Samsa? Questo nel racconto non viene detto. E perché è diventato un avvocato? Per difendere forse Alessandro Magno? Kafka scrive: "In generale il foro accetta l'ammissione di Bucefalo. Con perspicacia stupefacente ci si dice che egli, dato l'ordinamento attuale, si trova in una situazione difficile e perciò, oltre che per il posto che occupa nella storia, merita comunque una certa benevolenza. Oggi -non lo si può negare- non esiste nessun Alessandro Magno. Ci sono moltissimi che sanno uccidere; ...(13)". Kafka pone ancora lo stesso interrogativo che Dostoevskij mette nella bocca di Rasklolnikov: Napoleone e Cesare hanno causato la morte di migliaia di morti. Perché non sono considerati assassini? È vero, al tempo di Kafka, come in tutti i tempi, c'erano moltissimi che sapevano uccidere, altri sarebbero giunti poco dopo la sua morte che hanno saputo uccidere su una scala che forse neanche la sua grande fantasia poteva immaginare.
Torniamo al racconto. Alla fine del racconto scopriamo che Bucefalo è ancora un cavallo: "Forse è meglio però fare come ha fatto Bucefalo, sprofondandosi nei codici. Libero, senza più sentire sui fianchi i lombi del cavaliere, sotto una quieta lampada, lontano dal clamore della battaglia di Alessandro, egli legge e volta le pagine dei nostri antichi libri"(14). Le fiabe ci narrano di animali parlanti, ma mai di bestie che sanno leggere. Eppure c'è un antecedente nella letteratura tedesca: il gatto Murr di Ernst Theodor Amadeus Hofmann, che non soltanto sa leggere, ma scrive la storia. L'avvocato Bucefalo sprofonda nelle pagine degli antichi libri e si isola dal clamore del mondo.
Sprofondiamo anche noi nella lettura delle opere di Franza Kafka...

1) Kafka, Franz, op. cit., pag. 254
2) ivi, pag. 605
3) Vargas Llosa, Mario, in La cultura del romanzo, Einaudi, Torino, 2001
4) Kafka, Franz, Sciacalli e arabi, op. cit., pagg. 240-244
5) Kafka, Franz, ,Undici figli, op. cit., pag. 256
6) Kafka, Franz, Sciacalli e arabi, op. cit., 240-244
7) Kafka, Franz, In loggione, op. cit., pag. 233
8) op. cit., pag. 257
9) Su questo argomento vedi Marcuse, Herbert, Il romanzo dell'artista nella letteratura tedesca (dallo Sturm und Drang a Thomas Mann), Einaudi, Torino, 1985
10) Kafka, Franz, op. cit., pag. 223
11) Baioni, Giuliano, Kafka. Romanzo e parabola, Feltrinelli, 1997
12) Kafka, Franz, op. cit., pagg. 509-547
13) ivi, pag. 223
14) ivi, pag. 224
 


 
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BIBLIOGRAFIA
 
Benjamin, Walter Angelus Novus Einaudi, Torino
Boitani, Piero, L’ombra di Ulisse, Il Mulino, Bologna, 1992
Brod Max, Der Dichter Franz Kafka, in “Die Neue Rundschau”, n. 11, 1921
Chevalier, Jean- GheerbranAlaint, Dizionario dei simboli, BUR, volume secondo, Seggiano di Piolnello, 1997
Cohen, A., Il Talmud, Bari, Laterza, 1935
Kafka, Franz, Sämtliche Erzählungen, Fischer Verlag
Kafka Franz, Racconti, Mondadori, Milano 1990
Kundera, Milan, Teoria del romanzo,
Lukàcs, Gyorgy, Il significato attuale del realismo critico (Zur Gegenwartbedeutung des kritischen Realismus), Einaudi, Torino, 1957
Marcuse, Herbert, Il romanzo dell’artista nella letteratura tedesca ("dallo Sturm ud Drang a Thomas Mann"), Torino, Einaudi, 1985
Vargas Llosa, Mario, “È possibile il mondo moderno senza il romanzo?” in “La cultura del romanzo”, Torino, Einaudi, 2001