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Pasolini trentanni dopo 
Leggi Scrivi all'autore Alfonso Cardamone RICORDANDO PASOLINI
Leggi Scrivi all'autore Mario Amato UN MONUMENTO CHE NON C’È
Leggi Scrivi all'autore Antonio Limonciello LUNEDI' IN ALBIS
Leggi Scrivi all'autore Alfonso Cardamone P.P.P. “CORSARO” DELL'UNIVERSO ORRENDO
Leggi Scrivi all'autore Michele De Gregorio PASOLINI E LA POLITICA
Leggi Scrivi all'autore Stefano Casi PASOLINI TRA CINEMA E TEATRO
Leggi Scrivi all'autore Antonio Limonciello PASOLINI PEDAGOGO
Leggi Scrivi all'autore Antonio Limonciello CANTO PASOLINI
Leggi Scrivi all'autore Ugo Fracassa PPP/P, 55
Leggi Scrivi all'autore Giuseppe Panella PASOLINI TEOREMA
Leggi Scrivi all'autore Raffaello Morbiolo POESIA PER PASOLINI
 

  registrazione n.94 del 28.2.1972 presso il tribunale di frosinone
direttore responsabile alfonso cardamone
 



 
Pasolini trentanni dopo 
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Alfonso Cardamone
[ a.cardamone@email.it ]
 
RICORDANDO PASOLINI
PREMESSA AL FASCICOLO
 
2 novembre 1975. Un eretico è stato “giustiziato” al piazzale dell’idroscalo senza il rituale pubblico del rogo. Il boia-sicario, consapevole o inconsapevole, è senza il coraggio del volto. La paura del diverso oggi fa impazzire i torquemada del mondo a una dimensione. Raccapriccio e speranza. Chi uccide ha paura. È vulnerabile. La verità del diverso passa attraverso le cancrene del razionale folle. La morte di Pier Paolo Pasolini ne amplifica la credibilità”.

Così recitava, in una sintesi estrema, l’editoriale della rivista dismisura, nell’anno 1975, ancora sotto choc per l’assassinio del Poeta. Oggi, a trentanni di distanza da quel luttuoso evento, possiamo chiederci che cosa resta delle intuizioni contenute, o anche solo accennate, in quella sintesi.
Tutto.
Il mondo ad una dimensione ha perfezionato il volto raccapricciante della globalizzazione neocapitalistica e della decerebrante comunicazione massmediatica, intuite, denunciate, smascherate, con lucidità e passione, da Pasolini, in tutti i loro orrori.
I torquemada del mondo a una dimensione non solo non sono stati sconfitti dalla democrazia, ma di essa si fanno beffe, vaneggiando di guerre preventive e scatenandole sotto il pretesto dell’esportazione di quella stessa democrazia che essi riducono a larva pietosa.
Il diverso ancora fa paura, anzi terrorizza ed è pretesto di crociate ingloriose e di repressioni vergognose. E qui occorre chiarire, pur nella stringatezza che ci siamo imposti, che quando parliamo di diverso, non intendiamo riferirci affatto ad aspetti particolari del mondo affettivo personale di Pasolini, ma ad un concetto ben più vasto, che investe le diversità culturali, ideologiche, esistenziali di modi di essere e di pensare incompatibili con l’omolagozione del Potere e ad essa non riducibili. Penso al popolo articolato e diverso del movimento noglobal; penso ai diseredati del Terzo e Quarto Mondo; e penso anche alla tribù residuale degli intellettuali non integrati e, più specificamente, dei poeti, ricordando, a chi fosse distratto o immemore, quanto scriveva Pasolini nella rubrica del “Caos” del 14 dicembre del Sessantotto:

… l’opera di un autore è come la faccia di un negro. È con la sua stessa presenza, con il suo ‘esserci’, che è rivoluzionaria. E ciò, secondo me, non avviene affatto a livello sovrastrutturale, ma strutturale [e qui, sia detto tra parentesi, è, più che altrove, la chiave del suo allontanamento, della sua solitudine rispetto all’interpretazione marxistica volgare ed ortodossa]. Infatti l’intera struttura è messa in ballo e in pericolo, dal solo ‘esserci’ della faccia di un negro o dell’opera di un autore”.

E questo perché la diversità è sostanziale: la poesia “Non è merce”! “La poesia infatti non è prodotta ’in serie’ [ed ecco, sia detto sempre tra parentesi, la ragione profonda della sua avversione radicale alla neo-avanguardia]: non è dunque un prodotto”.
La poesia, inoltre, “non è valore metastorico”… Essa è se mai iperstorica, perché la sua carica di ambiguità non si esaurisce in alcun momento storico concreto.

È in omaggio a questi principi e a questi valori, oltre che per una non rituale “celebrazione” della ricorrenza della scomparsa del Poeta, che pubblichiamo questo fascicolo speciale di Dismisura costituito da interventi appositamente dedicati e da relazioni svolte (e g. c. per la pubblicazione) nel corso della rassegna “P.P. Pasolini - proiezioni, riflessioni, testimonianze” organizzata dall’ Assessorato alla Cultura del comune di Frosinone dal 20 gennaio al 24 febbraio 2005.
 


 
Pasolini trentanni dopo 
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Mario Amato
[ marius2550@yahoo.it ]
 
UN MONUMENTO CHE NON C’È
 
Sono trascorsi trent’anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini e tutti ne abbiamo sentito l’assenza.
In mezzo a politici che gridano, ad intellettuali che sono passati da sinistra a destra e viceversa, alla volgarità della televisione, al degrado dell’editoria, al trionfo dell’industrialismo, abbiamo sentito la mancanza di una voce forte critica verso destre e sinistre, abbiamo sofferto la penuria ideologica di una grande voce intellettuale.

Pier Paolo Pasolini visse in esilio nella nostra società, un esilio che era una condizione interiore, ma appunto perché esiliato poteva vedere in modo più chiaro e più penetrante la realtà.
Come ha scritto Alfonso Cardamone, egli era un eretico, ma non un luterano, come pure farebbe pensare il titolo di uno dei suoi libri (Lettere Luterane), perché la Riforma di Lutero finì per creare un’altra chiesa con altri dogmi.
Può darsi che la figura intellettuale di Pasolini fosse più grande della sua dimensione letteraria, nondimeno essa merita un posto fra i grandi scrittori del Novecento, perché come tutti gli esiliati, come tutti i senzapatria Pasolini aveva uno sguardo attento ad ogni fenomeno storico. Egli, insieme ad altri pochi, vide uno dei più grandi problemi del secolo passato, la nascita del sottoproletariato, e cercò di richiamare l’attenzione delle sinistre su questa nuova realtà, ora dilagante.
Le periferie delle grandi metropoli occidentali oggi sono piene di accattoni, di donne e bambini in schiavitù. Pasolini aveva previsto che il mondo industrializzato avrebbe ucciso la civiltà.

Ucciso il due novembre di trent’anni or sono, quella data sembra un simbolo. Ucciso dalla ferocia, dalla stupidità di chi non riesce a comprendere la bellezza della diversità. Era il giorno in cui si celebrano i morti. Coloro che compirono quell’atto orrendo non pensarono che avrebbero reso ancor più eterna la loro vittima sacrificale, perché i Sepolcri non sono fatti di marmo, sono costruiti con le parole, con la memoria.
Il monumento di Pier Paolo Pasolini è nelle sue opere, nelle sue ceneri, come in quelle di Gramsci, e sarà sempre nell’animo di coloro che amano la poesia, tuttavia c’è il desiderio di una pietra pubblica che ricordi il suo nome.
 


 
Pasolini trentanni dopo 
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Antonio Limonciello
[ antoniolimonciello@tin.it ]
 
LUNEDI' IN ALBIS
 
Caro Pier Paolo
il popolo da te dato morto
vive ed è felice
poche ore alla settimana
ma lo è.
Basta uscire il Lunedì in Albis

Il ciuffo può essere punkabestia o rockkabilly
ne trovi di rapati, capelli all’Umberto,
capelloni disordinati, capelloni ad onde pettinate
arabeschi nei tagli corti e code di cavallo
Tu che amavi l’estetica
ti rallegreresti di trovare tanti generi coniugati
almeno quelli di adesso non si omologano a un solo modello
Potresti dire che sono comunque eterodiretti
interni alle variabili del controllo borghese
Tutto vero
a loro sono stati concessi alcuni tasselli da riempire
la quantità dipende dal potere economico
e dal momento politico
E però, ti voglio assicurare
i giovani hanno occhi limpidi d’amore
non lo nascondono
ti escludono senza pudore
Forse questo non lo avresti sopportato
ma devi sapere che anche i ragazzi omosessuali
vivono pubblicamente le stesse tenerezze
vederli cambia la percezione del mondo

Condannasti la mia generazione come brutta e infelice
ti sbagliavi
Ricordo
proprio sui treni e gli autobus dei Lunedì in Albis
toccavo il cielo con un dito
i miei occhi erano persi in quelli di lei
il languore dell’amore creava
vuoto fusione dispersione nell’universo
racchiusi sui due sedili
sospesi sul paesaggio veloce del finestrino
tramonto di lacrime
le mani si tenevano
parole sussurrate all’orecchio
baci nei corpi morbidamente abbandonati
Sugli altri sedili c’erano i miei amici
anch’essi correvano i prati dell’amore
Dunque tu non ci hai visto
forse non ci potevi più vedere


È ancora così
il rito sopravvive nonostante il sistema
Sui treni di ritorno dalla gita fuori porta
i sedili non sono più di legno ma imbottiti
c’è l’aria condizionata
loro hanno telefonini nella mano
auricolari alle orecchie
nude le pance ostentate
scesi da charter anziché dal trenino per Ostia
non parlano di Fregene ma di spiagge esotiche
sono belli Pierpaolo
sono teneri e persi
si amano innocenti
C’è il macho che punta la fatale di fronte
senza pudore
è imbarazzante l’insistenza
ha camicia bianca aperta sul dorso villoso
catena d’oro e ciuffo nero
si espone sensuale alle ragazze che passano
il suo corpo ti avrebbe fatto impazzire
C’è il riccetto scotennato ai lati
che avanza nei pantaloni larghi per due
spazzola pavimenti
cavallo all’altezza delle ginocchia
piercing orecchie, naso, fronte, labbro inferiore e lingua
dolce
con la sua banda si sposta avanti e indietro
devono evitare il controllore
sono senza biglietto
lo segue come un’ombra una pischella
sembra ancora bambina ma ha gli occhi dell’amore
lo avranno già fatto dietro al muro antico di qualche scavo
o forse sulla spiaggia
perché hanno il volto arso dal primo sole
Lo so questo sesso ostentato ti sembra una merce qualsiasi
ma ti sei mai avvicinato mentre si guardano negli occhi?
Come un reazionario qualsiasi
a te è bastato vederli troppo spesso abbracciati
per parlare di mercificazione
ti dovevi mettere tra loro
lasciarti attraversare dagli sguardi
sì perché loro ti avrebbero attraversato
pur di congiungersi nell’amore
Avresti capito che innamorarsi
è sovversivo come sempre
avresti capito che
le rivoluzioni sono ancora possibili


Forse dovevi scendere da quella maledetta Alfa
forse dovevi fermarti un poco
forse dovevi vederli tutti
non solo quelli in cui trovavi disponibilità
Questo popolo è bello almeno come il mio
e come il tuo delle rive del Tagliamento
Dirai
sono felici oggi perché è libera uscita
domani ognuno alla propria caserma
a ungere la santa macchina del profitto universale
È vero
ma era così anche ai tempi di Toniuti, Andrea, Giovanni
e di Sergio, Franco e Ninetto
il popolo è felice ad ore contate

Provo una pena straziante
fosti ucciso nel “presente che è solo dolore”
Avrei voluto che tu fossi qui
per condurti tra loro e dirti
vedi quelle mani come si carezzano
senti l’aria come si apre e dispone intorno ai corpi
sii felice di loro
a noi è concesso amore per tutta la vita
ma non sempre nelle stesse forme
invece proprio tu che insegnavi ad abbattere feticci
rimanesti prigioniero di un unico rito

Una coppia di cinquantenni dorme
lei teneramente abbandonata sul petto di lui
lui l’abbraccia col sorriso sulle labbra
Gli altri adulti presenti sono brutti
assenti
facce stanche
si rifugiano in letture e pensieri di fuga
organizzano la tristezza di domani
sterili rimpiangono anziché osare
Come te Pierpaolo non sanno essere padri
come te non amano i giovani
vorrebbero solo prendere la loro gioventù

Gli arricchiti non sono in giro
loro attraversano il mondo
in poderose auto dai vetri bruniti
si chiudono in ville blindate
lì incontrano copie e copie di se stessi
oggi, Lunedì in Albis
il mondo è solo nostro
ed è un gran bel mondo


Certo,
molti dei giovani che mi circondano
desiderano quelle auto e quelle ville
molti di loro si preparano alla morte dell’essere
Peccato
basterebbe solo un piccolo passo oltre l’angolo
si troverebbero nella piazza di un altro mondo possibile
potrebbero occupare in coppie e gruppi
gli archi che la storia ci ha donato
ma è già un buon segno la loro allegria
vale la pena di vivere per loro
credimi possiamo ancora essere padri
con dio uscito dal petto
e senza rimpianti
 


 
Pasolini trentanni dopo 
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Alfonso Cardamone
[ a.cardamone@email.it ]
 
P.P.P. “CORSARO” DELL'UNIVERSO ORRENDO
 
Il titolo di questa nostra comversazione su Pasolini già ne dichiara il senso ed il taglio. Essa farà riferimento a quell’orrendo universo, infatti, del consumo e del potere, che Pasolini denuncia e attraversa con incursioni rapide, aggressive, da guerra di corsa, appunto, così nel Caos come successivamente negli Scritti non a caso definiti corsari.
La nostra sarà, più che altro, una lettura guidata, per temi ed intrecci di temi, della presenza di Pasolini nella stagione cruciale del 68/69 e delle elaborazioni conseguenti del suo pensiero, in veggenza e preveggenza, in attualità e in previsione oltre quella presenza. Pertanto, la nostra attenzione sarà prevalentemente rivolta agli scritti del Caos, ma con alcune puntate sugli Scritti Corsari, per sviluppi e approfondimenti, lì dove appariranno necessari.
È il Pasolini polemista e giornalista, politico, certo, ma anche e soprattutto, in un certo senso, antropologo e sociologo, che qui interessa, ed anche poeta e scrittore, ché in lui i generi si mescolano e tra loro vicendevolmente si rimandano.
Gli scritti del Caossono testi tratti dalla rubrica omonima che Pasolini tenne sulle colonne del settimanale Tempo dal 1968 al 1970.
Anni critici, a livello nazionale e internazionale, anni cruciali di contestazione e di repressione, di eclissi di vecchi soggetti politici e di violenta emersione di nuovi, di vittorie operaie e di reazione. Di violenta trasformazione sociale. Anni in cui germinano i semi del terrorismo (ma vedremo qual è il senso ampio e profondo che Pasolini dà a questo termine, senso ben diverso da quello strumentale e riduttivo con cui viene usato ai nostri giorni di fondamentalismi e kamikaze, di tragiche guerre “sante” e/o “preventive”), e parallelamente i semi della colonizzazione delle coscienze. E Pasolini di tutto ciò non è solo testimone attento e sentimentalmente coinvolto, ma anche il sezionatore lucido e appassionato al tempo stesso, che incide e taglia in corpore vili, e mette a nudo cancrene e mutazioni e decomposizioni.

La verità. Questa sembra essere la motivazione di fondo dei suoi interventi. La sua ossessione. La sua missione.
La rubrica del Caos nasce dalla “necessità ‘civile’ di intervenire, nella lotta spicciola e quotidiana, per conclamare quella che secondo me è una forma di verità”. Così dichiara nell’intervento di apertura del 13 agosto ’68. Sostenendo che, nonostante per natura potesse subire il fascino del “disimpegno” e del “distacco dalle cose”, a contraddire quegli aspetti della propria natura era spinto dal suo “conformismo” comunista. Ma qui appare subito una delle contraddizioni di Pasolini (contraddizioni, comunque, che egli rivendicherà sempre come paradigmatiche della sua sostanziale coerenza); o, meglio, qui appare il contrasto tra percezione superficiale di una sempre più labile appartenenza, e maturazione nel profondo di un sempre più significativo distacco e allontanamento da quella appartenenza. Il conformismo del PCI poteva spingere infatti all’impegno politico, ma il machiavellismo di fondo di quel partito, per cui il fine poteva giustificare qualsiasi mezzo, non poteva certo essere condiviso dall’equazione pasoliniana impegno-disvelamento della verità. Per Pasolini, non per il PCI, la verità era veramente rivoluzionaria.
D’altronde, già i tre anni di silenzio che, dopo la chiusura della precedente rubrica, “dialoghi con Pisolini”, dallo scrittore tenuta su “Vie Nuove”, avevano preceduto l’impegno assunto con Il Tempo, avevano coinciso, tra l’altro, come scrive Ferretti nell’introduzione all’edizione degli Editori Riuniti del Caos, “con un’accentuata freddezza verso il PCI ed il concomitante interesse nei confronti dei movimenti “scandalosi” e “diversi” dei negro-americani e del Terzo Mondo”. Poi, scoppia il Sessantotto e quella freddezza, quella crisi si accentuano anche a livello di consapevolezza, mentre cresce, all’opposto la considerazione per il Movimento Studentesco, considerazione certo conflittuale, certo contraddittoria, ma quanto significativa per la maturazione del pensiero sociologico e antropologico, ancora prima che politico, di P.P.P.!
Ma andiamo con ordine, provando a sezionare, anche noi, sulle pagine del Caos e degli Scritti corsari.
comunista dissidente, a sinistra del PCI, solo, non per moda, e spesso in pessima compagnia”, si definisce nella rubrica del 9 novembre ’68 (e vedremo in seguito la portata di quel “solo”, così come la natura e il senso della “pessima compagnia”).
Il 20 dicembre dell’anno successivo, a chiosa dell’articolo con cui Berlinguer sull’Unità illustrava le motivazioni della radiazione dal PCI dei redattori del Manifesto, è proprio sui cardini dichiarati di quelle motivazioni, coerenza, chiarezza, principi e regole di condotta, serietà infine, che si appunta, aspramente, sarcasticamente, la critica di Pasolini:
“Io trovo tutto ciò fuori dalla sfera umana, esistenziale e logica: la ‘coerenza più rigorosa’ è di una disumanità da far rizzare i capelli, è il lacerto di un linguaggio per monaci fanatici, non per uomini; e così la ‘massima chiarezza’; per non parlare dei terribili ‘principi e regole di condotta’! Si ha coerenza e rigore solo là dove c’è effrazione e contraddizione; si ha chiarezza solo là dove c’è anche oscurità; e i principi e le regole sono fatti per essere violati. È così ovvio da vergognarsi a dirlo”.
E, a proposito del decantato vanto del PCI “partito serio”: “Come ci si può vantare della propria serietà? Seri bisogna esserlo, non dirlo, e magari neanche sembrarlo! Seri o si è o non si è: quando la serietà viene enunciata diventa ricatto e terrorismo!”.

Terrorismo, ecco, esce fuori, anche a questo proposito la terribile parola. Ma che cos’è “terrorismo”, per Pasolini?
Il sottotitolo ideale del titolo della rubrica, scrive sempre in “il perché di questa rubrica” del 13 agosto ’68, “potrebbe essere ‘contro il terrore’“, aggiungendo che l’autorità “è sempr terrore, anche quando è dolce”; e anche la buona educazione è “per sua natura terroristica”, perché fondata su comandamenti negativi e perché finisce per diventare la pretesa di un diritto, sulla cui base esercitare, da adulti, i propri ricatti morali. Questa è la base del terrorismo del mondo borghese, ma “ci sono terrorismi alla destra, clerico-fascista, di questo mondo, e terrorismi alla sinistra”. E, alla sinistra, di terrorismi di questa natura ce ne sono di vario genere: c’è il “terrorismo staliniano … ma anche [il] terrorismo della nuova sinistra” (le “cattive compagnie”, appunto) e, come abbiamo visto, quello moralistico e conformistico, del PCI.
Ecco perché Pasolini ha la piena, dolorosa consapevolezza di essere completamente solo in questa sua missione: “E se dunque mi preparo –in questa rubrica, frangia della mia attività di scrittore- a lottare, come posso, e con tutta la mia energia, contro ogni forma di terrore, è, in realtà, perché sono solo. Il mio non è qualunquismo, né indipendenza: è solitudine.” E’ quasi un grido, il suo:
“Io sono completamente solo”!!!!
“la mia provocatoria indipendenza” è ciò che “fa nascere contro di me tante ostilità” scrive nella rubrica del 4/1/69.
Sì, Pasolini si sente perseguitato, e di fatto lo è (i processi, le accuse vergognose, le incomprensioni e gli attacchi degli intellettuali, anche di quelli che, per collocazione politica, avrebbero dovuto essergli più vicini ): “Io, solo come mi trovo, fuori da ogni codice per non dire da ogni legge, mi arrogo la facoltà di un’assoluta indipendenza di pensiero e di parola: è giusto quindi che la paghi” (20/9/69).
Sempre più solo, dunque, nella sua lotta contro “quel Qualcosa di fatale che è il modo di essere di una nazione (ignorante, provinciale, volgare, riduttiva, vecchia, terroristica, ingiusta)”, perché così ridotta dalla malattia vampiresca di cui è portatrice la borghesia. Sempre più solo nella denuncia e nell’attraversamento di quell’universo orrendo creato dal nuovo capitalismo (che a lui appare già globalizzante) e che si nutre della pestilenza borghese.

Già, a Pasolini la borghesia non appare più semplicemente come una classe economica, ma come qualcosa di altro e di ben più invasivo. E anche a questo proposito, sia detto en passant, si misura il suo allontanamento dall’ortodossia marxista. La borghesia, dunque; l’attacco, anche violento, contro la borghesia sarà “il tema centrale” del suo discorso settimanale impegnato nel disvelamento della VERITA’. Ma che cos’è la borghesia?
“io, per borghesia non intendo tanto una classe sociale quanto unavera e propria malattia. Una malattia molto contagiosa: tanto è vero che essa ha contagiato quasi tutti coloro che la combattono…”
Il borghese è “un vampiro, che non sta in pace finché non morde sul collo la sua vittima per il puro, semplice e naturale gusto di vederla diventar pallida, triste, brutta, devitalizzata, contorta, corrotta, inquieta, piena di senso di colpa, calcolatrice, aggressiva, terroristica, come lui”. Dove, al di là del profluvio incontenibile di aggettivi, sono gli ultimi tre a chiarire inequivocabilmente il senso della malattia borghese per Pasolini, il quale innanzitutto, nella sua polemica, si qualifica non tanto pro qualcosa o qualcuno, ma contro: egli è controborghese! E quanto ormai lontano dalla rigida ortodossia marxista:

“È giunto dunque il momento in cui non è più sufficiente riconoscere la borghesia come classe sociale, ma come malattia: ormai, riconoscerla come classe sociale è anche ideologicamente e politicamente sbagliato … Infatti, la storia della borghesia -attraverso una civiltà tecnologica, che né Marx né Lenin potevano prevedere- si accinge ora, in concreto, a coincidere con l’intera storia del mondo” [visione ad un tempo rivoluzionaria, a fronte del conservatorismo ideologico dell’epoca, e singolarmente preveggente!].
“Sintomo sicuro della presenza del male borghese è appunto il terrorismo, moralistico e ideologico”.
Già, il terrorismo: esso è tutt’uno con la malattia borghese. C’è un terrorismo piccolo-borghese che vive del ricatto fondato “sul suo moralismo, sulla sua ipocrisia, sul suo comportamentismo divenuto norma intrasgredibile” (10/5/69).
Moralismo, comportamentismo normativo, ipocrisia: questa la micidiale miscela che sostanzia il cosiddetto buon senso del cosiddetto uomo medio:
Il buon sensoè “sempre pericoloso e terroristico”, perché “esso è, in una parola, il ‘qualunquismo che si promuove a visione del mondo’ “; e le “persone dotate di ‘buon senso’ … sono potenzialmente dei fascisti. Sono potenzialmente dei fascisti perché sono dei qualunquisti, ed eleggono ad ideale umano l’uomo medio, che è una minacciosa e terroristica astrazione”.
Perché l’uomo medio?
Perché “… l’uomo medio, nell’accezione irrazionale con cui si usa generalmente questa espressione, è praticamente un criminale. Si potrebbe dire che è nel torbido (o se vuoi squallido) ambiente degli uomini medi che maturano le guerre, i delitti contro l’umanità, e ogni grande o piccola repressione”. (29/11/69)

E dunque, la borghesia è terroristica e volgare:
“la volgarità è peggio della lebbra. … La volgarità è aggressiva, ricattatoria, prepotente, possessiva, presuntuosa: essa nasce –nel nostro particolare momento storico- dalla ‘sottocultura’ borghese”. (gennaio 1970).

E poiché la massa degli studenti è prevalentemente di estrazione borghese, anche in loro può covare il germe del terrorismo. Ma questa, si badi bene, è solo una potenzialità, che Pasolini denuncia come un rischio.
In realtà, ben diverso è il giudizio sostanziale che egli dà sul senso e sulla portata del M.S. Sulla sua posizione molti equivoci furono ingenerati dalla distorta o parziale interpretazione della famosa poesia.
Ma sentiamo, a tal proposito, lo stesso Pasolini. Nella rubrica del 17 maggio 1969, così scriveva:
“Proprio un anno fa ho scritto una poesia sugli studenti, che la massa degli studenti, innocentemente, ha ‘ricevuto’ come si riceve un prodotto di massa: cioè alienandolo dalla sua natura, attraverso la più elementare semplificazione. Infatti quei miei versi, che avevo scritto per una rivista ‘per pochi’, ‘Nuovi Argomenti’, erano stati proditoriamente pubblicati da un rotocalco ‘L’Espresso’ (io avevo dato il mio consenso solo per qualche estratto): il titolo dato dal rotocalco non era il mio, ma era uno slogan inventato dal rotocalco stesso, slogan (‘Vi odio, cari studenti’) che si è impresso nella testa vuota della massa consumatrice come se fosse cosa mia. Potrei analizzare a uno a uno quei versi, nella loro oggettiva trasformazione da ciò che erano (per ‘Nuovi Argomenti’) a ciò che sono divenuti attraverso un medium di massa (‘L’Espresso’). Mi limiterò a una nota per quel che riguarda il passo sui poliziotti. Nella mia poesia dicevo, in due versi, di simpatizzare per i poliziotti, figli di poveri, piuttosto che per i signorini della facoltà di architettura di Roma (negli scontri ormai così lontani di Valle Giulia): nessuno dei consumatori si è accorto che questa non era che una boutade, una piccola furberia oratoria paradossale, per richiamare l’attenzione del lettore, e dirigerla su ciò che veniva dopo, in una dozzina di versi, dove i poliziotti erano visti come oggetto di un odio razziale a rovescia, in quanto il potere oltre che additare all’odio razziale i poveri –gli spossessati del mondo- ha la possibilità anche di fare di questi poveri degli strumenti, creando verso di loro un’altra specie di odio razziale: le caserme dei poliziotti vi erano dunque viste come ‘ghetti’ particolari, in cui la ‘qualità di vita’ è ingiusta, più gravemente ingiusta ancora che nelle università. Nessuno dei consumatori di quella mia poesia si è soffermato su questo: e tutti si sono soffermati al primo paradosso introduttivo appartenente ai formulari della più ovvia ars retorica”.

Già, appunto, nessuno si è soffermato ecc. E come avrebbero potuto, come sarebbe stato possibile, dal momento che un altro dei connotati dell’universo orrendo che si andava costruendo in quegli anni, e che puntualmente Pasolini distingue e denuncia, era appunto la cancellazione di ogni residuo della cultura umanistica?
“Il passaggio da una cultura umanistica a una cultura tecnica pone in crisi la nozione stessa di cultura” e genera alienazione (28/12/68).
In uno degli Scritti Corsari (15/7/73), parlando della relazione cultura di massa-borghesia-globalizzazione, scriverà:
“la ‘vera’ tradizione umanistica … viene distrutta dalla nuova cultura di massa e dal nuovo rapporto che la tecnologia ha istituito -con prospettive ormai secolari- tra prodotto e consumo; e la vecchia borghesia paleoindustriale sta cedendo il posto a una borghesia nuova che comprende sempre di più e più profondamente anche le classi operaie, tendendo finalmente alla identificazione di borghesia con umanità”.
L’avvento della comunicazione massificata (e già potremmo diremassmediatica, con l’attacco che Pasolini porta alla Televisione) segna la morte della ricchezza espressiva (e qui sembra quasi di leggere un’anticipazione alle considerazioni del recente saggio di Mario Perniola “Contro la Comunicazione”):
La finta espressività dello slogan” (S. C. 17/5/73), che egli prende a segno emblematico del suo discorso, e che è “mostruosa perché diviene immediatamente stereotipa, e si fissa in una rigidità che è proprio il contrario dell’espressività”, è “la punta massima della nuova lingua tecnica che sostituisce la lingua umanistica”: essa è “il simbolo della vita linguistica del futuro, cioè di un mondo inespressivo, senza particolarismi e diversità di culture, perfettamente omologato e acculturato. Di un mondo che a noi, ultimi depositari di una visione molteplice, magmatica, religiosa e razionale della vita, appare come un mondo di morte”.

Ma, tornando ai rapporti con il Movimento Studentesco, in verità, lungi dall’esserne stato un denigratore, Pasolini ne è stato, per quanto possa suonare strano a causa dell’immagine veicolata, appunto, nel cosiddetto immaginario collettivo, dal gioco perverso della comunicazione, un vero e proprio glorificatore.
Intanto, il conclamato rigetto del principio di Autorità, non solo stabilisce le modalità di comportamento e di relazione del poeta con i giovani contestatori, ma contemporaneamente fornisce l’elettivo terreno di incontro e di condivisione delle idealità di fondo.
La rivoluzione del Sessantotto fu principalmente rivolta contro il ricatto dei padri, e Pasolini da subito, come abbiamo visto, dichiara di abiurare al principio di Autorità: “Un giovane che apra gli occhi oggi alla luce (culturale) non può non vedermi inserito in [una] sorta di Autorità paterna che lo sovrasta. Ebbene, io non voglio ammetterlo. Ecco perché questa rubrica non avrà –almeno nelle mie intenzioni- nulla di autorevole, e io non avrò nessuno scrupolo nello scriverla: nessun timore, intendo dire, di contraddirmi, o di non proteggermi abbastanza” (rubrica di apertura di Caos).
E più avanti, il 9/11/68, espliciterà ancor meglio questa sua volontà di non essere padre: “Quando osservo, con amore o con avversione, con complicità o con rabbia … gli studenti del M. S., un sentimento è continuo e certo: la volontà a non volermi considerare loro padre”.
E Dutshke, Rudy Dutshke, Rudy il Rosso, che terrorizza la borghesia, benché per motivi anagrafici gli possa essere padre, Pasolini lo guarda con “l’occhio del figlio”, pende dalle sue labbra “che dicono novità” e lo chiama “padre mio, capo”, perché, insieme con i suoi “giovani coetanei”, va “per la strada maestra della storia, non per i sentieri”. Altro che sottovalutazione! Altro che denigrazione!
Gli studenti che manifestano contro la condanna a morte di Panagulis gli appaiono come l’unica speranza contro il terrorismo dell’opinione pubblica:
“È l’unica speranza. Il mondo ridotto a una cassa armonica che moltiplica per milioni di volte uno stesso sentimento. L’opinione pubblica –covo del terrorismo, sede deputata della rassegnazione- è sconvolta nei suoi termini logici (pazzeschi) dalla presenza degli studenti che gridano. Dentro l’opinione pubblica c’è dunque ormai una altra opinione pubblica, che lacera e manda in pezzi la prima, esplodendovi dentro. Anche questa seconda opinione pubblica, è vero, ha in sé i germi di un nuovo terrorismo: ma essa sta nascendo, ne è ancora esente: si presenta come speranza, opponendosi alla rassegnazione e al bieco memento mori dell’ufficialità. Il futuro reale forse la contaminerà: ma il futuro ideale, verso cui si proietta, la rende stupenda (mi capisce chi è stato giovane ai tempi della Resistenza). … La loro coscienza si adempie –in una pienezza democratica mai vista finora nel mondo- nella protesta, nella lotta, nell’azione, nel sentimento di giustizia da realizzare”.

Sì, non gli sfuggono i limiti ed i rischi impliciti nei giovani “rivoluzionari” e, addirittura, il terreno comune che possono arrivare a condividere con il tecnicismo neocapitalistico trionfante, attraverso la cancellazione del passato:
“il ‘rapporto sacrilego con il passato’ del tecnico [che stravolge le città] e quello del rivoluzionario” gli sembrano coincidere; in Italia, p. es., l’apparente analogia si coglie “in certo atteggiamento drastico dei giovani, che condannano indiscriminatamente ‘tutto’ ciò che è vecchio in nome della rivoluzione, facendosi così portatori di un valore neocapitalistico: la sostituzione totale del nuovo potere industriale ai vecchi poteri. Oppure nel culto che hanno certi gruppi di giovani per il lavoro collettivo, d’equipe! Come se appunto si trattasse di una collettivizzazione del lavoro di tipo rivoluzionario e popolare, mentre si tratta proprio di una richiesta di spersonalizzazione da parte della cultura di massa” [oggi, potremmo dire, da parte della matura postmoderna mitologia del progetto che pretende di espropriare e sostituire il soggetto] (22/3/69).
E stigmatizza: “puritanesimo rivoluzionario e puritanesimo industriale si identificano, e l’amore per la bellezza viene considerato peccato” (22/3/69). Avendo già in precedenza osservato che l’esplosione industriale neocapitalistica cancella le storie particolaristiche in ogni parte del mondo, in quanto esse “si vanno estinguendo e perdendo in una storia generale e comune: gli stili confluiscono, stingendo e divenendo sopravvivenze,in uno stile unico: cioè quello neocapitalistico, stupido, pretenzioso, e in fondo anche povero” (1/3/69). E a noi sembra quasi di leggere la critica puntuale e devastatrice dello Jameson del saggio sul Postmoderno: Pasolini certo non usa questo termine, ma sono proprio le basi del postmoderno che egli sta attaccando insieme con il neocapitalismo!

In quest’ambito, sia detto di passaggio, si inserisce anche la critica pasoliniana alla nuova avanguardia e la celebrazione, di converso, del valore iperstorico della poesia. Riprendendo la questione dell’intellettuale, egli scrive: “Dov’è l’intellettuale, perch e come esiste?”; e così si risponde il 13/8/68:
“Ora l’egemonia culturale, che per circa un ventennio è stata detenuta dal PCI, è passata nelle mani dell’industria.
Così che la risposta … potrebbe essere, oggi, la seguente: ‘L’intellettuale è dove l’industria culturale lo colloca: perché e come il mercato lo vuole’ ”.
Naturalmente, questa risposta riguarda solo la figura di un “intellettuale ‘medio’ e quindi astratto”, ogni eccezione essendo possibile ed augurabile. Ma ciò che interessa è:
- in prospettiva, la lucida consapevolezza di una tendenza ai nostri giorni divenuta tragica e generalizzata norma e consuetudine;
- l’attacco che Pasolini, sulla base di queste premesse, sferra alla neoavanguardia e, indirettamente, all’universo grottesco del postmoderno [anche se mai lo cita come tale]: “lo scrittore caro all’industria culturale, non è solo lo scrittore che produce falsi bei romanzi … ma è … anche lo scrittore d’avanguardia. Anzi, i primi scrittori a essere scrittori di ‘potere’, completamente inventati e lanciati dall’industria culturale, sono stati appunto gli scrittori d’avanguardia (il Gruppo ‘63, testé defunto)”.

Passa quindi egli ad analizzare contrasti e convergenze tra neoavanguardia e Movimento Studentesco:
“la fatuità dell’avanguardia era esclusivamente letteraria. Infatti non ne è uscito un solo libro buono. Il M. S. ha travolto la N. A., ossia una contestazione puramente verbale (e quindi letteraria) non escludente la malafede (e anzi conclamante la malafede come uno strumento necessario ai propri fini), attuata da scrittori la cui accettazione del ‘sistema’ e quindi dell’ ‘integrazione’ , era il fondamento ideologico paradossale. La Rivoluzione di Maggio ha dunque travolto la fatuità del disimpegno imponendo una nuova specie di impegno … I neo-avanguardisti (forse in nome di quella loro vantata malafede ‘dadà’, mistificante per eccesso di demistificazione) hanno accettato la Rivoluzione di Maggio con molta disinvoltura: vi si sono bellamente identificati. E poiché, naturalmente, il terrorismo è insito in ogni movimento programmato per una volontà non escludente la malafede, come paradosso totale; e poiché un certo terrorismo è anche insito in ogni movimento fondato sul moralismo (la spinta a rivendicare in modo radicale la purezza dell’ortodossia, nella fattispecie marxista), i due terrorismi si sono fusi in una specie di ‘monstrum’. Per cui molti contestatori globali hanno creduto di riconoscere il loro correlativo letterario nella letteratura d’avanguardia di moda, come momento puramente eversivo di cui essi non erano in grado di riconoscere la pura e semplice vanità letteraria: e i neo-avanguardisti hanno assurdamente fatto loro la contestazione pragmatica, il mito castrista dell’azione ecc., facendo lo gnorri sulla propria ideologia per cui la contestazione era stata solo e unicamente linguistica o verbale” (da Scritti Corsari, Dentro la cultura, 17/1/70).

Ma, al di là della pur lucida consapevolezza dei limiti, esaltante è, in definitiva, la glorificazione, come dicevamo, del M.S.:
“È il popolo italiano -si chiede- in grado di accepire le nozioni di autogestione e di decentramento? Ha mai vissuto, il popolo italiano, non dico un momento di democrazia reale, ma il desiderio di una democrazia reale? Ebbene … sì. Nel 44-45 e nel ’68, sia pure parzialmente, il popolo italiano ha saputo cosa vuol dire -magari solo a livello pragmatico- cosa siano autogestione e decentramento, e ha vissuto, con violenza, una pretesa, sia pure indefinita, di democrazia reale. La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratiche-rivoluzionarie del popolo italiano. In mezzo c’è silenzio e deserto: il qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche, papaline”.

Bene: questo dovevamo, per rispetto della verità, a Pasolini ed al Movimento.
Ma mi piace chiudere queste note, richiamando la celebrazione, questa sì priva di ogni titubanza o ripensamento, del valore rivoluzionario della poesia:
“… l’opera di un autore è come la faccia di un negro. È con la sua stessa presenza, con il suo ‘esserci’, che è rivoluzionaria. E ciò, secondo me, non avviene affatto a livello sovrastrutturale, ma strutturale [e qui noi cogliamo la vera chiave del suo allontanamento, della sua solitudine rispetto al comunismo]. Infatti l’intera struttura è messa in ballo e in pericolo, dal solo ‘esserci’ della faccia di un negro o dell’opera di un autore”. E questo perché la diversità è sostanziale: la poesia “Non è merce”! “La poesia infatti non è prodotta ’in serie’ [ecco la ragione profonda della sua avversione radicale alla neo-avanguardia]: non è dunque un prodotto”.
La poesia, inoltre, “non è ‘valore metastorico’… Essa è se mai iperstorica, perché la sua carica di ambiguità non si esaurisce in alcun momento storico concreto”.

Dopo la sua morte, dopo la sua esecuzione, le spoglie di Pasolini, le ceneri di Pasolini, hanno visto gli avvoltoi volteggiare su di esse; esse sono state contese un po’ da tutti: dagli estremisti di sinistra e da quelli di destra, passando per i veterocomunisti, i radicali e quant’altri mai non ne avessero alcun diritto.
È mia convinzione che Pasolini, che odia il potere ovunque si trovi (poiché “il potere è sempre di destra” –21/12/68-); che rifiuta e respinge anche per sé ogni riferimento e garanzia derivanti dal principio di autorità; Pasolini, che “negli atteggiamenti veramente spontanei e naturali della gioventù moderna” (il suo culto dell’ autenticità e dell’ingenuità) coglie analogie con gli anarchici italiani storici, commovendosi di fronte alla coincidenza di atteggiamenti che non conoscono compromessi o “vie d’uscita, flessioni e debolezze, davanti all’ ‘autorità’ e alla ‘repressione’ “(12/4/69); che si domanda: “che senso ha vivere, se non essere fedeli, disperatamente e magari ottusamente, alla prima e rozza idea di libertà che ci spinge da giovani ad agire?", e che orgogliosamente dichiara: “Parlo da utopista, lo so. Ma o essere utopisti o sparire”; è mia convinzione, dicevo, che questo Pasolini ha profondi punti di contatto con il sentimento anarchico piuttosto che con qualsiasi altro.

Ma neanche dagli anarchici, in quanto sia pur vago soggetto politico, egli può essere rivendicato in maniera esclusivistica. Il suo pensiero, la sua opera, e la sua eredità, in realtà, sfuggono e si sottraggono ad ogni mutilante appartenenza politica. Egli appartiene all’intera umanità, ma propriamente, si badi bene, a quella umanità non ancora liberata e per la cui liberazione egli ha lottato. E solo i poeti, in definitiva, come lui diversi ed ambigui (diversi ed ambigui –sia chiaro- non per altro, non per altro che per non essere asserviti al culto omologante della merce), non metastorici ma iperstorici, che come lui conservano un “elemento anarchico” nella propria “ideologia” (S.C. 7/1/73/) hanno il diritto di riconoscerlo e di chiamarlo, in perpetuo, fratello.

intervento dagli "Atti del Convegno" di Frosinone

il neretto che evidenzia alcuni termini pasoliniani è dovuto ad intervento del redattore
 


 
Pasolini trentanni dopo 
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Michele De Gregorio
[ m.de.gregorio@libero.it ]
 
PASOLINI E LA POLITICA
 
1 – Come Pasolini vede la politica


1.a – La poetica di Pasolini

Sui rapporti tra Pasolini e la politica è stato scritto molto più per partecipare alle infinite polemiche cui l’attività del Nostro ha dato vita, che per esaminare il problema con ottica sistematica e storica, come invece nell’ambito dei limiti di tempo che mi sono concessi è mia intenzione fare questa sera. Le difficoltà peraltro dell’odierna problematica politica, in un momento complesso come quello presente, contribuiscono a rendere ancora meno facile il compito.
Credo comunque che sia possibile e necessario oggi accostarsi ad un autore pur così multiforme e presente nell’odierna cultura, tramite un approccio rivolto appunto ai suoi problemi di fondo, “non partecipante”; e insieme “storicistico” dicevo. Evidenziando però le virgolette, che stanno a significare l’impossibilità di considerare insieme estranee alla ricerca le idee del ricercatore stesso e le sue profonde convinzioni, anche quando si parlasse di Carlo Magno o di fatti lontani.
Dividerò per chiarezza il discorso in tre parti, esaminando prima come Pasolini vede la politica; poi come la politica vede Pasolini; e successivamente aggiungendo altre considerazioni sul rapporto tra i due poli del discorso. Già Marcello Carlino ha egregiamente affrontato gli aspetti letterari della poetica pasoliniana. Io vorrei qui richiamarne solo alcuni tratti essenziali, utili ai fini del tema che ci proponiamo di esaminare, ricordando che il terminepoetica si intende non riferito al semplice far poesia, ma al creare, anche nel cinema, nel teatro, nell’attività culturale in generale.

L’inutilità della poesia chiaramente teorizzata inTrasumanar e organizzar, pone Pasolini al di fuori di ogni ottica di attività poetica, ma anche letteraria o cinematografica, impegnata o comunque rivolta ad accostarsi al presente al fine di contribuire a future migliori prospettive. Tensione costante l’autore invece esercita nella ricerca di un ideale di purezza perduto, immobile nel passato, e da cui la storia piuttosto irrimediabilmente ci allontana.
Tale purezza non è eroismo, non è virtù, bensì stato d’innocenza che non conosce distinzione tra bene e male; che è così perché é così, non perché sia stato un obiettivo desiderato e conseguito. Stella, di cui Accattone si innamora, bella, prosperosa, vergine, figlia di prostituta, che conduce una vita lineare e innocente di lavoro, è pronta con semplicità a prostituirsi o a continuare la sua vita, secondo le necessità e i desideri del suo uomo.
La condizione umana è la rottura di tale stato originario, il nascere del problema, della consapevolezza, della storia. La vita incarna in sé un peccato originale di separazione da un tutto dato e non cercato, le cui origini letterarie sono nei miti orfici, nel pensiero di Anassimandro, ma che Pasolini ha certo assorbito col latte materno attraverso la cultura cristiana.
Adamo ed Eva mangiando il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male hanno per la prima volta infranto un’unità inconsapevole caratteristica del loro stato, hanno distinto soggetto e oggetto, conoscente e conosciuto: da ciò la loro condanna alla sofferenza. Ed aveva ragione il serpente a dire che il divieto nasceva dal fatto che Dio non voleva che essi, mangiando il frutto, diventassero come lui: Dio aveva imposto quel divieto perché appunto egli è infinita conoscenza e quindi infinita sofferenza. O non teniamo presente la natura umana e divina del Cristo? Il divieto era un atto di amore verso gli uomini, per tener lontano da loro il dolore.
Gli animali non hanno conosciuto peccato di origine. Destino dell’uomo è invece la rottura dell’eterno presente, proiettarsi nel futuro. Recando però sempre con sé il proprio passato, il proprio peccato, senza possibilità di redenzione. La ricerca della propria autenticità andrebbe pur condotta verso le origini irrimediabilmente perdute: ma proprio cercarle, è già perderle. Perché è farne oggetto della propria ricerca, allontanarle in una dimensione che è oggettiva, quindi esterna rispetto a se stessi.
Ne L’usignuolo della chiesa cattolica già fuoriesce tale tematica: il poeta bambino può illudersi di cogliere nel canto dell’usignuolo l’uno–tutto, l’innocenza; e nell’identificazione con esso dimenticare la propria individualità. Ma la giovinetta dolcemente e brutalmente lo richiama alla sua realtà: Povero uccelletto, dall’albero, tu fai cantare il cielo. Ma che pena udirti fischiettare come un fanciullino! Tu per la tua innocenza vorresti identificarti con il cielo che canta; ma il cielo che canta sei tu, un misero fanciullino. Adamo dopo il peccato può anche cercare il Bene: troverà solo il suo bene e la certezza della sua sofferenza nel cercarlo.
L’uomo dopo il peccato originale è tensione inesausta, preghiera inappagabile, desiderio di ricongiungere ciò che è irrimediabilmente scisso.
Il disprezzo di Pasolini verso la filosofia, orgogliosa dei fantasmi costruiti dalla mente, non impedisce però la permeabilità del poeta verso tematiche esistenzialistiche heideggeriane o direttamente kierkegaardiane: l’angoscia dell’impossibile ricerca di Dio si chiude con la disperazione per la sua inafferrabilità; e quando nel fondo della disperazione Dio ti tende la mano, e il socratico sapere di non sapere ti sembra possa costituire comunque una certezza e l’inizio di una ripresa, ti ritrovi poi davanti un Dio che è un uomo: Gesù che è ucciso, e diventa il Cristo e risorge solo se tu ci credi. Dio è insomma una creazione umana.
Dio ha bisogno degli uomini che lo adorino, come questi di Dio. Il patto biblico non è una concessione al popolo ebraico. Dio dà senso alla vita dell’uomo; ma in se stesso è un puro vuoto, il nulla eterno: egli vive della vita dell’uomo. “O immoto Dio che odio/ fa che emani ancora/ vita dalla mia vita/ non m’importa più il modo” (da Il pianto della rosa).
Con buona pace di Benedetto Croce, in questi versi disperati pensiero e poesia fanno tutt’uno.
Il mito pasoliniano di uno stato originario felice e acritico denota una radice psicanaliti- ca fin troppo evidente perché ci si debba qui a lungo trattenere. L’attenzione per la figura di Edipo; il fatto che ad impersonare il ruolo di Maria anziana nel Vangelo secondo Matteo sia la madre stessa di Pasolini, ne sono una molto diretta testimonianza.
L’unità originaria sarebbe, da questo punto di vista, quella del grembo materno. La nascita la sua rottura, e quindi il peccato. Il rapporto sessuale una ricerca rimossa della madre, del ritorno. L’omosessualità lo spostamento della libido su un oggetto diverso dalla donna–madre, nell’inconscio desiderio di attenuare il senso del peccato.
Nico Naldini in Cronistoria riporta il racconto di Pasolini del primo emergere di queste pulsioni, verso i quattro anni: Dei ragazzi che giocavano nei giardini pubblici di fronte a casa mia, più di ogni altra cosa mi colpirono le gambe soprattutto nella parte convessa interna al ginocchio, dove piegandosi correndo si tendono i nervi con un gesto elegante e violento…Ora so che era un sentimento acutamente sensuale.
Inutile quindi la poesia, inutile ogni costruzione razionale o artistica se diretta all’edificazione di un futuro o a dare un senso logico alla storia. Non c’è futuro, non c’è storia, solo una luce primordiale e il suo rimpianto.

1.b L’approccio alla politica

Quando un personaggio che ha dato il meglio di sé nell’attività letteraria o filosofica si impegna direttamente anche nel campo della politica, si rende necessario cogliere i rapporti di mediazione che legano la creazione poetica o l’esercizio della ragione filosofica alle prospettive di intervento nel sociale. La politica non può non perseguire infatti fini di pratici miglioramenti. Più avanti ci soffermeremo su come Pasolini abbia trasportato, per quanto possibile, direttamente e pressoché senza alcuna mediazione i principi della sua poetica nella politica.

Egli scrive su Vie Nuove che il marxismo è l’unico in grado di offrire una cultura vera, una cultura che sia moralità e interpretazione dell’intera esistenza. Resteremmo però delusi se cercassimo nelle sue opere una ricerca o un approfondimento dottrinario a sostegno di tale proclamata verità. Come si è infatti tenuto lontano dalle astratte discussioni sui generi letterari, così egli ha avuto a noia e non celato disprezzo le astrattezze dei filosofi, marxisti compresi.
La verità del marxismo nasce come immediata dalla realtà della fabbrica, delle periferie urbane, delle condizioni di vita nella società neocapitalistica. Fa tutt’uno con tale realtà, con il solo fatto che essa esista. Ogni ricorso a storia e ragione non può che falsare qualcosa la cui autenticità non è negabile.
È insomma una fede. A base empiristica semmai, e ovvia, come quella di S. Francesco. Se esistono l’acqua, il lupo, il sole, la luna, è possibile negare che esistano come parte di un tutto? Che questo tutto sia infinito, e che sia Dio?
Se sto in una sala, so che fuori c’è una città, i continenti, il sistema solare, l’universo conosciuto con il suo diametro di quattordici miliardi di anni luce. Oltre non so cosa ci sia, ma qualcosa dovrà pur esserci perché il concetto stesso di limite, per quanto ampio, mi rimanda a ciò che è al di là di esso. Dio dunque è in noi che lo pensiamo; e noi siamo in Dio come parte della sua immensità. Ma la sua infinitezza è anche alterità nei nostri confronti, assoluta trascendenza e inattingibilità.
Che senso ha, tornando a Pasolini, stare troppo a discutere sulla natura dell’ingiustizia sociale, se è tutto così evidente nel marxismo? Se vivi in fabbrica o in una periferia urbana cosa mai potrà aiutarti a capire, ad esempio, il principio di solidarietà nei rapporti tra le classi sociali proclamato dalla Rerum Novarum?
E che senso ha lottare per un riscatto alla fine (molto nebulosa) della storia, come regalo dello scorrere dei tempi che, fin quando vi saranno l’uomo e lo stato, sarà oppressione ed ingiustizia? Il mondo neocapitalistico e socialdemocratico ti opprime non meno di quello capitalistico, e ottunde in più la coscienza del tuo essere sfruttato. Dello stato sovietico Pasolini ha una concezione molto più attenta e disincantata di quella pur contraddittoria, ad esempio, di Sartre, per poterla offrire come obiettivo della lotta.
Della contestazione sessantottina a sua volta egli sottolinea la posizione piccolo borghese degli studenti, nello scontro con i poliziotti figli del popolo. Reintervenendo dopo la nota polemica con Franco Fortini, chiarisce che non aveva avuto intenzione di svalutare la lotta studentesca. Come lotta, però, e critica dell’esistente in quanto tale, non certo per una presunta verità degli obiettivi proposti. E allora cos’altro, quale assoluto valore ci resta?
Luteranamente l’uomo porta nel suo impegno di riscatto la sua stessa natura connotata dal peccato originale, che lo conduce al male e a sfruttare il prossimo. In politica quindi non ha proprio senso aspirare ad obiettivi irraggiungibili, puntare alla perfezione del comunismo o di ogni altra costruzione. Pasolini trova naturale credere piuttosto a ciò che di primigenio e felice ha connotato l’origine umana stessa, l’uno-tutto che l’uomo non può determinare ma da cui è determinato, il grembo materno da cui ci siamo separati con la colpa della nostra nascita. La grazia, per intenderci, che il Dio di Lutero elargisce solo agli eletti secondo un suo imperscrutabile disegno.

In Pasolini dunque, come sopra accennavo, le mediazioni tra la poetica e la concezione politica quasi non esistono. La prima è come se fosse per intero trasportata nella seconda.
Nelle Lettere luterane egli dà vita alla felice metafora del Palazzo, di cui sono a tutti gli effetti coinquilini, insieme agli altri, il Pci, la Cgil, la sinistra tutta…
L’operaio è pienamente assimilato alla cultura borghese, è un aspirante borghese, e il suo partito rispecchia e legittima tale caratteristica. L’immoralità del neocapitalismo e della socialdemocrazia ne annullano ogni residuo valore umano.

È il sottoproletario il solo che ancora non ha visto morire in sé ogni barlume di umanità. Nelle periferie degradate urbane il linguaggio usato, l’essere dei ragazzi di vita seduti fuori a squallidi bar in cerca di realizzare il colpo della giornata, rivelano la devastazione effettuata nelle loro menti e sui loro corpi dalla miseria materiale, e insieme dal senso comune borghese più becero profondamente assimilato.
Ma in loro la fiammella è ancora accesa. Non si manifesta certo in un impegno di lotta o di riscatto, totalmente assente; non in qualcosa che si vuole; ma in qualcosa che c’è, che rimane di una primitiva genuinità, precedente la consapevolezza: un misto di ingenuità e aggressività, come nei bambini.
È il residuo di una felicità che non si sa di avere, a pena di perderla; che si rivela magari nelle gambe, soprattutto nella parte convessa dietro al ginocchio dei ragazzi che giocano fuori casa…
Il sottoproletariato di Pasolini non è dunque quello di Adorno e della scuola di Francoforte. Per Adorno la dialettica tra operaio sindacalizzato e padrone, tra USA e URSS, non è scontro assoluto ma differenziazione di opposti destinata a conoscere, hegelianamente, la mediazione e l’unità nella sintesi (l’accordo politico insomma). E’ il sottoproletariato, non il proletariato organizzato, ad essere portatore di una nuova e più radicale dialettica di totale alterità rivoluzionaria, in cui si vince o si muore. I francofortesi hanno dunque speranze, pongono dei nuovi obiettivi alla lotta rivoluzionaria dei disperati.
Non così Pasolini. Le ceneri di Gramsci, pubblicate nel ’57, costituiscono il punto più alto in cui si esprima la poesia e insieme la consapevolezza politica dell’autore, in particolare nel suo confronto con il comunismo.
Davanti al sepolcro dell’uomo che è alla radice del fascino che l’impegno politico esercita su di lui, Pasolini non è sollecitato, ancora una volta, ad approfondire le ragioni filosofiche delle sue certezze, ma ad indagare sulla comune radice umana, sulle affinità e differenze tra se stesso e Gramsci. E ciò è ottenuto attraverso la poesia, che gli consente di giungere ad un livello di chiarezza e insieme di sintesi di cui essa più che la filosofia è capace.

Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
con te e contro di te; con te nel cuore,
in luce, contro te nel buio delle viscere,
…………………………………………….
Attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione

la sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza; è la forza originaria

dell’uomo, che nell’atto s’è perduta,
a darle l’ebbrezza della nostalgia,
una luce poetica; ed altro più

io non so dirne…


Altro più io non so dirne. La nostalgia e il rimpianto precludono ogni possibilità e il desiderio stesso della costruzione razionale.

Anche Il pianto della scavatrice, con la stessa chiarezza anche se con minore forza poetica, affronta analoghe tematiche. La scavatrice non è il simbolo della speculazione capitalistica che stravolge vita e abitudini, e cui vada sostituita una politica di razionale sfruttamento delle aree fabbricabili: ma del progresso in sé di ogni colore politico, della storia, del cambiamento stesso.

Alberto Asor Rosa, nel suo Scrittori e popolo (Einaudi. 1965), aggiunge il suo nome ai critici della concezione pasoliniana. Dopo aver ricordato, in particolare, alcune affermazioni di Pasolini stesso in un’intervista del ’59: …io credo soltanto nel romanzo ‘storico’ e ‘nazionale’, nel senso di ‘oggettivo’ e ‘tipico’…dato che destini e vicende puramente individuali e fuori dal tempo storico per me non esistono: che marxista sarei? Asor Rosa dunque afferma: La verità è che di tutte le possibili varianti marxiste, Pasolini ha colto, magari attraverso la mediazione degli interpreti ufficiali comunisti, unicamente il tema gramsciano del nazional-popolare, che è infatti il solo a contare qualcosa nella sua opera narrativa.
Probabilmente non sono presenti in Asor Rosa alcune categorie utili per comprendere a fondo il marxismo di Pasolini, che egli infatti definisce … quanto di più curioso ed artefatto si sia potuto incontrare in questo campo, negli anni ancora molto a noi vicini del progressismo letterario.
Che il romanzo pasoliniano si possa definire storico e nazionale, e che possa entro ben definiti limiti anche esser rapportato al realismo socialista, mi pare fuori di ogni dubbio. Ma inquadrarlo unicamente nell’ambito del tema gramsciano del nazional-popolare mi sembra significhi non comprenderlo per intero. Se ad Asor Rosa la poetica pasoliniana sembra quanto di più curioso ed artefatto si sia potuto incontrare…è proprio, con ogni probabilità, perché in essa manca in maniera evidente l’intento pedagogico, tipico del realismo socialista e del concetto di nazional-popolare. In Pasolini l’opera poetica è nazionale in quanto tipica; e popolare perché è il sottoproletariato ad esserne protagonista, non certo perché essa serva a trasmettere la verità socialista nella coscienza popolare attraverso l’opera del partito e dell’intellettuale organico. Sembra essere, dunque, proprio una concezione della politica e del marxismo come rimpianto a fuoriuscire dai canoni interpretativi di Asor Rosa (e non solo suoi), e a precludergli la piena comprensione del mondo politico pasoliniano.


2 – Come la politica vede Pasolini


Quello in cui ci si imbatte, passando a questo nuovo punto di vista, è un elemento di stridente contraddizione con quanto fin qui detto: la politica infatti non può essere solo denuncia e ideologia, ma deve avere in se stessa un essenziale momento propositivo e di concreta costruzione. Sotto tale aspetto tutto l’impianto pasoliniano è destinato dunque a confliggere con la politica.
E non ci si riferisce, ovviamente, solo alla politica della DC, emblema stesso del sistema da combattere; o a quella dei fascisti, nemici di sempre; ma dello stesso partito comunista. Sul quale soltanto ci soffermeremo non solo per brevità, ma anche perché ovviamente di gran lunga il più significativo per Pasolini; e senza minimamente aspirare ad esaminarne la politica in maniera organica, ma svolgendo solo alcune considerazioni relativamente ai temi che ci interessano.

Se quello tra Pasolini e il PCI è stato, da entrambe le parti, un rapporto di amore e odio, punti di convergenza ce ne saranno stati certamente, e sostanziosi. Due vorrei sottolinearne in particolare. Il primo è costituito dal carattere di certezza oggettiva che rivestono per entrambi le rispettive convinzioni. Per Pasolini abbiamo parlato di fede politica; il pensiero di Togliatti sembra presentare a sua volta tutte le caratteristiche della costruzione razionale, ma a definirlo anche una fede concorre non solo l’intento pedagogico di porgerlo come tale alle masse, ma anche la totale indisponibilità a metterne in discussione i presupposti più profondi.
Lasciamo parlare Togliatti stesso: Alle volte, però ci sentiamo dire, in tono di accusa, che siamo anche noi una religione, anzi, persino una chiesa. Ciò è vero nel senso che abbiamo una fede, cioè la certezza che la trasformazione socialista della società, per cui combattiamo, non è soltanto una necessità, ma è un compito che impegna, con la certezza del successo, la parte migliore dell’umanità. (Da Il destino dell’uomo. Conferenza tenuta a Bergamo il 20 marzo 1963. In Rinascita, 30 marzo 1963).
Il secondo punto di convergenza può essere identificato nella critica radicale al presente, allo sviluppo capitalistico, alla società contemporanea ed alla sua cultura; nonché alle ingannatrici e sottilmente pericolose prospettive offerte dalla socialdemocrazia, considerata solo volto presentabile della impresentabile realtà neocapitalistica.

Molto forti, e forse più forti, sono però le differenze. Tutto l’impegno politico di Togliatti è rivolto alla proposta, alla costruzione. Niente è più lontano della retrospettiva e del rimpianto dal suo spirito positivo. La qual cosa implica corrispondente attitudine al compromesso, e quantità rilevanti di realismo se non di spregiudicatezza (dote quest’ultima necessaria peraltro a sopravvivere a diciotto anni di quotidiana familiarità politica con Stalin).
Tale differenza rende anche diversa, nei due soggetti, la comune radicalità delle critiche al presente (il secondo dei punti in comune cui si accennava). Nel senso che mentre quella di Pasolini sfrutta tutta l’acutezza della sua genialità e spazia da nulla ostacolata, quella di Togliatti è certamente invece meno libera, impacciata com’è, ad esempio, da un certo perbenismo estraneo al poeta e necessario invece al politico, indispensabile alla costruttività della sua azione.
Per non parlare di un non tenue conservatorismo culturale. Tema scottante, ad esempio, l’omosessualità. Pasolini si iscrive al PCI nel 1947. Viene accusato di corruzione di minorenne (sarà poi assolto) il 30 settembre del ’49. È espulso però immediatamente, dopo la denuncia, per indegnità morale, con un documento in cui si evidenziano ancora una volta le deleterie influenze di certe correnti ideologiche e filosofiche dei vari Gide, Sartre e di altrettanto decantati poeti e letterati, che si vogliono atteggiare a progressisti, ma che in realtà raccolgono i più deleteri aspetti della degenerazione borghese.
Pasolini reagisce con una lettera, in cui dichiara di essere e restare sempre comunista, nonostante voi. In effetti voterà sempre PCI. E il carattere di fede della sua adesione al comunismo è ancor più testimoniato dal fatto che, due anni prima della sua iscrizione, proprio i comunisti delle brigate Garibaldi del Friuli gli avevano barbaramente ammazzato il fratello Guido cui era legatissimo. Era partigiano. Della brigata Osoppo però, aderente al Partito d’Azione; e soprattutto aveva la colpa di essere contrario, come gli altri del comando della sua brigata (anch’essi passati per le armi), alla sottrazione del Friuli all’Italia perché passasse a far parte della Jugoslavia socialista.
Ma tali vicende, pur profondamente sentite, sono evidentemente considerate da Pasolini troppo personali per intaccare l’oggettività della sua fede politica.

Le stesse motivazioni dell’espulsione dal PCI toccano un altro tema delicato, quello della libertà dell’intellettuale nei confronti della struttura del partito. Pochi anni dopo, nel 1951, sono espulsi dal PCI due parlamentari per dissensi sulla linea politica. Togliatti li definisce due pidocchi, che anche un cavallo di razza può avere nella sua criniera. I due pidocchi sono Aldo Cucchi, medico, capitano dell’esercito, fondatore e organizzatore di reparti partigiani, comandante della 62° brigata Garibaldi; e Valdo Magnani, laurea in filosofia e scienze economiche, promosso capitano per meriti di guerra, medaglia di bronzo al valor militare, commissario politico nelle divisioni Garibaldi. Eletti entrambi, come si diceva, deputati al parlamento.
Nello stesso anno Elio Vittorini lascia il PCI, dopo le aspre polemiche con Togliatti ed Alicata sul rapporto arte – politica, che già avevano portato alla chiusura della sua rivista Il Politecnico.

La politica, dunque, anche quella comunista, non era certo attrezzata per favorire un rapporto positivo con Pasolini. Tutto trasuda disprezzo e disamore per gli uomini, conoscenza superficiale e deformata della realtà, morboso compiacimento degli aspetti più torbidi di una verità complessa e multiforme. Questo giudizio su un capolavoro come Ragazzi di vita, pronunciato mezzo secolo fa, nel 1955, non si intende certamente farlo pesare ancor oggi sulle spalle di chi allora lo pronunciò (l’on. Giovanni Berlinguer). Lo si pone piuttosto a testimonianza di una incompatibilità tra le linee della politica culturale del realismo socialista ed il nostro autore.
Eppure, qualcosa di forte che ha legato e lega Pasolini e i comunisti doveva pur esserci. Ne abbiamo già fatto cenno. Avviamoci alla conclusione cercando di mettere meglio a fuoco il problema.


3 – I motivi di un legame


Vorrei innanzitutto rilevare due dati di fatto, esponendoli avalutativamente nella loro nuda storicità per poi ricavarne solo qualche considerazione utile al nostro discorso.
Il primo: da circa trenta anni in Italia i comunisti sono privi del comunismo. E non ci si riferisce qui, ovviamente, a una qualche struttura socio-politica realizzata, ma all’ideale stesso di comunismo.
Per intenderci: con Togliatti le idee sono state a riguardo sempre molto chiare. I sacri testi, dal partito interpretati, ne costituivano la teoria; l’Unione Sovietica il conseguente modello di costruzione.
Con Berlinguer tutto finisce. Le sole certezze a proposito sono in negativo: di certo sappiamo che l’URSS non è più il modello; e che il comunismo in Italia lo si vuol edificare all’interno del quadro democratico-costituzionale, nemico tradizionale dichiarato del marxismo. Né obiettivo legittimo è la socialdemocrazia: Bad Godesberg resterà sempre, per Berlinguer come per i comunisti italiani, il nome di una sconfitta e di una ritirata. Fine della doppiezza.
E inizio della nebbia. Definire in qual modo possano essere tra loro resi coerenti comunismo e democrazia viene rimandato ad una improbabile terza via, la cui esistenza è data per certa (il comunismo non vive senza certezze), ma che ancora oggi resta indefinita.
Per risolvere tale problema che riguarda certamente anche loro, non sono bastati, pur dopo lo scioglimento del PCI, quattordici anni al Partito della Rifondazione Comunista e sette al Partito dei Comunisti Italiani. E anche per loro la democrazia costituisce certamente un valore irrinunciabile.
E anche per loro si tratta, sarà forse opportuno ricordarlo, di confrontarsi con un’idea di comunismo che è distruzione dello stato; con un concetto di stato che comunque, anche quello sedicente democratico, finché esiste è sempre considerato dittatoriale ed oppressivo; con la dittatura del proletariato; il partito unico; la fine delle libertà democratiche: tutte cose che costituiscono obiettivo delle lotte e che il processo storico verso il comunismo rende indispensabili.
Per Togliatti, come per Gramsci, la democrazia è la via per la presa del potere da parte del proletariato, che lascerà il posto alla successiva costruzione del socialismo e della società comunista. Se invece si vuol essere insieme comunisti e democratici, non è possibile evitare il problema di ricondurre tutto ciò entro un disegno coerente. Evitando con cura la socialdemocrazia…

Il secondo dato di fatto cui si accennava è che, per più o meno trenta anni, tale situazione non ha affatto impedito né impedisce ai comunisti di sentirsi ed essere considerati tali, né tanto meno di far politica. (Per onestà intellettuale è doveroso un riferimento personale: il PCI è stato, fino allo scioglimento, anche il partito di chi vi parla. Oggi lo è quello dei DS).
Ancora una volta, non è certo questa la sede per esporre organicamente tutte le considerazioni che questi due dati di fatto, che mi sembrano storicamente innegabili, pur meriterebbero. Su qualche elemento dobbiamo però, anche se problematicamente, cominciare a riflettere, almeno per chiarirci qualche punto del tema che questa sera siamo chiamati ad affrontare.
Credo infatti si ponga qui con forza il problema dell’identità comunista: che essa riposi sulla costruzione di ben definite e razionali prospettive e forti obiettivi per il futuro, è stata sempre una diffusa e condivisa certezza. Che però non mi pare, a questo punto, abbia un sufficiente riscontro nella realtà. Non certo nel senso che ideologia e programmi non ci siano stati. Non si intende in questa sede fare valutazioni complessive sulla validità o meno delle prospettive politiche dal comunismo offerte in Italia, e sulle pratiche conseguenze che esse hanno comportato: che conseguenze positive ci siano state nel nostro paese, peraltro a lungo ed essenziali, lo si può cogliere anche solo guardando al contributo del PCI togliattiano alla fine di un’inetta monarchia, alla stesura della carta costituzionale, e al democratico avvio della nostra vita repubblicana.
Ciò su cui va rivolta qui l’attenzione è invece solo se l’ideologia e i programmi, dalla ragione elaborati, costituissero poi il principale fondamento dell’identità politica dei comunisti.
Se così fosse sarebbe innanzitutto difficile spiegarsi, per i motivi fin qui esposti, il fascino che fortemente esercita ancora oggi sui comunisti la figura di Pasolini stesso. Ovviamente non solo su di essi la personalità di questo grande e poliedrico intellettuale fa presa, ma è innegabile che nel largo pubblico dei non specialisti, proprio in quella direzione il rapporto è più immediato e profondo.
Eppure ci sarebbero mille motivi perché fosse il contrario. A volerne ancora elencare qualcuno in aggiunta a quanto già detto, si può ricordare ad esempio che le Lettere luterane, oltre alla poco gradita collocazione nel Palazzo delle forze della sinistra ufficiale, contengono due proposte–provocazioni, come la richiesta alle forze progressiste di abolire la scuola dell’obbligo e la televisione. La motivazione della richiesta è la perdita da parte dei giovani del popolo dei propri valori morali, cioè della propria cultura particolaristica…La scuola e il video sono autoritari perché statali.
Provocazione forse, è vero. Ma il loro senso per un intellettuale come Pasolini è chiaro, ed è un vero pugno nello stomaco per ogni comunista che non voglia abbandonare i figli del popolo allaloro cultura particolaristica; e creda nella possibilità di uno stato anche progressista e educatore (fin quando la sua dittatura non sarà resa inutile dalla maturazione del comunismo).
La sfiducia di Pasolini nella storia vista come progresso, nel futuro come possibilità di riscatto umano, non potrebbe essere più netta. Marx e Lutero non sono conciliabili. Pasolini e Lutero invece sì, perché entrambi vedono il male nel divenire, nella storia, ed il bene invece in una Grazia che preesiste all’individuo, e il ricongiungimento alla quale implica nostalgia e ritorno, non impegno. Ricordiamo il luterano pecca fortiter, sed crede fortius (pecca fortemente, ma credi ancora più fortemente). Sembra la metafora della vita di Pasolini…
Lo stesso ultimo grande messaggio cinematografico pasoliniano, Salò o le centoventi giornate di Sodoma, meriterebbe gran parte delle critiche che si è guadagnate se non fosse per il finale, da qualcuno forse trascurato. Due giovani della milizia fascista, che hanno attivamente collaborato a quella montagna di sadismo e di male, parlano con semplicità di se stessi: ce l’hai la ragazza…sì…come si chiama…Margherita…
Così finisce il film. L’eroe pasoliniano insomma, come già visto a proposito di Stella di Accattone, nemmeno concepisce di potere e tanto meno dovere non convivere col suo male, ed è inconsapevole di quel poco di purezza che ancora trattiene in sé. Prostituirsi o meno è irrilevante. Per il milite di Salò la cosa bella è che stasera uscirà con Margherita. Nome semplice e puro. Come Stella.
A questa semplicità e a questa purezza non c’è partito, comunista o meno, che debba aggiungere nulla. Importante semmai, se possibile, sarebbe togliere. Togliere le impurità per far risplendere la gemma. La vita è aspirazione a questo. Luteranamente, aspirazione a Dio.
E politicamente? È fede in un mondo felice, che è alle spalle della storia però. E depurazione del presente, cioè critica radicale dell’esistente in quanto tale, per far emergere, nell’ideologia, la perduta purezza.
Caratteristica dei comunisti invece, abbiamo detto, sembrerebbe fondamentale esser proiettati nell’impegno per il futuro e per un mondo migliore. Ma una tematica analoga a quella di Pasolini, che ne spieghi il fascino, siamo sicuri che non occupi un notevole spazio nella cultura e nella storia dei comunisti italiani?

Pasolini può anche non far testo. Ma come si può spiegare il fascino formidabile che esercita ancora oggi sui comunisti la figura di chi il comunismo ha destrutturato, senza saperlo ricostruire? Mi riferisco a Enrico Berlinguer ovviamente, la cui strana fortuna ha voluto che fosse in vita appoggiato dall’area riformista che oggi lo rilegge criticamente; e combattuto aspramente da un’area più radicale, che oggi lo ricorda invece con entusiasmo e conosce nei suoi confronti un fortissimo processo di identificazione politica.
Per limitarsi ad una sola citazione, tra le infinite possibili, Massimo D’Alema (che fa ovviamente parte del primo gruppo) nel suo recente libro A Mosca l’ultima volta. Enrico Berlinguer e il 1984 (Donzelli Editore. 2004), dopo aver garbatamente demolito l’intera logica della politica berlingueriana e sottolineato l’insufficienza e la debolezza della sua proposta, sottolinea però (come non possono non fare tutti, compreso chi parla) l’enorme spessore morale della sua figura. Scrive a pag. 102: Dov’era allora la ragione profonda del fascino di quest’uomo politico così diverso…? Certamente nel nesso fortissimo – mai esibito ma percepibile – tra dimensione etica, passione civile e politica. L’etica non solo nel senso rilevante ma in fondo banale di un personale disinteresse. L’etica nel senso weberiano della responsabilità.
L’etica proprio nei due sensi da D’Alema indicati, il disinteresse personale cioè e il senso di responsabilità, sono stati infatti e sono certamente caratteristica fondamentale del movimento comunista stesso, come in generale delle tendenze radicali soprattutto di sinistra. Il possibilismo e l’apertura al reale porta troppo spesso al compromesso, in politica e in tutti i sensi. Non è di molti saper conciliare realismo e moralità.
Un forte senso morale richiede, a sua volta, forti convinzioni. Come, però, la capacità di guardare in maniera disincantata e realistica il mondo può portare a compromessi morali, così un forte senso etico e troppo radicate convinzioni possono a loro volta allontanare da una laica e oggettiva comprensione della realtà politica.
Ai comunisti è successo, in una particolare fase della loro storia, proprio questo: il forte senso morale e la fede politica hanno fatto aggio sulle capacità di analisi. Ed essi hanno creduto di poter di fatto rinunciare, da allora fino ad oggi, a tutto ciò che nella loro identità fosse costruzione, prospettiva per un futuro razionalmente delineato, nella piena fiducia di poterlo poi riattingere attraverso la fantomatica terza via da Berlinguer perseguita. Ed hanno compiuto tale operazione ritenendo possibile restare nel frattempo identici a se stessi.Continuando ad alimentare la propria identità attraverso la moralità e la critica radicale del reale.
Berlinguer vede infatti nella crisi economica a metà degli anni ’70 i segni del tracollo incombente del capitalismo stesso. Nella relazione al XIV congresso del 1975 egli afferma: Il quadro generale è caratterizzato dal precipitare della crisi del sistema imperialistico e capitalistico mondiale… Nella relazione al XV congresso del 1979 continua ad affermare: …che cos’altro si esprime, nelle condizioni d’oggi, se non la crisi e il superamento dell’assetto del mondo una volta dominato dal capitalismo e dall’imperialismo?
Poco servirebbe a questo punto, anche alla luce degli sviluppi degli anni ottanta e del mondo globalizzato, soffermarsi sulle capacità di analisi dimostrate dall’autore di queste affermazioni. È necessario invece, ai nostri fini, saper identificare la fede incrollabile in se stessi che ne costituisce il presupposto.

Fede politica, critica radicale del reale in quanto tale: due caratteristiche dell’approccio di Pasolini alla politica, che troviamo dunque fortemente incardinate anche nella personalità di Berlinguer. E in quella di tantissimi comunisti.
Capire Pasolini aiuta, dunque, a capire il comunismo stesso.
Se passiamo inoltre ad esaminare il problema nelle sue dimensioni più spiccatamente coscienziali, chi come me ha alle spalle una lunghissima attività politica, sindacale e parlamentare può avere infiniti ricordi della percezione della crisi del comunismo, da parte di tanti compagni, in termini sorprendentemente pasoliniani.
Preoccupazioni del tipo di questo passo dove andiamo a finire…fino a quando dovremo fare autocritica…quando ci fermeremo…che cosa stiamo diventando…mille volte sono state certamente da tutti i comunisti sentite o espresse. Esse rivelano un atteggiamento mentale che antepone, come si ricordava per Pasolini, la verità alla ricerca. La propria identità è vista come in cima alla corda insaponata della realtà, lungo la quale angosciosamente si scivola, mentre si guarda su, rimpiangendo la verità e le origini perdute.
La priorità della verità rispetto alla ricerca e all’azione (questo in definitiva si può intendere come fede, non solo per Lutero e per il movimento francescano ma anche in politica) esime ciascuno dalla responsabilità personale nei confronti della ricerca. Se dovessi definire un’unica ragione per la quale, in ultima analisi, il comunismo è crollato, direi che è stato per la sua incapacità di far propria una concezione laica della politica. Di considerare cioè inesistente una verità una volta per tutte definita, successiva o precedente che sia alle nostre analisi.
La provvisorietà ed il continuo aggiornamento del sapere sono la condanna ed insieme l’esaltante prospettiva dei nostri tempi. Popper vede la scienza stessa, regno della certezza laica dai tempi di Galileo fino al positivismo ottocentesco, come null’altro che congettura sottoposta a continue confutazioni ad opera delle nuove scoperte. A maggior ragione nella politica, in democrazia, il cittadino deve chiedere in ultima analisi a se stesso la risposta agli interrogativi, considerarsi sede ultima delle valutazioni, e vivere la propria strutturale provvisorietà (e quella del suo partito) non come uno scivolamento in basso, ma come lo spostarsi su di un piano, alla ricerca del meglio. Non dell’ottimo.

La crisi delle ideologie, d’altra parte, non investe certo solo il marxismo. Le enormi contraddizioni dello sviluppo globalizzato rivelano immediatamente, anche a chi non le voleva vedere, le contraddizioni e i limiti del neo-liberismo, il pensiero unico degli anni ottanta. Ciò non significa, beninteso, che esso non funzioni. Ma che va combattuto e corretto attraverso un nuovo welfare, che mostrerà a sua volta i suoi limiti e le sue contraddizioni. Ogni partito, ogni individuo, dovrà effettuare le sue scelte. E quando le spalle saranno abbastanza robuste da consentire l’accettazione del provvisorio, non quale che sia, ma quello scelto, si scopriranno anche i grandi spazi e le possibilità immense di azione che i nostri anni consentono.
Semplificando al massimo, possiamo considerare “postmoderna” l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni. Così scrive Jean François Lyotard nel suo La condizione postmoderna (Feltrinelli. 1981) in cui descrive le trasformazioni culturali avvenute proprio in quella parte del secolo nelle società occidentali.
La non ragione, dal XV secolo fino all’illuminismo e a tutto l’ottocento considerata oscurità e negatività dalle forze e dalla cultura progressiste, riemerge con forza nella società e nella cultura a cavallo tra il XIX e il XX secolo, per restare una costante che caratterizza in maniera crescente i decenni successivi fino ad oggi.
Non si tratta tanto però della proclamata ed esaltata irrazionalità legata all’economia dei monopoli, con le conseguenti ideologie militariste e razziste. È piuttosto una più pacata e matura considerazione dell’irrazionale che comincia a prender corpo, ad esempio con la psicanalisi, e che si espande in larga parte del sapere: il riconoscimento cioè degli spazi della non ragione con cui la ragione stessa, non onnipotente, deve misurarsi e trovare un equilibrio. Sul presupposto che l’irrazionale, sempre presente, è tanto più pericoloso quanto meno identificato e riconosciuto.
La politica di altri paesi, senza i problemi del nostro, ha vissuto in un arco di tempo più lungo ed in maniera più lenta le non facili trasformazioni culturali e politiche imposte dagli sviluppi dello scorso secolo, e che hanno dato vita alla società postmoderna di cui ci parla Ronald Inglehart.
Da noi per arretratezze storiche, e per la frattura politica che rifletteva al nostro interno quella della guerra fredda dopo la fine del secondo conflitto mondiale, il perdurare dei caratteri della vecchia cultura moderna assertrice in tutti i campi di ideologie assolutistiche, oggettivistiche, ha ritardato l’assimilazione del nuovo. DC e PCI hanno costituito come due dighe artificiali che hanno continuato ad incanalare le acque della cultura del vecchio fiume. Non erano due concezioni politiche che si scontravano, quanto piuttosto due concezioni del mondo, due costruzioni ideologiche, l’identificazione con le quali era avvertita più di quella con la propria nazione stessa.
Esse sono crollate entrambe col muro di Berlino, dopo aver reso un servizio al paese di cui va pur dato atto. Negli anni di Berlusconi, a guardarsi indietro sembra un miracolo che l’Italia abbia saputo diventare il sesto paese industriale del mondo.
Ma senza le vecchie dighe le acque stanno dilagando, sconvolgendo l’ecologia politica.
Bisogna costruirne di nuove, e più adeguate. Ma va deciso come. E senza troppo rimpiangere le vecchie.
L’irrazionale va riconosciuto e le sicurezze troppo forti vanno abbandonate. Di fronte alle forze, ai ceti, agli individui della non ragione (e dell’ignoranza) l’atteggiamento politico immediatamente vincente è quello del populismo e della demagogia. Separare cioè il potere e la rappresentanza; ciò che si dice e ciò che si fa, ottenendo il consenso attraverso la manipolazione demagogica dei mass-media. È il trionfo di Schumpeter, la competizione democratica vista cioè come scelta del capo attraverso le regole del marketing. La democrazia finisce con l’essere così semplicemente pluralismo e lotta mal regolata di interessi, non rappresentanza.
L’atteggiamento più utile e meditato, oltre che democratico, è lo sguardo laico alla realtà, che riconosce la non ragione, i limiti, gli spazi della delega che non annullano però la rappresentanza; e contrappone insieme, all’anarchia degli interessi irrazionali individuali, il controllo della forza della ragione e degli interessi più ampi.
Un nuovo welfare ha bisogno dello stato, e conosce oggi forti problemi per la crisi dello stato stesso; negli anni della globalizzazione ha bisogno di valide organizzazioni internazionali, e conosce enormi problemi per la quasi inesistenza o la debolezza di queste ultime. C’è troppo da capire e da lavorare, per potersi soffermare a discutere di assolutezze.
Il comunismo e il pensiero politico di Pasolini hanno marciato in parallelo, conoscendo insieme forti ritardi in questa direzione. Ciò ha rafforzato però il profondo legame che, insieme agli scontri, ha caratterizzato i loro rapporti.

intervento dagli "Atti del Convegno" di Frosinone
 


 
Pasolini trentanni dopo 
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Stefano Casi
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PASOLINI TRA CINEMA E TEATRO
 
A proposito del film che stiamo per vedere (Edipo re) si potrebbero dire molte cose, ma vorrei approfittare di questa proiezione, che rievoca una delle opere teatrali più famose della storia, per parlare del teatro di Pasolini. O meglio, della storia che lega Pasolini al teatro.

Anzitutto, sgombriamo il campo da possibili equivoci: non è vero che Pasolini fosse digiuno di teatro, che fosse un poeta che di volta in volta ‘provava’ a espandere il suo interesse in altri campi ma sempre da poeta. Addirittura è falso considerare che Pasolini fosse un poeta come lo intendiamo noi. Pasolini era prima di tutto un intellettuale che sceglieva il codice con cui esprimersi, e quindi di volta in volta poteva diventare poeta o regista cinematografico, scrittore o autore teatrale
Fin da giovanissimo il teatro era molto ben presente nel campo delle sue possibilità. Negli anni 40, prima a Bologna dove era nato e poi in Friuli, dove era sfollato per la guerra, Pasolini aveva scritto testi teatrali, fatto regie, recitato sul palcoscenico. E non si era mai trattato di divertissement ma di una raffinata e consapevole scelta di natura artistica e –per così dire– politica. Ma questa è un’altra storia. Certo, negli anni ‘50, all’arrivo a Roma, l’impegno sul teatro si era raffreddato, ma del resto erano le condizioni sue esistenziali e le generali condizioni sociali a portarlo altrove, verso la scrittura e il cinema prima di tutto. Eppure il teatro stava sempre lì, come una vocazione irrisolta.

Ed ecco il primo tassello della storia che vi voglio raccontare stasera. Siamo alla fine del 1959. Vittorio Gassman e il regista Luciano Lucignani chiedono a Pasolini di tradurre l’Orestiade di Eschilo per un’importante rappresentazione al Teatro Greco di Siracusa, compito che Pasolini accetta, riservando alla traduzione pochi mesi di lavoro. Per Pasolini questo coinvolgimento è l’occasione per confrontarsi finalmente con l’istituzione teatrale ufficiale, al centro dell’attenzione del mondo del teatro, che evidentemente gli interessava. Ma non è solo questo: c’è anche la possibilità di accedere direttamente al linguaggio della tragedia greca. Pasolini intuisce che da qui può riprendere, con maggiore sicurezza, un impegno non occasionale nel teatro, nel cuore del linguaggio originario della scena.
Il primo problema, trattandosi di una tragedia antica, è la scelta del testo da cui partire. E su questo vorrei attirare la vostra attenzione. Pasolini dichiara di volersi basare non solo sul testo greco ma anche su tre precedenti e illustri versioni, una francese, una inglese e una italiana. E dice: “Nei casi di sconcordanza, sia nei testi, sia nelle interpretazioni, ho fatto quello che l’istinto mi diceva: sceglievo il testo e l’interpretazione che mi piaceva di più. Peggio di così non potevo comportarmi”. Quindi, da una parte, varie traduzioni e l’istinto da cui farsi guidare, cosa altamente scorretta dal punto di vista filologico; e dall’altra l’italiano, che è il vero nodo per Pasolini. Punto di partenza per la traduzione, infatti, non è la lingua greca ma la propria lingua poetica, alla quale intende adeguare la lingua di Eschilo: Pasolini non si chiede quale lingua abbia usato Eschilo ma quale lingua sia efficace nel tempo odierno. E infatti scrive: “per quel che riguarda la dizione, basta che Gassman legga nelle Ceneri di Gramsci, mettiamo, ‘Il pianto della scavatrice’, il mio italiano, il mio dettato, è quello”.
Così, il traduttore procede modificando i “toni sublimi in toni civili”, evitando la “tentazione” classicista e avvicinandosi “alla prosa, all’allocuzione bassa, ragionante” – queste sono sue dichiarazioni. Infatti, all’opera di Eschilo viene negato un “ragionamento (…) mitico e per definizione poetico” perché il significato della trilogia è “solo, esclusivamente, politico”; e cioè la descrizione del passaggio da una società primitiva, a una società moderna, in cui nascono l’assemblea e il suffragio. Ecco allora, per esempio, l’utilizzo del termine “dio” al posto di “Zeus”, del personaggio della Religiosa al posto della Sacerdotessa che non sta nel tempio ma nella “chiesa”, mentre il Coro grida “osanna”. Scelte di attualizzazione che furono davvero clamorose e che tuttora ci fanno leggere con stupore questa versione.
Dunque il metodo traduttivo così impudentemente spiattellato dallo stesso Pasolini, di cui dicevo prima, e cioè il metodo di tradurre le traduzioni altrui andando a occhio, è sì poco ortodosso ma inaspettatamente funzionale ed efficace. Evitando la filologia Pasolini è paradossalmente fedele nella sua conclamata infedeltà alla trilogia di Eschilo. Di questo Pasolini è consapevole, e infatti non esita a confessare quel che non starebbe bene confessare, usando espressioni come “ciò che mi piaceva di più”, “suggestioni”, “profondo, avido, vorace istinto”.
Ma che bisogno c’è di sottolineare l’istintività della traduzione nello stesso luogo dove si spiegano i motivi razionali e logici che lo conducono alla versione italiana dell’opera?
La chiave di questa contraddizione sta in una frase in cui dice che l’allusività politica della trilogia di Eschilo “era quanto di più suggestivo si potesse dare in un testo classico, per un autore come io vorrei essere”. In altre parole, con l’Orestiade Pasolini intuisce la possibilità di una propria strada autonoma nella drammaturgia contemporanea, tracciata con i suggerimenti raccolti dallo studio del teatro greco. Eschilo gli permette il confronto diretto con una lingua che aveva espresso un teatro politico e poetico al tempo stesso. Esattamente ciò che aveva cercato negli anni bolognesi e friulani e ciò che oggi può tornare a dargli nuovi stimoli per impegnarsi di nuovo nel teatro. E per farlo, Pasolini diventa Eschilo, “un autore come io vorrei essere”. Ne consegue, allora, che il solo “istinto” possa correttamente bastare nell’approccio alla traduzione, perché se un traduttore deve basarsi sul rigore, un autore deve invece muoversi d’istinto, e qui Pasolini sente di compiere una scrittura propria, non una traduzione. Riferendosi più volte alle Ceneri di Gramsci per spiegare la lingua usata nella traduzione dal greco, egli presenta la sua Orestiade non come tragedia dell’Atene del V secolo avanti Cristo, ma come tappa di un proprio percorso linguistico e intellettuale nell’anno 1960.

Subito dopo, Pasolini inizia a corteggiare con maggior interesse il teatro, anche se nel giro di pochi mesi viene ‘travolto’ dal cinema con Accattone. Ma c’è un momento in cui le parti si capovolgono: è il teatro che inizia a corteggiare lui! Infatti nel 1965 in Italia accade qualcosa di strano. I fermenti del teatro di ricerca, che allora si chiamava “nuovo teatro” o “neoavanguardia”, si moltiplicano, portando alla luce una profonda crisi del teatro di prosa, o meglio la sua profonda lontananza dalla società civile. Sentendosi in una crisi senza sbocchi, il mondo del teatro si mette a cercare un capro espiatorio per i propri problemi e un salvatore: lo scrittore. Si tratta di un corteggiamento fra teatro italiano e letterati che si protrae almeno fino al 1967: tre anni in cui non a caso molti scrittori affrontano programmaticamente l’esperienza drammaturgica, anche perché dall’altro lato esisteva una profonda crisi parallela della letteratura e dello scrittore stesso, che sente il bisogno di sbloccare il proprio impasse di ruolo cercando nuove forme di rapporto con il pubblico, più immediate e dirette rispetto alla pagina scritta. Iniziano così inchieste e dibattiti sugli scrittori e il teatro, a cui partecipa anche Pasolini. Con esiti burrascosi. In un’inchiesta clamorosa del 1965, che dà il via a tutto questo dibattito, dalle pagine della rivista “Sipario”, accusa attori e registi di non essersi mai interrogati sul loro strumento principale, la lingua, accettando un accademismo falso, che nessun italiano parla davvero. Sono accuse pesanti, che per mesi rimbalzano su tutte le riviste italiane e sui quotidiani con reazioni forti: Pasolini dice che il teatro fa schifo? Ma perché non scrive lui qualcosa? Perché non si impegna?
Pasolini partecipa pure a un dibattito in una delle cantine romane alternative, in cui ribadisce la necessità di una responsabilità degli attori rispetto alla pronuncia, cioè rispetto a un italiano davvero parlato: e come capite qui, oltre la lingua, è in ballo ben altro, cioè Pasolini chiede all’attore di essere aderente alla società di fronte a cui si mette in scena. Le cronache di quel dibattito ci dicono che gli attori e i registi presenti quasi si buttarono addosso a Pasolini, apparentemente per aggredirlo, in realtà per supplicarlo: “Allora scrivi, scrivi! Che cosa aspetti a scrivere di nuovo per il teatro?”, gli dissero.
Siamo verso la fine del ’65: sì, Pasolini ha proprio capito che è ora di impegnarsi davvero, di lasciare il segno anche qui, nel teatro, dopo averlo lasciato nella letteratura, nella poesia, nel cinema… Ma da dove partire?
Esatto, proprio da lì, proprio da dove partono tutti, ma lui a maggior ragione: dalla tragedia greca. E dunque, oltre cinque anni dopo aver incontrato Eschilo, anzi dopo essere diventato Eschilo per tradurre istintivamente l’Orestiade, occorrerà rileggere le tragedie per trarre nuova ispirazione. Ad aiutarlo in questo è una malattia, che agli inizi del ’66 lo tiene bloccato a letto a lungo. Finalmente è l’occasione per leggere tanto, e quindi infilare nelle letture anche i classici greci, e per scrivere tanto. Per esempio alcune sceneggiature come San Paolo e quella che sarà Porno-Teo-Kolossal, ma anche alcune opere teatrali. Le sue tragedie, nelle quali potrà essere per l’Italia degli anni ‘60 quell’Eschilo che aveva incarnato per la traduzione dell’Orestiade.
Ma ecco il paradosso: perché Pasolini sceglie proprio la forma della tragedia, cioè il linguaggio drammaturgico più apparentemente involutivo e forse più lontano da quel nuovo teatro nel quale vuole essere protagonista? Una tragedia in versi, una tragedia greca? In realtà, la forma tragica si rivela la più attuale proprio in virtù della sua assoluta inattualità: la scelta della tragedia è quella che gli consente di definire meglio il linguaggio della coscienza della diversità dell’intellettuale ed è la forma più adatta per descrivere il suo attacco (eroico-vittimista) contro il potere borghese. E così Pasolini recupera scandalosamente proprio quella forma tragica il cui ultimo rappresentante è stato un D’Annunzio assolutamente impronunciabile e irrecuperabile per la moderna cultura italiana, tanto più per la cultura di sinistra.
Pasolini in realtà non intende scrivere tragedie ‘greche’, ma opere in cui l’adozione di forme greche costituisca un segnale di contrapposizione rispetto al dramma borghese: quindi, una sorta di tragedie borghesi forma personale di un teatro politico dichiaratamente antiborghese. Il teatro diventa infatti lo strumento per addentrarsi nel terreno nemico della borghesia, l’arma fisica scagliata dal suo autore contro il pubblico stesso.
Pasolini dichiara di aver concepito un teatro di presa di coscienza e dibattito, come se il teatro potesse portare a una qualche consapevolezza culturale e politica. Ma è un depistaggio. Ci sono infatti due elementi contro i quali si infrange la dichiarazione che lo stesso Pasolini fa, in cui dice che le sue tragedie sono appunto una base di discussione razionale fra borghesi illuminati. La prima è proprio che il nuovo teatro di Pasolini ha paradossalmente come suo fulcro privilegiato una classe antagonista. Dice esattamente: “Il destinatario è il mio nemico, è la borghesia che va a teatro”. La teoria pasoliniana del destinatario teatrale è dunque sbalorditiva e davvero unica nella storia del teatro: è un teatro scritto per i nemici, dunque un teatro dove non ci può essere incontro razionale ma solo scontro.
Il secondo elemento di messa in crisi del teatro come spazio di dibattito razionale fra borghesi illuminati è interno alle tragedie stesse che non si presentano affatto come esempio di questo teatro razionale e politico. C’è infatti una contraddizione di fondo tra il livello puramente intellettuale dichiarato e il livello sacrale del mistero impostato sull’asse cruento e sessuale che costituisce la colonna vertebrale del teatro pasoliniano. Le tragedie di Pasolini parlano di “storie aberranti” come lui dice: un padre che vuol vedere il sesso del figlio; una coppia intenta a una relazione sadomaso; un ragazzo che ama i maiali; e coì via… E sono tutte storie che portano sul limite del precipizio, sopra il mistero della realtà per rivelare alla borghesia nemica le aberrazioni della sua realtà. Con uno scarto sottile e sotterraneo, Pasolini destituisce di senso quel dibattito che aveva dichiaratamente invocato, imponendo un altro meccanismo, quello in cui il pubblico non può far altro che assistere alla dichiarazione apocalittica di Pasolini o, detta in altri termini, alla propria stessa apocalisse-rivelazione, cioè alla realtà della propria condizione di borghesia, che nel teatro trova rappresentazione in forma di visione, nella vertigine del mistero e del sacro, descritti attraverso il sangue e il sesso.
In mezzo alle tragedie greche rilette per potersi ispirare per le sue tragedie, che sono Affabulazione, Pilade, Orgia, Bestia da stile, Porcile, Calderon, ma che è anche Teorema che a un certo punto decide di trasformare in film e in romanzo, c’è anche Edipo re. Ed eccoci arrivati al film di stasera. Per Pasolini questa è l’occasione di far incrociare il suo teatro e il suo cinema. Ed è da questa prospettiva che vorrei leggerlo, tralasciando, come dicevo all’inizio, le tante altre impostazioni possibili.

Dunque nel 1966, proprio mentre sta scrivendo le sue prime tragedie boghesi e antiborghesi, Pasolini affronta l’Edipo re di Sofocle attraverso una traduzione che lui dice esplicitamente “fedele”. Il concetto di fedeltà riprende l’idea di traduzione di un “autore come io vorrei essere” espressa, come abbiamo visto, a proposito di Eschilo per l’Orestiade: versione fedele ma nel senso di una ri-creazione dell’opera. Infatti, ecco subito la controprova: nella stessa intervista in cui dichiara la sua fedeltà Pasolini dice anche di essersi mantenuto “molto libero, dando retta solo ai miei impulsi e alle mie aspirazioni. Non mi negai una sola libertà”.
Quindi, dopo aver voluto essere come Eschilo, Pasolini vuole essere un nuovo Sofocle, e coerentemente ne assume la parte ideale impersonando nel film la figura del Corifeo. Se nella prima parte del film all’azione non corrisponde l’uso della parola, se non in pochissime battute funzionali al procedere del racconto, nella seconda parte è proprio il Corifeo-Pasolini a dare il via alla trasposizione vera e propria della tragedia di Sofocle. Lui stesso spiega: “mi piaceva introdurre io stesso, in qualità di autore, Sofocle all’interno del mio film”, e così quando vedrete, a metà film, avanzare i tebani in foma di coro, e quando vedrete il capo del coro interrogare Edipo con i primi versi della tragedia di Sofocle, non vi stupirete nel riconoscere – sia pure con una voce doppiata, non sua – lo stesso Pasolini. Perché in questo momento, cioè nel momento in cui si passa dal mito alla tragedia, Pasolini vuole essere riconoscibile come l’autore stesso della tragedia. Nuovo Sofocle, appunto.
A differenza dei precedenti film, da Accattone a Uccellacci e uccellini, il protagonista di Edipo re non è un sottoproletario, ma un eroe tragico, un mito simbolico che tuttavia è relegato all’interno di un sogno incorniciato da un prologo e da un epilogo attuali. L’Edipo mitico rappresenta le fondamenta del moderno poeta e intellettuale, alla base del quale sta un peccato originale di indicibile portata che lo porta a vivere con scandalo: io sono poeta-intellettuale in quanto porto su di me una colpa antica che mi porta a essere un diverso, in questo caso, nel caso di Edipo, ho ucciso mio padre e amato mia madre. E come Edipo, ci dice Pasolini, così sono i poeti e gli intellettuali: persone che portano in sé il mistero di un peccato di una “storia aberrante”, che li porta a essere diversi, e perciò contemporaneamente più consapevoli e più inconsapevoli, più veggenti e più ciechi.
La vera storia del film, insomma, è quella narrata nella cornice e non dentro al quadro: è la storia di un poeta del ventesimo secolo, le cui scelte ideologiche scaturiscono dalle vicende personali dell’infanzia, dall’“amare troppo da bambini la propria madre”, secondo la semplicistica spiegazione dell’omosessualità espressa nella tragedia Calderón. Sta qui il senso più profondo del film di Pasolini: la definizione del poeta intellettuale come unicità di sapienza e scandalo, in un’esplicita dimensione autobiografistica. La necessità di una giustificazione ‘privata’ dell’identità dell’intellettuale può così trovare la migliore rappresentazione nella tragedia di Sofocle, nel teatro! Non a caso, insieme a due mostri sacri del nuovo teatro: Julian Beck, leader del Living Theatre, qui nelle vesti di Tiresia, e Carmelo Bene nelle vesti di Creonte, anch’essi doppiati.

Le sequenze iniziali del film mostrano il conflitto tra Laio e il piccolo Edipo sullo sfondo dell’Italia degli anni Venti. Il presagio del padre innesca il “sogno del mito”, sogno che rivela ed esorcizza lo scandalo “contro natura” del protagonista. La storia di Edipo viene mostrata da Pasolini per intero, dunque non limitandosi alla sola fase narrata nella tragedia di Sofocle. Grazie a questa dilatazione in un territorio mitologico poco frequentato come quello della giovinezza di Edipo, Pasolini ha l’opportunità di mostrare anche altro: i dettagli della formazione adolescenziale di Edipo e la psicologia dell’abbandono e della casualità nel viaggio, che assimila Edipo ai personaggi di Uccellacci e uccellini vaganti per le strade del mondo. In questo modo viene anche ridimensionata percentualmente rispetto al racconto la presenza delle altre figure della tragedia, come Giocasta o Creonte, a tutto vantaggio del personaggio di Edipo di cui viene esplorato invece ogni atto.
Concluso il sogno che ci mostra dapprima il mito di Edipo fino all’entrata in Tebe e poi la rappresentazione della tragedia classica, Pasolini evita di riprendere anche la seconda tragedia di Sofocle (Edipo a Colono) per ritornare all’attualità. Edipo è ormai maturo e consapevole della qualità mitica dei propri conflitti personali e “suona il flauto, il che significa, per metafora, che è un poeta”. La prima tappa di Edipo poeta è la civile e borghese Bologna. Rifiutato questo luogo e ciò che significa, Edipo viene condotto da Angelo nella periferia di una città industriale, proletaria o forse sottoproletaria. Ma neanche questa ambientazione è più possibile: l’unico luogo di pacificazione per Edipo può essere solo quello della nascita, come nella tragedia Bestia da stile, lungo il Livenza sulle cui rive Edipo può finalmente ricomporre, nell’unità dell’origine e della fine, la sua dissociazione esistenziale.

A questo punto avrei finito, ma rimane un dubbio. I tragici greci sono tre. Vuoi vedere che Pasolini, dopo essere stato il nuovo Eschilo traducendo d’istinto l’Orestiade e dopo essere stato il nuovo Sofocle rappresentando d’impulso l’Edipo re, ha cercato di essere anche il nuovo Euripide? E allora andiamo a vedere. Superiamo questo film di due anni e vediamo che succede. Anzitutto, in questo salto qualcosa è successo al suo teatro: le tragedie sono state scritte, e una anche pubblicata senza alcun successo. Pasolini stesso ha diretto Orgia con Laura Betti al Teatro Stabile di Torino incassando un insuccesso clamoroso. E allora ha deciso che non vuol più sentir parlare di teatro. Anzi, quasi per dispetto, decide di cambiare completamente atteggiamento: mentre negli anni di Edipo re diceva in continuazione che voleva fare teatro, dopo il fiasco di Orgia dice che lui non ha mai pensato al teatro, che voleva fare solo poesia dialogata, che gli era uscita così perché era ammalato, non sapeva che fare, ha letto i dialoghi di Platone e ha deciso di farli pure lui: giustificazioni chiaramente ridicole, che fanno capire solo una grande amarezza.
Ecco, consumato il divorzio dal teatro, succede a un certo punto qualcosa. Se la traduzione dell’Orestiade di Eschilo nel ’60 corrispondeva a un periodo di impegno civile che collegava la trilogia classica alle Ceneri di Gramsci; e se l’Edipo re di Sofocle cercava una risposta autobiografistica all’interrogativo sull’impegno dell’intellettuale; la scelta di Medea, girato nel 1969, emerge da altri orizzonti concettuali. Questa volta il mito teatralizzato da Euripide viene riletto come critica totale al mondo occidentale, senza possibilità di soluzione. Simbolo dell’empirismo scientifico, del razionalismo pragmatico della civiltà occidentale, è il nuovo centauro illuminista che si manifesta nella Pisa di Galileo. Al “centro”, al “sacro” di Medea si sostituisce la visione galileiana eccentrica della terra rispetto all’universo, cioè l’ortodossia della ragione empirica.
E Euripide? Il terzo tragico greco è qui solo una vaga fonte d’ispirazione. Pasolini, nuovo Eschilo nel tradurre l’Orestiade, nuovo Sofocle nel realizzare Edipo re, ora non può vestire i panni anche di Euripide. Lo dice chiaramente: “Quanto alla pièce di Euripide, mi sono semplicemente limitato a trarne qualche citazione”. Curioso davvero: Medea è una semplice “citazione” di Euripide, i cui brani compaiono come pretesto in brevi stralci nella sceneggiatura. Al contrario di Edipo re, Medea non ha più nulla a che vedere non solo con la tragedia di Euripide in sé ma anche con una sia pur lontana idea di teatro. Si infrange la sequenza temporale, si adottano trucchi cinematografici, ma soprattutto si passa dalla tragedia e dalle sue radici più ancestrali come vedremo qui, alla storia e alla sua fenomenologia: Edipo è l’abisso della colpa non voluta che genera consapevolezza e sofferenza, poesia e diversità (quindi il tema dell’unità intesa come identità unica del diverso); Medea è invece l’espressione di una dialettica dello sviluppo storico, specchio del conflitto fra due opposti (tema della dualità intesa come scontro di culture). Alla tragedia si avvicenda quindi il dramma storico, sia pure in forma allegorica. Al posto di Julian Beck e Carmelo Bene, tracce evidenti di una curiosità teatrale in piena attività, si sostituisce ora una cantante lirica, Maria Callas. Che Pasolini non usa per le sue caratteristiche canore, ma come pura icona. Medea segna insomma per Pasolini il punto di non ritorno nel suo confronto con il teatro greco. Di cui Edipo re è probabilmente uno degli esiti più geniali e originali, con i quali modifica per sempre cinematograficamente l’immagine stessa della Grecia, proiettata dall’immaginario neoclassico degli ultimi due secoli in un nuovo immaginario, barbaro e misterico, sulla scorta degli studi di antropologia.

intervento dagli "Atti del Convegno" di Frosinone
 


 
Pasolini trentanni dopo 
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Antonio Limonciello
[ antoniolimonciello@tin.it ]
 
PASOLINI PEDAGOGO
 
La produzione di un poeta, uno scrittore, un regista, un intellettuale come Pasolini, non può non avere un grande valore pedagogico. Egli ha insegnato in tutte le sue opere ed era sua precisa intenzione farlo, questo scritto però analizzerà il suo impegno diretto nel campo educativo, perché Pasolini è stato per più anni insegnante non per caso ma per scelta.

Le esperienze di insegnamento di Pasolini

Iniziò nel 1944 nella scuola di Versuta, contrada di Casarsa.
Scuola organizzata da Pasolini con il coinvolgimento della madre, una scuola per i ragazzi della contrada che, causa bombardamenti e cecchini, non potevano recarsi alle scuole pubbliche di San Giovanni al Tagliamento. La organizzò in un casolare di campagna, dove da due anni egli aveva due camere in soffitta, luogo di studio, di scrittura e d’amori.
I figli dei contadini, per ringraziare i due insegnanti, qualche volta portavano uova, farina, vino, e altro del loro mondo.
Dal 1947 al 1949 insegnò nella scuola media statale di Valvasone, sezione staccata delle medie di Pordenone. Il Preside De Zotti vide in lui un insegnante nato, lo chiamava “maestro mirabile”, “uno che sa tenere una partecipazione della classe mai vista, di aprirla allo sperimentalismo, ispirandosi alle idee di John Dewey”.
Pisolini, oltre ad insegnare letteratura e grammatica, era anche l’allenatore della squadra di calcio.
Andrea Zanzotto ricorda come coltivasse il giardinetto nel cortile della scuola, insegnasse i nomi latini delle piante, disegnasse cartelloni, inventasse favole, come quelle del mostro Userum, perché i ragazzini potessero imparare le terminazioni dei sostantivi della seconda declinazione, us, er, um
Così descrissero il loro professore due studenti alcuni anni dopo aver lasciato la scuola media di Valvasone:
Nel 1947, in prima media, arrivò un giovane professore di lettere, fece l’appello e si presentò, si chiamava Pier Paolo Pasolini.
Crediamo non fosse ricco perché ogni giorno, col buono e col cattivo tempo, si faceva, con la bici, 12 chilometri di strada bianca per venire da Casarsa a Valvasone.
Quella modesta bicicletta fu la sua fedele compagna per tutti e due gli anni che passò con noi.
Nei due anni che passammo con lui fummo i più ricchi e fortunati allievi del nostro Friuli. Piano piano egli ci condusse per mano nell’immensa steppa di Anton Cecov, piena di solitudine e tristezza. Ci fece fare la conoscenza con il mondo magico della Sicilia di Verga. Con lui attraversammo l’oceano Atlantico per fermarci commossi e pensosi nel piccolo cimitero di Spoon River, scendemmo nel profondo sud per riscaldarci ai canti degli Spirituals negri. Ci fece amare Ungaretti, Saba, Montale, Sandro Penna, Cardarelli, Quasimondo e molti altri poeti che, allora, non erano ne’ premi nobel, ne’ comparivano nelle antologie per le scuole

Di queste due esperienze lascerà “Diario di un insegnante” che comprende, tra l’altro, 2 gruppi di poesie, uno dedicato ai ragazzi della scuola di Versuta, e l’altro ai ragazzi della scuola di Valvasone, poesie che lui leggeva proprio a loro durante le lezioni.
Dal 1950 al 1954 prestò servizio presso la scuola media privata di Ciampino. Insegna per necessità economiche, 20 – 25 mila lire al mese. Era scappato da Casarsa per lo scandalo seguito alla denuncia dei genitori di alcuni ragazzi, espulso dal PCI friulano, con un processo giudiziario in corso, si era trasferito a Roma.
Per quattro anni e per ogni giorno partì dalla sua borgata di Ponte Mammolo per arrivare a Ciampino, due ore di mezzi pubblici all’andata e due al ritorno. Smetterà quando il contratto con l’editore Garzanti e le sceneggiature, a cui aveva cominciato a collaborare, gli permetteranno di fare a meno di quello stipendio.

Dal “Diario di un insegnante” si può comprendere come Pasolini si preoccupasse degli aspetti pedagogici e didattici. Riflessioni, scoperte, preparazione delle lezioni, osservazioni sui ragazzi, poesie, racconti, miti per i suoi ragazzi, mai li chiamerà alunni o studenti. A loro, d’altra parte, chiedeva componimenti non solo in prosa.
Dal Diario si può sintetizzare quanto segue:
- i ragazzi odiano studiare perché lo studio non è avventura, ma noiosa convenzione
- se un ragazzo è intelligente ma non studia è colpa dell’insegnante
- l’insegnante deve essere animatore del processo educativo. Non deve essere oggetto d’amore ma saper provocare amore per l’oggetto di studio, saper suscitare la passione per lo studio che si autoalimenta
- l’insegnante deve essere creativo e inventare situazioni dove apprendere è un gioco.
- l’insegnante non si deve abbassare al livello del ragazzo, non serve al processo educativo. È vero il contrario in quanto il ragazzo non vuole rimanere prigioniero del suo mondo ma è alla ricerca di strade per uscirne. E l’insegnante deve offrirgli l’opportunità
- l’insegnante deve però umanizzarsi, farsi scoprire nei sentimenti, nelle debolezze, nella sessualità, nella quotidianità. Questo tenendo un profilo culturale alto.
- la scuola deve far cadere tutti i feticci, in primo luogo quello del ruolo dell’insegnante che col suo potere terrorizza i ragazzi
- proprio per la necessità di abbattere tutti i feticci l’insegnamento della religione non deve essere obbligatorio
- nella scuola la poesia è relegata a un ruolo minore in quanto non utile ai processi produttivi. Bisogna invece dare maggiore importanza alla poesia.
- la poesia è importante perché può innescare il processo creativo fine a se stesso, non utilitaristico, quindi puro.
- si deve cominciare dalla poesia contemporanea perché più vicina per linguaggio e per sentire a coloro che la devono apprendere
- il processo di apprendimento passa attraverso il sentire: percepire emozioni e trovare le parole per esprimerle. Leggere poesia deve voler dire: sentirne le emozioni, scoprire le proprie, associare alle emozioni le scoperte linguistiche per esprimerle
- le antologie sono insulse e sempre vetuste, gli unici libri di testo utili sono i manuali, come la grammatica. Le antologie vanno abolite per essere sostituite da materiali vivi e locali
- il dialetto non deve rimanere fuori dalla scuola, esso è fonte primaria di ricchezza della lingua italiana
- il fine ultimo della scuola è creare cultura

Dunque il giovane insegnante Pasolini degli anni quaranta e cinquanta, dà un alto valore alla scuola, si preoccupa di aumentarne il ruolo e migliorarne la qualità.
Nel 1955 Pier Paolo Pasolini, ancora non famoso, e il giovane Lorenzo Milani individuano e denunziano i guasti ineluttabili di un'ondata di consumismo di cui allora potevano vedersi appena le prime avvisaglie. In una intervista comune diranno: il consumismo ha dilagato, ha travolto ethos pubblico, tradizioni e regimi.
Nell’intervista non ancora si indica la scuola come uno dei canali per trasmettere i comportamenti consumisti, Pasolini lo farà più in là, dopo l’istituzione dell’obbligo a 14 anni.
Negli anni 60 definisce la scuola obbligatoria e di massa: un mattatoio dell’intelligenza e della creatività.
Egli si rende conto che il nuovo potere fascista della seconda rivoluzione borghese ha ceduto alle richieste di maggiore istruzione dei comunisti dei socialisti, ma solo per meglio controllare le classi popolari e più efficacemente sfruttarle.
La scuola e la televisione stanno realizzando il genocidio della cultura italiana.
La scuola è responsabile del processo di omologazione in atto, scriveva infatti che: “tutti parlano una orribile lingua media di frasi fatte e modi di dire veicolati dalla televisione. Tutte le diversità stanno degradando verso i nati morti, ovvero la gente media, i piccoli borghesi”.
All’inizio degli anni 70 troverà assonanza e pensiero compiuto in “Descolarizzare la società” di Ivan Illich, troverà alleanze in alcuni movimenti di estrema sinistra e alcune minoranze cattoliche.

Scheda su “Descolarizzare la società” di Ivan Illich:

- Sono istituzioni manipolatrici scuola, forze armate, prigioni, manicomi, ospizi, orfanotrofi.
……….
- Noi diamo il nome di educazione ad un bene di consumo, ad un prodotto la cui fabbricazione è assicurata da un'istituzione chiamata ufficialmente scuola
……….
- L'insegnante riassume in sé le funzioni di giudice, ideologo e medico, e pertanto una società liberale non può fondarsi sul sistema scolastico moderno: "dai rapporti insegnante-allievo sono infatti escluse tutte le salvaguardie della libertà individuale".
……….
- Occorre invece conferire cittadinanza piena ai ragazzi di dodici anni….
……….
- La descolarizzazione dovrebbe essere la premessa di qualsiasi movimento per la liberazione dell'uomo
.………
- Il rapporto autentico fra maestro e allievo è gratuito ed è un privilegio per entrambi.
…..
Cosa bisogna fare?
La riforma dell'istruzione deve innanzitutto restituire l'iniziativa dell'apprendimento "al discente o al suo tutore più immediato" e togliere l'obbligo di frequenza.
Eliminando le restrizioni all'insegnamento, spariranno anche quelle all'apprendimento
Bisogna rilasciare ad ogni cittadino, fin dalla nascita, una carta di credito educativ.
Le leggi devono estendere a tutti la libertà accademica.
Bisogna creare liberi centri di preparazione aperti a tutti.

Questo l’Ivan Illich del Descolarizzare la società del 1970

Nel 1975, su “Il mondo” Pasolini pubblicherà in 14 lettere settimanali: “Gennariello”. un Pasolini che ha letto Illich, sia quello di Descolarizzare la società, sia quello de La Convivialità.

Il programma enunciato, prevedeva 15 lettere settimanali:

1) Come ti immagino
2) Come tu devi immaginarmi
3) La mia scrittura pedagogica
4) Progetto dell’opera
5) Le fonti educative più immediate
6) La famiglia: il padre
7) La famiglia: la madre
8) La scuola e ciò che vi insegna
9) I maestri
10) I professori
11) Gli altri studenti e coetanei in genere
12) La stampa e la televisione
13) Il sesso (10 paragrafi)
14) La religione (10 paragrafi)
15) La politica (10 paragrafi)

Ne pubblicherà 14 e di contenuto sostanzialmente diverso

studente e pedagogo si scelgono
1. come ti immagino
2. come tu devi immaginarmi
3. ancora sul tuo pedagogo

le fonti, il linguaggio, i temi, il metodo
4. come parleremo
5. progetto dell’opera

le fonti 1: le cose, il linguaggio delle cose
6. la prima lezione me l’ha data una tenda
7. impotenza contro il linguaggio delle cose
8. siamo 2 estranei, lo dicono le tazze da tè
9. come è mutato il linguaggio delle cose
10. Bologna città consumista e comunista

le fonti 2: i tuoi coetanei
11. i ragazzi sono conformisti 2 volte
12. vivono ma dovrebbero essere morti

ogni tanto i maestri divagano
13. siamo belli, dunque deturpiamoci
14. le madonne oggi non piangono più

Soffermiamoci sul progetto educativo che Pasolini presenta nella sua quinta lettera, quella del 3 aprile 1975: Il progetto enuncia le fonti educative, i temi da approfondire, la lingua e il metodo.

le fonti educative
1 - quelle immediate sono mute ma ci parlano, esse sono gli oggetti inerti che ci circondano. Dagli oggetti si riceve la prima educazione, per questo sarà affrontato per primo il linguaggio delle cose. Ma se Pasolini si è formato su certi oggetti del suo tempo, e la sua estetica è inscindibile dalla sua cultura, egli è separato da Gennariello, perché Gennariello si è formato sugli oggetti di oggi, oggetti a lui estranei. Egli come pedagogo potrà tentare di scalfire le altri fonti pedagogiche ma non la fonte oggetti. Gli oggetti hanno formato una separatezza incolmabile, rispetto alla quale nessuno può intervenire.
2 - dopo aver affrontato il linguaggio delle merci, o beni di consumo, passerà alle attuali fonti educative, e cioè i coetanei. Essi sono adesso i veri educatori, i portatori, inconsapevoli e prepotenti, di valori nuovi che solo i giovani vivono, da questo processo educativo i padri, le madri, i maestri, e Pasolini stesso, sono esclusi. Dunque il pedagogo non può scalfire neanche questa fonte.
3 - i genitori, gli educatori ufficiali, o diseducatori. Ovvero cosa accade nelle dinamiche familiari, il rapporto di amore e odio per i genitori. Il pedagogo qui può essere incisivo.
4 - la scuola, ovvero quel luogo organizzato per diseducare, che rende un ragazzo idiota, umiliato, degradato, incapace di capire, chiuso in una morsa di meschinità mentale. Anche su questa fonte il pedagogo può essere incisivo
5 - la stampa e la televisione, spaventosi organi pedagogici privi di alternativa. “Sarò furente con loro” perché essi sono come gli oggetti, non ammettono replica. Il pedagogo può però far acquisire capacità critica rispetto al mezzo, ovvero il suo linguaggio.

Nel trattare le 5 fonti pedagogiche cercherà di essere non scientifico, perché come dice Barthes, si è scientifici per mancanza di sottigliezza, insomma la scienza è grossolana e limitante.

Dopo le fonti passerà ai temi, e cioè:
- il sesso
- il comportamento
- la religione
- la politica
- l’arte


L’atteggiamento sarà pragmatico, con consigli pratici e divertimento nella trattazione. Niente di prestabilito ma tutto lasciato alla spontaneità del divenire relazionale.

Gli aspetti pedagogici:

Che scuola è questa di Gennariello?
È una scuola dove:

1) L’insegnante e lo studente si scelgono, non si impongono a vicenda (non esiste una struttura che obbliga insegnanti e studenti a operare assieme anche se non si piacciono).

2) L’insegnamento è critica dei valori e delle istituzioni dominanti, l’insegnamento libera le coscienze dai lacci e laccioli delle convenzioni, dello scontato, dell’omologante

3) Si recuperano i dialetti, cioè le basi della cultura italiana.

Questa volta con una motivazione in più rispetto agli anni quaranta: i dialetti sono luoghi della cultura popolare ancora non distrutti completamente dal consumismo e dall’omologazione.

4) Si rifiuta l’italiano medio, cioè la lingua del potere, per fare controcultura.
E dove, secondo Pasolini, sarebbero questi luoghi di resistenza o estraneità alla cultura dominante?
In un primo momento nell’Italia rurale preindustriale, nei paesi di campagna, ma poi già ne Le Ceneri di Gramsci, 1957, ne piangerà la morte.
Poi li scopre nel sottoproletariato urbano che vive ai margini, anzi fuori dall’agire dei poteri borghesi.
Infine, via, via che il genocidio culturale si realizza, l’ultima frontiera italiana la trova in Napoli, nel cui humus ha già ambientato, nel 1971, il Decameron.
E ancora nel 75, con Gennariello, egli crede che a Napoli sia possibile una cultura altra.
Infine, vale pena ricordare che nel suo Manifesto per un nuovo teatro, siamo nel 1968, non solo detta le caratteristiche di questo teatro, ma indica anche a chi si deve rivolgere: alle elite intellettuali e agli operai, quindi egli ancora indica nella classe operaia il luogo di una possibile cultura altra: “Non perché gli operai non siano attraversati da fenomeni di imborghesimento, anzi, ma loro possiedono una coscienza di classe che li rende ancora capaci di critica e di alternativa”.

5) Si propone la conoscenza critica del mondo.
Egli, il pedagogo, educa Gennariello alla vita, in un rapporto diretto, improponibile nella scuola di massa, improponibile a livello istituzionale, improponibile nelle compatibilità di un qualsiasi sistema economico e politico.

Riflessioni critiche
Pasolini realizzerà solo in parte il piano editoriale annunciato. Durante la trattazione si lascia scavalcare dalla necessità di intervenire sulla cronaca che lo riguarda. Alla fine si sofferma essenzialmente su 2 fonti, quelle, secondo lui, più determinanti per la formazione di Gennariello: gli oggetti e i coetanei, ovvero, le fonti non scalfibili dal pedagogo.
I temi enunciati non saranno più ripresi, se non marginalmente.
Rispetto al linguaggio delle cose, egli dichiara il suo rifiuto ad apprenderne il nuovo, ne vuole rimanere estraneo, vuole resistere a quello che avanza.
Però egli può trasmettere a Gennariello un atteggiamento critico rispetto ai nuovi oggetti, e soprattutto al consumismo, ovvero al consumare gli oggetti, cambiarli in continuazione anziché conservarli.

Nel presentare la fonte i coetanei, li classifica in Obbedienti e Disobbedienti.
Liquida rapidamente i disobbedienti e si sofferma a lungo sugli obbedienti, in particolare su una sottocategoria da lui definita: “i destinatari ad essere morti”.
Perché i giovani sono tristi e brutti?
Perché se sono belli si deturpano con capelli incolti, barbe orribili, vestiti omologanti?
Si era già espresso in un lungo intervento “I giovani infelici”, nel quale sostanzialmente ritiene che essi pagano le colpe dei padri. E dove sarebbero queste colpe dei padri? “Nel credere che la storia non sia e non possa essere che la storia borghese. In poche parole, i padri hanno tradito la resistenza e sono diventati tutti dei piccoli borghesi”.
In Gennariello aggiunge: “una delle ragioni sta proprio nella larga presenza dei non Benedetti, dei destinati ad essere morti. Sono coloro che la scienza ha salvato, coloro che fino a una ventina d’anni fa sarebbero morti durante i primi anni di vita. Sono dei sopravvissuti, in loro c’è qualcosa di artificiale, di contro natura. Ora, se ci fosse un problema di salvare la specie, la loro salvezza avrebbe un senso, ma essi sono salvati per poi ritrovarsi a non essere benedetti dai loro genitori. I Nati Oggi non sono aprioristicamente benedetti, il giudizio è sospeso, ma sono certamente maledetti “i nati in più”.
Qual è la funzione pedagogica dei sopravvissuti? La loro ansia di normalità li porta ad insegnare:
- il conformismo
- la rinuncia, perché essi devono ridurre al minimo lo sforzo per vivere
- il brutto, perché loro si ritengono tali
I “Vivono ma dovrebbero essere morti” sono l’emblema della classe media.
È meglio che Gennariello non si accompagni a persone del genere, queste persone lo porterebbero inesorabilmente verso il degrado in cui versano i giovani d’oggi.

È inquietante, c’è qualche cosa di odioso, di razzista in queste affermazioni. Come dire che, siccome saranno pessimi soggetti sociali, conservatori reazionari, sarebbe meglio lasciarli morire?
E comunque, se proprio dovessero vivere … è bene non frequentarli.
Forse Pasolini voleva affrontare il discorso dell’aborto?
No, lo ha già fatto in una lettera precedente.
Per sua esplicita ammissione, Pasolini voleva solo trovare una metafora forte per esprimere il suo disprezzo verso la classe media.
E allora, ancora di più rimane un’operazione di cattivo gusto, anzi, nazista.
E se anche così fosse, cioè che i destinati a morire abbassano la qualità del genere umano, e se anche fosse che questi giovani siano tristi e nevrotici, non c’è speranza di guarigione? E chi dispone quale debba essere la qualità del genere umano? Non c’è speranza di recupero?
Solo due, tre anni dopo, nel triennio 77-79, l’Italia si dota di un complesso di norme su:

- il nuovo diritto di famiglia
- l’integrazione di tutti i tipi di handicap, a scuola come sul lavoro
- la chiusura dei manicomi
- il diritto allo studio

Ma Pasolini non c’era più. Avrebbe perseverato nelle sue idee o avrebbe salutato gli eventi come un passo verso l’umanizzazione?

Però gli faremmo torto se non contestualizzassimo Gennariello nel momento che Pasolini stava vivendo.
Gennariello, questo ragazzo fermo nel tempo, che in Italia può essere solo napoletano, ma che l’autore potrebbe indicare in milioni di ragazzi delle bidonville del terzo mondo, riproduce, oramai stancamente, il prototipo del suo amore “peccato innocente” dell’adolescente friulano.
In Pasolini, quando scrive che i giovani sono orribili, era già avvenuto il crollo del presente, come lui stesso lo definì: “il presente è solo dolore”.
È un Pasolini che ha abiurato la Trilogia della vita, dirà per la mercificazione del corpo e del sesso, ma anche perché quella vita semplice dei primordi della borghesia oggi gli appare assolutamente improponibile.
È un Pasolini che ha da poco approfondito Sade delle “120 giornate di Sodoma”, e in qualche modo ne segue lo stile epistolare.
Egli sta girando il suo ultimo film “Salò …”, che, appunto, è un film di una probabile morte necessaria per una improbabile rinascita, che non può esserci, e non ci sarà, anche perché egli non vuole un’altra vita.
È un Pasolini il cui sogno adolescente di ragazzo che batte le rive del Tagliamento è degenerato in incubo. Il rito notturno, che ancora officia e che lo porterà alla morte, è senza amore.
Quei giovani con cui va di notte lui li odia, cosa che ribadirà con forza proprio nell’ultimo intervento sul Corriere, quello del 30 ottobre 1975.
Dunque questo scivolone sui “sono vivi ma dovrebbero esser morti” ci rivela quanto lui nel profondo non abbia più la dimensione del riscatto.

Egli, come precedentemente detto, è contro la scuola perché luogo di distruzione della persona, luogo di diseducazione, di degrado, di omologazione.
Ma è anche contro i movimenti che si oppongono alla scolarizzazione di massa, gli studenti, perché ormai sono solo moda, omologazione e degrado allo stesso modo della scuola.
Dirà: “Ci vorrebbero grandi maestri precettori, persone di cultura, perché queste non sono ferme al presente, perché queste o sono molto avanti o stanno indietro, o tutte e due le cose assieme”.
8 milioni di precettori per 8 milioni di studenti? E che proposta è?
Naturalmente Pasolini, nelle sue provocazioni, opera per paradossi e assolutismi. Poi, nei fatti, nell’agire politico, si mostra persona ragionevole e concreta, pragmatica, come ama dire lui. Non a caso il suo riferimento politico rimarrà sempre il PCI, un PCI amore-dolore, un amore-odio a cui sarà fedele nei rimproveri.
Infatti, a proposito del delitto del Circeo, ritornerà a parlare di televisione e di scuola nei 2 ultimi interventi sul Corriere della sera. In particolare nell’ultimo, Le mie proposte su scuola e TV, egli, nel rispondere a Moravia, ribadisce la sua radicale e utopistica proposta di chiudere la scuola dell’obbligo e la TV, ma chiarisce in modo inequivocabile che: si tratta di una sospensione in attesa di una radicale riforma.
Scriverà:
La prima cosa da fare è fermare il genocidio culturale:
- sospendiamo la scuola media obbligatoria, ... la quinta elementare basta all’operaio e a suo figlio,
- sospendiamo la televisione, l’informazione murale e la bacheca dell’Unità bastano al Quarticciolo per essere sufficientemente informato…
- Realizziamo una radicale riforma, dopo ripartiamo, magari non solo per 8 anni, l’optimum per me sarebbe 15 anni di scuola”


Negli stessi giorni, in un incontro con gli insegnanti di Lecce, si sbilancerà ad improvvisare perfino le nuove materie da introdurre con la riforma: “scuola guida e galateo stradale, problemi burocratici di ogni tipo, economia, elementi di urbanistica, ecologia, igiene, sesso…. e soprattutto aggiungerei molte letture, molte libere letture, liberamente commentate”.

E la Scuola media, dal 1977 al 1979, ebbe processi di riforma, buona parte delle discipline proposte da Pasolini furono introdotte nei Programmi del 1979, l’operatività, la concretezza che auspicava, fu chiaramente enunciata nelle premesse come approccio didattico comune a tutte le discipline, ma non credo che Pasolini avrebbe approvato la nuova scuola media, né tanto meno che si sarebbe illuso di fermare il consumismo italiano.

Tornando alle analisi di Pasolini sulla seconda rivoluzione borghese, noi sappiamo che le sue preoccupazioni sono diventante realtà, anzi si è andati ben oltre.
L’accelerazione impressa dal capitalismo per la conquista di tutto il pianeta terra è tale che ogni persona è continuamente chiamata a modificare conoscenza e rapporto con le cose.
Non è più un problema generazionale, è un problema che riguarda la nostra vita, il rapido modificarsi del linguaggio delle cose è tale da rendere quasi impossibile vivere senza appropriarsi dei nuovi oggetti.
Tant’è vero che da anni si parla di analfabetismo di ritorno, di educazione permanente e formazione continua.
O forse si potrebbe vivere senza?
Si può fare a meno del sistema di comunicazione globale e di tutti gli strumenti e linguaggi necessari ad esserne soggetti attivi?

Che società?
Che società immagina Pasolini al posto di quella fascista consumista della seconda rivoluzione borghese?
Sembrerebbe quella rurale e del proto capitalismo, sembrerebbe, perché in altri interventi, ripubblicati poi in Scritti Corsari, egli respinge sdegnosamente gli attacchi, anche dei suoi amici, che lo accusano di volere l’italietta di prima della guerra.
In questi interventi ricorda come egli sia ancorato all’Italia della resistenza come nessun altro, come egli abbia sempre denunciato il primo fascismo e successivamente il clerico fascismo democristiano, ma ribadisce come, purtroppo, siano loro, i suoi accusatori, a non vedere le nuove e più pericolose forme di fascismo.
Sul nuovo fascismo, quello dei consumi e delle manipolazioni dei media Pasolini aveva ragioni da vendere, egli però sembrava ignorare che tra la vita di quei contadini del Friuli degli anni 30-40, tra la Bologna piccolo borghese degli studi, del suo gruppo di amici, e il fascismo prima, e il clerico-fascismo poi, ci fosse una inscindibile relazione.
E allora?
Allora Pasolini non ha una società da prospettare, egli indica solo luoghi mitici, luoghi che non sono mai esistiti, se non nella forma da lui mitizzata, la sua società è una nostalgia.

E oggi che società abbiamo?

Da: Impero di Negri-Hard

1) Lo sviluppo del sistema globale richiede una continua capacità di contrattazione di equilibri sistemici, quindi una macchina che crea una domanda continua di autorità
2) L’Impero non nasce come atto di propria volontà ma come una risposta a una sua invocazione, l’impero è invocato, auspicato desiderato come strumento capace di risolvere il conflitto
3) L’Impero nasce in nome dell’eccezionalità dell’intervento, la formazione di un diritto che previene e reprime per ricostruire l’equilibrio sociale
4) Una base di valori etici universali, come presupposto del diritto che dà i poteri all’impero, pertanto il diritto di polizia legittimato dai valori universali
5)Stiamo assistendo, inconsapevoli, alla nascita di un nuovo ordine planetario, con la sua macchina amministratrice, le nuove gerarchie di comando globale:
6) Biopotere nella società del controllo: La società del controllo nasce alla fine dell’era moderna ed inaugura l’era postmoderna. Essa è caratterizzata da meccanismi di comando sempre più democratici ed immanenti al sociale. Questi meccanismi vengono distribuiti attraverso i cervelli e i corpi degli individui. Le macchine colonizzano direttamente i cervelli (col sistema delle comunicazioni, comprese le reti) e i corpi (nei sistemi del welfare, nel monitoraggio delle attività, ecc..). L’integrazione e l’esclusione sociale vengono sempre più interiorizzate dai soggetti stessi. Si va verso uno stato sempre più grave di alienazione del senso della vita e del desiderio di creatività. Il potere raggiunge la profondità dei corpi e delle coscienze, nonché tutti i gangli delle relazioni sociali.


Dunque ci stiamo avviando verso la società imperiale, una società nella quale siamo sussunti, nostro malgrado, nel sistema produttivo capitalistico.
Siamo solo una delle tante variabili consentite e compatibili. Naturalmente compresi molti di coloro che si autodefiniscono alternativi, in tutte le accezioni possibili ed immaginabili.
In una tale società il progetto pedagogico di Pasolini è ancora utile?

Sì, perché serve a formare l’uomo, il cittadino, un uomo capace di essere libero, dunque capace di dare contributi enormi alla creatività delle moltitudini.
Ricordo che egli, naturalmente, ritiene non sia compito della scuola formare il lavoratore.

Ogni tempo ha gli intellettuali che si merita
Per concludere, è importante far notare con quanta insistenza nel 1975 Pasolini si preoccupasse dell’educazione e della scuola.
Ma non era solo Pasolini ad occuparsene, la scuola era spesso al centro del dibattito nazionale, soprattutto la scuola media, quella dell’età evolutiva.
Bisogna dire però che gli intellettuali e i politici non agivano nel vuoto, loro sapevano come fossero presenti nel paese esperienze di base significative e rivoluzionarie, ovunque nascevano scuole di base che sperimentavano altri percorsi rispetto alla scuola istituzionale, scuole militanti, fatte di volontari che davano risposte altre alle classi subalterne. La più importante di queste fu certamente la scuola di Barbiana creata da Lorenzo Milani.
Nel 1967 fu pubblicato Lettere a una professoressa, libro che segnò una generazione di giovani e futuri insegnanti.
Pasolini scriverà:
É un libro che mi è piaciuto immensamente perché mi ha tenuto continuamente sospeso fra delle risate che facevo veramente, fisicamente, e dei continui groppi alla gola, cosa che molto raramente succede nel leggere un libro. E si ha questa sensazione davanti a dei libri che riscoprono, con verginità e novità, qualcosa, dando un senso come di vertigine, di libertà nel giudicare il mondo che ci è intorno”.
Ora possiamo immaginare che Pasolini ritrovò tanto di Versuta e Valvasone, le sue due scuole del Friuli, possiamo immaginare una certa soddisfazione per aver precorso quanto avveniva a Barbiana, e anche la nostalgia per quel mondo che aveva dovuto abbandonare per vicende giudiziarie.
In ogni caso Pasolini in seguito, nel commentare le “Lettere alla mamma” di Lorenzo Milani, Mondandori 1973, definirà la scuola di Barbiana “l’unico atto rivoluzionario di questi anni”.

Ai nostri tempi sono i cattolici di destra, Comunione e liberazione in primo luogo, ad essere per la Descolarizzazione, lo sono perché privilegiano il ruolo educativo della famiglia.
Ai nostri tempi è la maggioranza politica di destra a portare avanti un programma contro la scuola.
La riforma che si sta realizzando ha abolito la definizione di obbligo scolastico e sta riducendo la quantità e la qualità di scuola: il 10 % di orario in meno alle medie e fino al 25% in meno alle superiori, per non parlare degli istituti professionali.
La destra sta realizzando Pasolini e Illich?
Non scherziamo. E però:
Perché alla riforma Moratti ci si oppone resistendo sulla scuola attuale, e non proponendo un’altra scuola? Perché oggi non esistono domande così radicali come quelle che poneva Pasolini e risposte così radicali come quelle di Lorenzo Milani o quelle di Ivan Illich?
Perché non si può andare contro la scuola, perché non si può rifiutare la scuola?
È possibile una non-scuola come la immaginò Illich?
O una scuola come la realizzò Lorenzo Milani?
No, certamente la scuola oggi deve essere ancora altro.
La scuola sta vivendo a livello mondiale la più grave crisi della sua storia, ciò che è scoraggiante, e rende tristi, è che sembra non esistere più un pensiero realmente alternativo. Anche in Italia, c’è si un forte movimento di opposizione alla riforma Moratti, ma non esistono esperienze pedagogiche di base che indicano nuove strade.
E senza creatività delle moltitudini non ci saranno soluzioni da proporre.

intervento dagli "Atti del Convegno" di Frosinone
 


 
Pasolini trentanni dopo 
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Antonio Limonciello
[ antoniolimonciello@tin.it ]
 
CANTO PASOLINI
opera in versi tra il poema e il teatro in 3 atti e 42 sequenze
 
atto I


1

un'ombra cupida
muta immagine
vaga tra le botteghe
per le piane e i monti d'Italia
dolente interroga un popolo di stracci
che ha per nemico l'anima
Trema delicata
la voce borghese del poeta
mentre il popolo canta

Infanzia generosa della repubblica italiana
ah nostalgia, il canto popolare
coi poeti a recare scandalo ai potenti
mano tesa agli angoli delle strade
mai resero le armi
brucia nascosto l’animo
mai calarono il capo
viscere tra le mani alle soglie degli altari

Camice bianche
silenziose in cammino
con l'amore nel petto
e la speranza rossa
con lo sguardo rapito
e il sorriso nascosto

Di questi ora spartiscono le spoglie
dita scaldate dal denaro
grigi ragionieri
occhio ai mercati
corsa dal sarto
scorte e sirene spiegate
rose le guance
stracciate le vesti
offertorio sorrisi e lacrime
per lobotomie televisive


2

Approdare a Versuta un pomeriggio d’estate
tra uomini piopp
teneri ragazzi contadini
e uomini tronchi re gelsi nodosi
vecchi arsi dal sole
prendere la bici e correre al Tagliamento
tuffarsi nelle polle d’acqua limpida
camminare per i campi di granturco
organizzare concerti di violino
sfilare sotto le bandiere di carta alle fiere
attendere fuori la sala il tuo arrivo
è il momento, ti avvicino
ti pago il biglietto
segui le immagini, non le capisci
ma siamo vicini
i tuoi riccioli d’oro
spandono odore di erba selvatica
e di stalla
perché hai munto prima di uscire

Questo libro l’ho scritto per te
dissi il giorno che ti incontrai sotto il portico
e tu il pomeriggio mi regalasti una bottiglia di grappa
l’avevi distillata con le tue mani
La domenica dopo stesi nell’erba medica
ci siamo masturbati
correvamo dietro le nuvole
la mia eri tu
dal cielo il mio sguardo si posò sul tuo corpo
il membro eretto e la mano
la peluria rada del pube
la pelle bianca come latte
stridente col bruno dorso virile

Fossi morto quel giorno!
Ho cercato invano di ripetere
lo spasimo di quel desiderio
nelle tenebre di tutta una vita

Partisti e quando tornasti
la nostra adolescenza era finita
Lo devi sapere
ogni notte che esco per il mondo
è per ritrovare quello struggimento perduto
il tempo è fermo ai nostri innocenti peccati

Brucia la pelle dove il tuo sperma cadde
la tua intimità mi raggiunse come folgore
ti ricomponesti e ti girasti verso di me
ero rimasto immobile nella mia nudità
per nulla al mondo mi sarei coperto
prima che tu mi guardassi
volevo che la mia immagine
ti appartenesse per sempre

O forse no
Forse fu il vento della Carnia
a spingere le nostre anime in tempesta
seguimmo i pollini danzare
il ronzio laborioso delle api
ci denudammo e assieme corremmo
tra frotte di ragazzi assiepati lungo le sponde
fischi e urla oscene
non sapevano ma capirono
che il cielo e la terra si erano congiunti
ci seguirono baccanti ai margine del bosco
e lì tutti danzammo l’antico rito della natura

Ancora oggi per separarmi dal mio paradiso
devo produrre assordanti strazi di lamiere
magli, trapani e flex martellano l’aria
infrangono il tuo sapore
calda terra umida di sesso


3

Pronto, Toniuti?
ti chiamo da Roma
sono tra mobili antichi
polvere del tempo
aristocrazia in cerca di santità
Mi sto introducendo
ho un fitto programma quotidiano
venerdì Falqui
Sabato pomeriggio Angioletti e De’Concini
Sabato sera salotto con De Chirico, Isabella Far, Batoli, Velso Mucci, ...
Domenica sera salotto con Falqui, la Mancini, Ferruccio Ulivi, Caproni, G. Petroni
Domenica salotto con Leonetta Cecchi, Scarfoglio, Pellizzi, Batoli, ….
Lunedì arrivo di Fabio Mauri - salotto casa Saffi
……..
mi mancano i nostri profumi notturni
non vedo l’ora di abbracciarti


4

Un bacio sfiorato
elegia della vita
mi hai preso la mano
gli occhi si cercano
tra onde di volti si perdono

morbida cala la sera
tremula la luna
al caldo vapore dei fossi
ti aspetto stasera
tra grilli e ranocchi ti aspetto
tra battiti di ali
al cielo il mio volto

Quando verrai
fermerò il tempo in un respiro
Quando verrai
sarà prima e dopo
Quando verrai
i capelli che celano gli occhi
rendono intimo d'amore lo sguardo
Quando verrai
il cielo addosso mi inonda di stelle
Quando verrai
ci sarà la pioggia a bagnarmi
la terra restituirà l'odore dei corpi
Quando verrai
sento i tuoi baci
le labbra son schiuse e diventano grandi
Quando verrai
il silenzio ci accoglie
e io piango come albero sul fiume

Non parlerò quando verrai
Sono le nove e la notte è lunga
quando verrai
ti terrò il capo nel braccio
sentirai battere il mio cuore per te
quando verrai
fa che il tempo sia giusto


5

Nutrimmo a stento le nostre passioni
tra filari di pioppi canterini
Anna suonava il violino
io dipingevo primule e temporali
mia madre si truccava davanti lo specchio
indossava falsi gioielli
per giocare con le bambole di casa
Mio padre in Africa prigioniero
quando tornò offrì tagliatelle ai miei amici
rimase estraneo
estromesso per sempre dalla famiglia
Guido in ospedale
trauma cranico
botte di giovinastri
parlavano di mie avventure sessuali
oscenità da finocchio
solo contro tutti, lo massacrarono
cosa feci io?
Piansi di commozione per la sua devozione
e dipinsi.
Lo dipinsi ogni giorno
di quella orribile passione
il suo dolore divenne in me poesia

Mio padre perse la guerra
da prigioniero beveva dolore e cattivi liquori
trovò l’Italia insorta e liberata
il suo ritorno fu una resa
vagò per spacci e osterie
lo tenemmo in casa come un relitto
A Casarsa come a Ponte Mammolo
umile segretario
condivise la camera di mia madre
ma non il suo letto
trascinava la spesa
tra il fango invernale e la polvere estiva
i resti della mia famiglia
piegati alla mia disperata voglia di vivere
Lui precipitava verso la morte
io nella vita delle notti libere di Roma


6

Amore d'incanto vestito
striscia il tempo negli occhi
carezza leggera le mani
membri si toccano e piangono la luna
campi romani dolci di primavera
la radio canta un mondo lontano

Oh amici correte a Roma
meraviglioso caldo
ventre buio della notte del mondo
amici qui la vita vi trafigge
di occhi nero carbone
riccioli o lisci capelli
sempre pieni di vita i calzoni

Con loro ho dormito sotto i ponti
a volte appena pagati scappavano
altre volte mi derubavano
ma il ladro sono io
ho rubato la poesia della vita
ho rubato la loro disperazione
ha amato l’estremismo di quell’agire senza futuro
Seduti sui gradini della chiesa di Pietralata
lungo le rive dell’Aniene
ho intinto la mia penna nel loro sangue


7

La notte come un gatto girava
inquieto le stanze e le ombre
stanchezza dell'animo giù
giù tremulo il salto
tremulo il filo
l'affresco pronto
lento mestola il pennello
al lombo del poeta

In rassegna le labbra tumide di Roma
costruì la mappa del piacere notturno
teatro Marcello
il bagno Diana
l’orinatoio di ponte Garibaldi
i platani dei lungotevere
il Colosseo
il Circo Massimo
Villa Borghese
l’Ambra Jovinelli
cinema e giardinetti
gli orinatoi di Termini
e ancora prati e fossi
le marrane e i campi di pallone
i ruderi, i cocci,
tutte le pietre lavate dalla storia
ovunque l’ossessione arrivi

Assenza di libertà
donne Marie e Maddalene
sostituzioni omosessuali
i ragazzi sognando la figa svuotano
gli innocenti coglioni
nelle bocche dei ricchioni
a frotte dalle borgate invadono Roma
acchitati brillantina nei capelli
si prestano al caldo tocco di maschi sapienti
nelle loro fetide camere con puzzo d’urina
hanno appreso la pratica dai fratelli maggiori
o dagli amici dei fossi
La città aggiunge guadagno al piacere


8

Preso di petto
mano tra le gambe
sbattuto nella polvere
gira il pallone
al prossimo contatto te lo toccherò
dolce uccello
amore
sul tetto stanotte io ti succhierò

Nel mio cervello
il cazzo assume dimensioni mostruose
mi divora il corpo
mi rende furia sacrilega
ragazzi in fila entrano dal muro di cinta
mai mi sazierò di questa vita
Sono tubo di scarico che parte dalla testa
e inonda di sperma il mondo adolescente
nei secoli e per i secoli

Umiliami!
al suono delle campane
profana la mia chiesa.
Terrore non posso
la madre in me lo desidera
il padre in me lo impedisce
il fratello in me chiede espiazione
Questi spasimi di vita
che schizzano vicino alla morte
dissodano il mondo
Alle tre un marinaio
alle quattro due ragazzi alla Magliana
alle otto un incontro alla stazione
arriva da Napoli
.... possiamo vederci alle sei
che ne dici?
….
guarda quel ragazzo dai riccioli neri
e dagli occhi ridenti …


9

Ninetto leggero saltella pei fossi
tra papaveri e spighe fischia il vapore
il violino danza dove corre l'avventura
quattordici anni e gli occhi che ridono
è apparso e mi ha rapito
Mai più mi separerò da te
resteremo adolescenti per tutta la vita
sarò per te Sheherazade
luna d'oriente
guida d’amore e saggezza

Elsa
Ninetto si sposa
Si sposa Ninetto!
Perché non dovrebbe?
Fa bene a sposarsi
Cosa gli offri tu
che giorno e notte corri alle ginocchia
di tutti i ragazzi del mondo

Sono venuto a porre
la testa sul tuo grembo
e tu mi regali atrocità
Sono solo, solo
lui si sposa e tu gioisci?
Non sopporti la mia disperata vitalità
gelida donna morta all’amore
Quanta carità nella tua mancanza di carità
Bath verde brumosa mi ha preso la vita
Charlot non sente il mio dolore
piccoli bambini in mano a donne destino

Sarai Aziz
cieco che non conosce amore
tu mio destino mi getti sulla strada
con pelosi consigli
e un nerbo sotto il sedile
nulla mi concede il piccolo borghese
che ora ha preso moglie
Ricordi?
mi dicesti “grazie a Pa’ ”
perché ti avevo cambiato il destino
ora dai il mio nome ai tuoi figli
Io sono Aziza che muore
e tu Aziz frivolo assassino d’amore
il mio martirio cancellerà
la luce dei tuoi occhi
 


 
Pasolini trentanni dopo 
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Ugo Fracassa
[ ugofrcs@virgilio.it ]
 
PPP/P, 55
(nota n.1)
 
Quanta parte del cippo, proteso e dolente come arto fantasma, ciecamente addita l’entità, l’interezza di una vita ridotta a moncone? L’effetto allucinatorio ci dice che la gran parte di quell’esistenza è rimasta incompiuta, perché la stele mutila ingigantisce il vuoto che la compie. A Siena, il duomo rimpicciolisce a paragone del corpo di fabbrica che dal transetto si estende a navata, facendo di quella eretta, a sua volta, transetto di un edificio invisibile e abnorme. D’altra parte, ciò che nell’arte non è rifinito, come pure i reperti smembrati della statuaria classica –quanto dei prigioni michelangioleschi emerge dal marmo, come la perspicua anatomia del torso apollineo di Nestore- precipitano lo sguardo sul particolare, enfatizzandone la perfezione parziale. Entrambe le esperienze estetiche si realizzano nella lettura di Petrolio, il “poema” pasoliniano pubblicato, con le dovute cautele filologiche, postumo e incompleto in forma di brogliaccio. Intanto, la materia narrativa si interrompe con l’Appunto 133, a meno di cento pagine dall’inizio della seconda parte, annunciata dopo le quasi cinquecento di appunti relativi a quella precedente. Da alcune dichiarazioni dell’autore appare chiaro che quanto giunge a noi non esaurisce neanche un quarto dell’opera progettata. Forte è perciò l’illusione di monumentalità, come di colonna cessata sotto l’entasi. Peraltro, nella congerie di annotazioni accumulate, spesso altamente frammentarie, incoerenti e provvisorie, spiccano rari episodi ad alto tasso di formalizzazione interna, tra tutti quello intitolato al “Pratone della Casilina”: immediata la sensazione di pregio di una scena talmente lavorata da risultare miniata.

Lo spiazzo erboso, di cui nel titolo, è il teatro, illuminato al margine della città da una luna estiva, dell’incontro tra Carlo di Tetis, protagonista (col suo doppio, Carlo di Polis) del romanzo, e venti adolescenti romani che, a turno e in cambio di danaro, gli concedono favori sessuali. L’Appunto 55, tuttavia, si interrompe inopinatamente al nono dei venti giovani arruolati –“Venti! Erano un piccolo esercito”– riproponendo nella microstruttura il peculiare squilibrio macrotestuale e consentendo ipotesi critiche circa il precario statuto di questo abbozzo romanzesco, sulle quali torneremo. Sintomatico, il nome di Viktor Šklovskij compare a chiusura di un elenco di autori che Pasolini raduna attorno all’idea di Petrolio e, sottinteso in questa affermazione: “Il mio non è un romanzo a schidionata, ma a brulichio”, aleggia in una dichiarazione programmatica: “la mia decisione è quella non di scrivere una storia, ma di costruire una forma: forma consistente semplicemente in qualcosa di scritto” (non diversamente il carattere di Don Chisciotte era, per l’autore di Teoria della prosa, mero prodotto della costruzione del romanzo). Non sorprenda perciò la fortissima coesione, esterna ed interna, di questo breve testo in un romanzo nato sotto auspici formalisti, anzi, un’analisi appropriata dello stesso non ne sottovaluterà l’architettura fatta di parallelismi e simmetrie calcolatissimi pur tra le macerie trasportate da una narrazione alluvionale.

Il racconto procede secondo un evidente schema ad elenco, modalità apparentemente priva di sostanza retorica ma invece letteraria come ogni figura (2). Le tecniche utilizzate nella descrizione delle varie sessioni coitali puntano a rendere vario ciò che è costante e diverso ciò che è comune per non incorrere nella noia, che Pasolini riconosce come attributo della pornografia; ciononostante, non sempre lo sforzo risulta perfettamente dissimulato, per esempio non nel caso di quel ragazzo che con un ciao “personalizzava il suo turno” ma, nello stesso tempo, scopriva le carte dello scrittore come capita in un lapsus. Si trattava insomma di rappresentare il campionario di genitali, oggetto di minutissimi resoconti, variando sull’unica corda della dimensione, inevitabilmente ragguardevole in quanto amplificata dal desiderio di Carlo e dal turgore di rito. L’effetto si ottiene con l’estensione dell’idea di superlativo relativo oltre i limiti meramente grammaticali, tale che i nove elementi risultano nell’ordine – grande, più grande, bello grande, più lungo, medio ma pareva più grande, enorme, normale ma più duro, forse non più grande ma pareva il doppio ecc. Fondate ragioni economiche ed ideologiche, tra l’altro, misurano e decidono l’entità degli attributi virili. Secondo una mitologia tutta borghese circa la naturalità del proletariato -mitologia di cui il narratore si dimostra pienamente consapevole come si evince dall’incontro dell’altro Carlo con Salvatore Dulcimascolo (“Egli si aspettava […] un membro come il suo, o come quello di qualche suo compagno di scuola, che aveva appena intravisto, ai gabinetti, o negli spogliatoi dei campi sportivi. Questo invece era molto più grosso, […] e come di altra materia: era un altro sesso, proprio quello che il mito del popolo faceva immaginare a Carlo”)– se nel drappello di fornai, meccanici, manovali, garzoni e muratori radunato sul montarozzo del pratone si nasconde un solo borghese, il parrucchiere Gianfranco, a lui toccherà portare il solo membro inferiore alle aspettative. Gli altri giovani, non diversamente da quelli immortalati nei versi di Penna, si riconoscono a naso in quanto membri della classe lavoratrice: “dai panni di Sandro emanava un certo buon odore di farina”, la tuta di Sergio “odorava molto forte di ferro”. Tornando all’elenco, esso risulta altresì scandito in maniera iterativa da stacchi –il cambio di turno tra i ragazzi- che inanellano la teoria degli incontri sessuali con regolarità tale da governarne l’escursione emotiva dopo il climax di ogni orgasmo: “il primo che era venuto dietro a Carlo era Sandro” / “un altro si staccò, lui pure di corsa, dal gruppo che aspettava” / “Intanto già stava arrivando di corsa …” / “Quello che adesso arrivava, il sesto…”. A partire dall’ablativo assoluto dell’incipit – “Carlo, presi questi accordi, fece qualche passo avanti sul prato” - l’Appunto 55 si caratterizza per il tono quasi neotestamentario di queste interlocuzioni narrative – “Questo era pensato da Carlo” / “Dal gruppo veniva avanti Pietro” / “Il nome di questo secondo ragazzo era Sergio” – che contribuiscono a modulare la monotonia descrittiva dell’elenco. Con maggiore precisione, la lingua che vi risuona è quella di una traduzione ecclesiastica dal latino del sermo piscatorius degli evangelisti. Tale è la suggestione –indotta pure da un titolo del Pasolini regista– che la struttura complessiva del brano (litania delle erezioni periodicamente interrotta dall’intervento del narratore onnisciente come voce fuori campo) pare ad antifona. Naturalmente una simile scelta stilistica non è senza rapporto col contenuto della pagina che anzi, dietro un’apparenza blasfema, cela un’ispirazione religiosa fondata sull’esperienza sessuale come epifania del sacro. Per due volte viene evocato il “miracolo”, la prima in relazione ad un incontro sessuale che sta per compiersi, l’altra a una penetrazione in atto; vi è poi la “semplicità quasi santa” del più ingenuo dei ragazzi assoldati. Un discorso a parte merita una scelta lessicale, inusitata, che Pasolini compie relativamente alla rappresentazione della dinamica dell’orgasmo, fenomenologia ampiamente codificata nella narrativa pornografica (alla quale Pasolini eccepiva esclusivamente su base estetica): in luogo di bagnato, umido ecc. l’autore di Petrolio scrive “unto”. Il vantaggio consiste nel guadagno connotativo che l’aggettivo assicura per gli automatismi che lo associano, in ambito religioso, all’ “estrema unzione” o al sintagma: “unto dal signore”. Ecco, perciò, che il pene detumescente di Sandro, “lucido del seme”, appare “unto” e: “quell’unto aveva qualcosa di sacro”. Ma qui la contraddizione pasoliniana tra cuore e viscere trova una composizione metafisica se l’aggettivo, sempre associato nelle numerose occorrenze all’ambito sacrale, in una sola eccezione qualifica invece l’essere proletario: “Pietro vi era come insaccato [nella tuta], benché la ‘saracinesca’ fosse tutta aperta, fino al cavallo, e, sotto si intravedesse la maglietta rossa, resa oscura anch’essa dall’unto dell’officina”.

L’ambientazione concorre, complice Dante, all’interpretazione “religiosa” del testo, in virtù di straordinarie condizioni atmosferiche: la scena si apre sotto un cielo “con qualche nuvola spennellata appena nel suo indaco profondo; la luna in mezzo a quel cielo, che da rossa stava diventando di una luce fresca e purissima, con accanto, altrettanto luminosa la fedele piccola stella del crepuscolo (…) Tutto il cosmo era lì”. Neanche Leopardi può dirsi estraneo a “quella luna” che, transitata qualche pagina prima dal suo zenit, assiste ad avvenimenti che sospendono sulla terra il progredire lineare del tempo e lo rendono “relativamente infinito”: “Anche stavolta la cosa fu lunga oltre ogni possibile immaginazione. Anche stavolta la luna, con la sua piccola compagna, mestamente scintillante, parve essersi visibilmente spostata nella volta del cielo”, come fa avviandosi al suo tramonto. Il sentimento panico di armonia cosmica viene amplificato, a sua volta, dall’esperienza carnale dell’essere posseduto: “Visto con l’occhio incollato al terreno, il cosmo era ancora più assoluto”. A poche righe dall’ interruzione dell’Appunto, finalmente leggiamo che quella notte era stata “secca e odorosa come un mezzogiorno”, ovvero che il macrocosmo partecipava dell’ambiguità fisiologica di Carlo, insieme maschio e femmina, con una straordinaria lunazione meridiana. Quattro “momenti basilari del poema”, infatti, danno conto delle cicliche mutazioni sessuali dei due Carlo, mutazioni che tuttavia pare di poter riferire ad un ambito di significazione allegorica, ben attestato nella materia narrativa di Petrolio. Carlo è maschio e femmina nella stessa notte, come accade per condensazione nel lavoro onirico e con lo stesso effetto di inconfutabilità tipico del sogno. Anche in questo caso, infatti, la meccanica di una penetrazione particolarmente laboriosa e malagevole -“voleva estrarlo completamente, ci provò e non riuscì poi più a infilarlo di nuovo (…) un po’ annaspando con le mani, riuscì a infilarglielo”, “Dopo alcuni minuti, benché a Carlo paresse impossibile, egli sentì il cazzo indurito cercare e spingere tra le sue cosce, [cercando] l’orifizio alla cieca, come i cani”- svela la natura sodomitica del coito, nonostante qualche pagina prima, a proposito di Fausto si legga: “sciogliendosi dentro il ventre di Carlo e fecondando forse per una delle prime volte della sua vita”, annotazione immediatamente contraddetta in clausola dal motto finale dell’adolescente borgataro, evidentemente estraneo alla logica allegorica: “-Che ber culo che ciài- disse infatti alla fine rialzandosi”. Almeno altre due occorrenze lessicali insistono su questa anfibologia, precisamente: la “smania quasi isterica”, con la quale Carlo aspetta ordini da Erminio, riconduce in etimologia all’utero (hystéra); “la glande”, curiosità verbale che merita una postilla filologica del curatore, di nuovo chiede legittimazione al femminile etimologico di ghianda.

Proprio l’estraneità del protagonista all’universo culturale di cui sono espressione i venti giovani renderebbe necessaria –secondo un’interpretazione antropologica- la mediazione omosessuale, allo scopo di instaurare una comunicazione, seppur degradata (agli occhi dei giovani il comportamento di Carlo è sinonimo di umiliazione: “Nel ‘lavorare’ egli cercava di far sentire a Sandro la sua solerzia e la sua umiliazione”), capace tuttavia di aprire un accesso, secondario e temporaneo, al loro mondo. Uno di loro è una recluta e spesso la metafora militare fa del manipolo una squadriglia; la caratteristica di questi giovani è la condivisione di una socialità, fanno gruppo e usano in modo inconsapevole del terribile potere di es/in-clusione in quanto maschi (“le donne non hanno prestigio bastante per simbolizzare ai suoi occhi [dell’omosessuale] la società che l’ha escluso; poiché sono gli uomini a fare la legge e si arrogano il diritto di giudicarlo, soltanto la sottomissione può riscattarlo, umiliando davanti al lui il suo sesso tutto intero” –J.P. Sartre, Santo Genet, commediante e martire). A conferma di una simile interpretazione, si ripete nel testo quella che potrebbe definirsi minzione rituale: “[Claudio] si sbottonò i pantaloni, e tirò fuori agilmente il cazzo. Non per divertirsi subito con Carlo, però, ma semplicemente per pisciare (…) E pisciava proprio in direzione di Carlo, mentre nel suo sorriso c’era ora un’espressione insolente, di sfida”. Così pure Erminio, non a caso caratterizzato come minaccioso e più adulto rispetto agli altri, “voltandosi [pudicamente] verso il fondo del prato, cominciò a pisciare”. Non meno emblematico, infine, l’iniziale imbarazzo di Gianfranco, il borghese del gruppo, ovvero il meno integrato col gruppo dei pari, malevolmente sollecitato da Carlo a rispettare il protocollo: “–Piscia-, disse a Gianfranco. -Nun me scappa- rispose il ragazzo”. È stata Ida Magli ad obiettare alle tesi di André Leroi–Gourhan, circa la definizione di cultura basata sul concetto di proiezione, di esteriorizzazione al di fuori dell’organismo biologico, che, prima della mano, il pene è il membro capace, con la stazione eretta e le sue conseguenze paleontologiche sullo sviluppo dell’apparato cerebrale, di proiettare fuori di sé un getto (sperma, urina) separando e designando l’oggetto colpito come altro da sé. A questa interpretazione antropologica del processo di costruzione della cultura l’Appunto 55 risulta particolarmente coerente.

L’inappartenenza di Carlo all’ethnos del lumpenproletariàt capitolino ha pure una sua misura linguistica, quella che divarica il suo standard dalla varietà dialettale romanesca, isolata da un cordone sanitario fatto di apici, per i termini regionali assunti nelle descrizioni (montarozzi, saracinesca, cigolini ecc.), e di virgolette, per le performances dei parlanti(3). Tuttavia, a testimoniare l’efficacia e il rischio della comunicazione sessuale, certe precauzioni cadono proprio durante il rapporto, che risulta così linguisticamente non protetto. Se, infatti, il narratore riconosce in sede preliminare da certi segni che “era tanto che Sandro ‘non se ne veniva’ ”, la stessa locuzione, quando riferisce in tempo reale di un orgasmo in corso, interviene priva di profilassi tipografica: “[Fausto] Se ne venne come rapito in estasi”. Fatta eccezione per simili cedimenti, comunque, tutta la narrazione tenta di opporre alle accensioni emotive capaci di attivare la funzione poetica (“mise il naso a pochi centimetri da quel cazzo [sorprendente], e lo contemplò da vicino … contro il fondo del prato e il cielo sulle lontane tremolanti luci dei palazzoni, sprofondati nella luce azzurrina della luna”) tecniche di straniamento affidate soprattutto agli interventi di un narratore onnisciente che non disdegna di appellarsi al lettore (“A questo punto, mio lettore, comincia intanto col non sorridere all’accenno al cosmo”) e non è alieno a certe improponibili movenze manzoniane calate con intento apertamente parodico (“Questo pressappoco pensava Carlo mentre era chino ad ‘accontentare’ il ragazzo).
L’appunto 55, da ultimo, come accennato già a proposito della scenografia cosmica imbandita intorno alla notte selvaggia del protagonista, per l’interna articolazione si pone come tessera altamente definita in un mosaico largamente incompleto e conosce, oltre alla scansione antifonale individuata, uno snodo mediano –con precisione aritmetica, a metà del quarto dei nove incontri- che dista dall’interruzione finale dell’Appunto approssimativamente la medesima decina di pagine che lo separa dall’ incipit. Ecco la giuntura centrale evidenziata da un segno di cesura: “In quel cazzo (…) egli vide quelli, che aveva per sempre perduti di Sandro Sergio, Claudio, mentre lo prendeva una voglia struggente di quelli che dovevano ancora venire” // Pareva che solo adesso egli si fosse ridestato come da un sonno o da una forma artificiale di ipnosi o apatia”. Insomma, nonostante il novero dei giovani corpi si esaurisca al nono su venti, la ventinovesima pagina del racconto è concepita come conclusiva, anzi costituisce una vera e propria clausola, con l’evocazione di divinità infere, simili a quei giovani e vaganti con essi per il pratone, col riferimento al culto di Penati e Lari che inscrive la tematica del sacro in un contesto pagano e la colora a ritroso di toni funerei e demoniaci. Nel nome di questi esseri “divini, ma nel tempo stesso umili, soggetti e fedeli come cani”, perciò, l’Appunto 55 è da ritenersi perfettamente compiuto. L’analogia delle proporzioni tra l’apparente supposta incompletezza del “Pratone” (9 corpi su 20) e quella di tutto Petrolio (500 pagine su 2000 previste) invocata all’inizio, permette a questo punto di ipotizzare che il progetto del poema fosse in sé inesauribile e, perciò, suggerisce di sottrarlo alla definizione di incompiuto nella sua accezione classica e di attribuirgliene invece una coniata per l’occasione, di romanzo privo di termine ovvero s-terminato.

1) L’acronimo individua, nel dattiloscritto originale di Petrolio, autore e titolo, cui si aggiunge qui la numerazione del frammento oggetto di questa lettura.
2) In quanto ad artifici a ridotto gradiente retorico, si cita pure lo stilema tipicamente pasoliniano che consiste nella giustapposizione di accrescitivo e diminutivo (“palazzoni vs casette, cespuglietti vs pratone ecc.), tropo puerile che si addice ai clienti della Casilina. Da notare che il titolo ripete la stessa figura grazie al falso diminutivo del toponimo (Pratone vs Casilina)
3)Per la verità Pasolini aveva utilizzato esclusivamente le virgolette alte senza distinguere tra gerghi, koiné regionale e dialetto ma distinguendoli complessivamente dall’italiano di Carlo.
 


 
Pasolini trentanni dopo 
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Giuseppe Panella
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PASOLINI TEOREMA
Dalla logica della narrazione alla narrativa per immagini. Appunti provvisori
 
«È probabile che il tempo abbia già impreso a sfoltire l’opera di Pasolini. Né qui si è voluto discorrere della sua narrativa più nota, che ci sembra di affannoso respiro; mentre alcune pagine di fierissima compattezza stilistica, poemi in prosa, più intensi, spesso, di quelli delle raccolte di versi, si leggono in Alì dagli occhi azzurri; dove si avverte l’incontro di Pasolini con l’onirismo ‘infame’ di uno scrittore come Jean Genet. Ma la sua opera che, in un suo senso, è mostruosa, ossia obbediente a uno dei precetti di Rimbaud (“bisogna farsi un’anima mostruosa”, 1870), in un altro senso si richiama perfettamente al passaggio fra manierismo e barocco. Là dove quasi tutti i poeti suoi contemporanei o immediati predecessori si mantenevano una via d’uscita, una via di salvezza mediante il riserbo, il silenzio o la cosiddetta ‘decenza’, di cui Montale aveva parlato, egli aveva avvertito la necessità morale dell’ ‘indecenza’, del “testimoniare lo scandalo”, del trionfo dell’indegnità e dell’eccesso. Alla sua morte alcuni autori e critici della ‘Nuova Avanguardia’ invecchiata, che già lo avevano combattuto in vita, hanno scritto o detto che con lui era morto l’ultimo rappresentante dell’equivoca simbiosi di vita e di opera. Certo. Ma perché quella convivenza, tardoromantica e decadente, non si dia più, troppe cose devono scomparire nella struttura sociale e nell’organizzazione culturale; fra cui la stessa possibilità di una letteratura “d’avanguardia”. In attesa, anche chi, per coerenza a una propria idea di poesia e di rivoluzione, credette di dover opporre alla disperata voracità e genialità di Pasolini una masschera di insensibilità filistea, onora quella sua fulminea parabola autodistruttiva e disprezza la prudente amministrazione di sé, che è stata di tanti suoi critici».
(Franco Fortini, Attraverso Pasolini, Torino, Einaudi, 1993, pp. 171-172)

1. Il teorema del cinema: racconto o espressività?

Qual è il compito del cinema? Rappresentare o raccontare? Mostrare attraverso immagini di puro flusso visuale il desiderio poetico racchiuso nel suo autore o narrare in maniera anche ellittica o disincarnata una storia esemplare (non foss’altro che per il piacere che dà a chi lo guarda)? Far vedere o far guardare (riprendendo una determinata e classica dichiarazione di Jean-Luc Godard) (1)? L’accusa rivolta a Pasolini di essere un “burocrate” (2) non deve far pensare a un possibile disprezzo di Godard nei suoi confronti; tutt’altro. Solo che alla domanda su che cosa sia più importante se guardare o vedere, se raccontare o mostrare, i due registi risponderebbero in modo totalmente diverse: se Godard non raccontava storie ma le mostrava soltanto concentrandosi sulle immagini (si pensi all’assenza di narrazione di Pierrot le fou del 1965, ad esempio), in Pasolini la narrazione non può prevalere sulla poesia (anche se finisce per fare corpo con essa) ma è, tuttavia, la sostanza della scrittura cinematografica. Il caso di Teorema (1968) è a questo riguardo esemplare. Questo film controverso e bellissimo è, in realtà, a mio avviso, il vero turning point nella produzione cinematografica di Pasolini. In esso, per la prima volta, le immagini fanno vedere qualcosa e non mostrano soltanto. In realtà, dimostrano una tesi (poeticamente dispiegata) che fa corpo con il dispiegarsi del film. A che conclusioni era, infatti, arrivato Pasolini nelle sue riflessioni sul “cinema di poesia” (quelle che poi saranno consegnate al corpus dottrinario di Empirismo eretico del 1972)? :

«Il “cinema di poesia” – come si presenta a qualche anno alla sua nascita – ha dunque in comune la caratteristica di produrre film dalla doppia natura. Il film che si vede e si accepisce normalmente è una “soggettiva libera indiretta” (3) , magari irregolare e approssimativa – molto libera, insomma: dovuta al fatto che l’autore si vale dello “stato d’animo psicologico dominante nel film” – che è quello di un protagonista malato, non normale – per farne una continua mimesis – che gli consente molta libertà stilistica anomala e provocatoria. Sotto tale film, scorre l’altro film – quello che l’autore avrebbe fatto anche senza il pretesto della mimesis visiva del suo protagonista: un film totalmente e liberamente di carattere espressivo-espressionistico. Spia della presenza di tale film sotterraneo non fatto, sono, appunto, come abbiamo visto nelle analisi particolari, le inquadrature e i ritmi di montaggio ossessivi. Tale ossessività contraddice non solo la norma del linguaggio cinematografico comune, ma la stessa regolamentazione interna del film in quanto “soggettiva libera indiretta”. È il momento, cioè, in cui il linguaggio, seguendo un’ispirazione diversa e magari più autentica, si libera dalla funzione, e si presenta come “linguaggio in se stesso”, stile. Il “cinema di poesia” è in realtà, dunque, profondamente fondato sull’esercizio di stile come ispirazione, nella maggior parte dei casi, sinceramente poetica: tale da togliere ogni sospetto di mistificazione alla pretestualità dell’uso della “soggettiva libera indiretta”. Tutto questo, cosa significa? Significa che si sta formando una tradizione tecnico-stilistica comune: una lingua, cioè, del cinema di poesia. Tale lingua tende a porsi ormai come diacronica rispetto alla lingua della narrativa cinematografica: diacronia che sembrerebbe destinata ad accentuarsi sempre più, come accade nei sistemi letterari. Tale tradizione tecnico-stilistica nascente si fonda sull’insieme di quegli stilemi cinematografici, che si sono formati quasi naturalmente in funzione degli eccessi psicologici anomali dei protagonisti scelti pretestualmente: o meglio in funzione di una visione sostanzialmente formalistica del mondo (informale in Antonioni, elegiaca in Bertolucci, tecnicistica in Godard ecc. ecc.). Esprimere tale visione interiore richiede necessariamente una lingua speciale, coi suoi stilismi e i suoi tecnicismi compresenti all’ispirazione, che, essendo appunto formalistica, ha in essi insieme il suo strumento e il suo oggetto. La serie degli “stilemi cinematografici”, così nati e catalogati in una tradizione appena fondata e ancora senza norme se non intuitive e direi pragmatiche – coincidono tutti con dei processi tipici dell’espressione tipicamente cinematografica. Son fatti linguistici puri, e quindi richiedono espressioni linguistiche specifiche. Elencarli significa tracciare una possibile “prosodia” non ancora codificata e funzionante, ma la cui normatività è già potenziale (da Parigi a Roma, da Praga a Brasilia) » (4).

Il linguaggio del cinema, dunque, è fatto di figure stilistiche il cui significato è mutuato dalla letteratura e il cui senso è dato dalla realtà che mostrano: un insieme di rapporti tra oggetti rappresentati e modalità di funzionamento della rappresentazione che costituiscono il modo in cui il cinema rimanda la realtà al suo spettatore. Non rivelazione mimetica né pura metafora del reale, il cinema affronta e si confronta con una realtà fatta di ambiguità stilistiche: ne faranno fede successivamente le “passeggiate nei boschi cinematografici” di Totò e Ninetto in Uccellacci e uccellini del 1966 e la riflessione altrettanto meta-cinematografica di Edipo re del 1967. In essi le icone del reale si inseguiranno in un percorso metaforico
conseguente alla natura stessa del rapporto esistente tra immagini e realtà. Ma quale sarà la differenza tra questi film e Teorema di due anni dopo? Fino a che punto Teorema sarà soltanto “cinema di poesia” e non nasconderà tra le sue pieghe una più precisa “volontà narrativa”?

2. Il corpo seduttivo e l’epifania del sacro

Teorema viene realizzato nel cuore del Sessantotto e ne subisce (apparentemente) tutte le vicissitudini sociali, politiche e ideali. Ma non è un film del Sessantotto e/o sul Sessantotto. E’ un film sulle contraddizioni del Sessantotto, semmai – ma è soprattutto un film sull’impatto del Sacro su una società ormai de-sacralizzata e de-mitizzata come quella che la borghesia prepara all’interno della cultura italiana di quegli anni (e i cui esiti si vedranno meglio in futuro). L’occasione della sua uscita nelle sale sembra tanto importante a Pasolini che per l’occasione decide di non pubblicare soltanto la sceneggiatura del film (come era accaduto con tutti i suoi film precedenti – da Accattone in poi) ma di trasformarla in un romanzo (5). Era dal 1959 (l’anno di Una vita violenta (6) che Pasolini non utilizzava questa forma linguistica che all’inizio (con Ragazzi di vit del 1955) gli era sembrata la più congeniale ai suoi intenti e al suo progetto stilistico di scrittura:

«Il 1968 cinematografico di Pasolini si apre con la realizzazione di Teorema, un film che, nella sua disarmata e feroce provocazione, verrà attaccato con violenza da ogni parte: dallo Stato, che lo porrà sotto sequestro intentando nei confronti dell’autore un processo per oscenità; dai benpensanti e dalle destre, accomunati dal disgusto per l’uso spregiudicato e “perverso” della sessualità; dalla critica della sinistra “militante”, da cui sarà accusato di “misticismo”, “reazionarietà” e “religiosità”; e infine anche dal mondo cattolico, che dopo aver conferito al film a Venezia il premio dell’OCIC (Office Catholique International du Cinéma), ha successivamente preso le distanze dalle dichiarazioni dell’autore, soprattutto riguardo all’associazione tra sessualità e senso del sacro. Teorema è insomma il film che più di ogni altro traccia con definitiva nettezza la posizione di progressivo, totale isolamento intellettuale di Pasolini, che sarà trasformato di lì a poco in una specie di “mostro del dissenso” da esorcizzare “facendolo parlare”. Dell’importanza cruciale che l’autore attribuiva al “teorema” che è alla base del film, è segno il fatto che egli abbia esitato a lungo sulla forma attraverso cui esprimerlo: nato come una tragedia in versi (7), Teorema si sviluppa poi come abbozzo letterario composito, a cavallo tra la versificazione e il racconto-inchiesta per frammenti, per assumere infine autonomia dall’opera letteraria in quanto traccia cinematografica, traccia nella quale Pasolini approfondisce ed estremizza la ricerca formale già intrapresa con Edipo re, quella della rinuncia progressiva all’espressione verbale, e alla preponderanza dell’immagine silenziosa, piena, liberata dal vincolo didascalico borghese» (8).

Non a caso Teorema (prima che scorrano i titoli di testa del film) si apre sulla visione di un intervistatore (il recentemente scomparso Cesare Garboli) che chiede angosciato agli operai di una grande fabbrica che si recano al lavoro se la borghesia possa redimere e riscattare se stessa: “Un borghese, anche se dona la sua fabbrica, in qualsiasi modo agisca, sbaglia?”. Poi scorrono i sobri titoli di testa. Un postino che significativamente si chiama Angelo (Ninetto Davoli ancora una volta) porta un telegramma alla villa di un industriale milanese, corteggia un po’ la domestica Emilia (una splendida e ancora giovane Laura Betti) e va via: è l’annuncio (la notizia che aprirà la strada all’evento) dell’arrivo dell’Ospite, un giovane bellissimo e misterioso che verrà tra poco a risiedere presso la famiglia che abita nella grande casa in campagna. I membri di essa sono quelli che tradizionalmente ne permettono (e da sempre) la sopravvivenza in tutte le epoche del dominio della borghesia: un padre, una madre, un figlio e una figlia.
L’Ospite arriva: l’icona prescelta da Pasolini per incarnarlo è il corpo allora ancora prestante di Terence Stamp. Il giovane (che dalle dispense che consulta risulta forse essere uno studente in ingegneria) più che dallo studio sembra però maggiormente attirato dalla lettura dell’edizione Feltrinelli delle Oeuvres/Opere di Arthur Rimbaud nell’edizione e traduzione a cura di Ivos Margoni (l’unica allora ad essere disponibile, peraltro, in un testo decente). Singolare destino di un attore come Stamp! (sfiorito poi assai in fretta e passato a ruoli di uomo maturo): due anni dopo, nel 1970, interpreterà proprio il ruolo di Arthur Rimbaud in Una stagione all’inferno, un film del poeta Nelo Risi sullo scrittore francese e sul suo sodalizio letterario ed erotico con Verlaine dal risultato incerto (una pellicola non perfettamente riuscita e un po’ troppo aneddotica con una sceneggiatura scritta in collaborazione con Raffaele La Capria).
La prima ad essere soggiogata, dominata, affascinata dalla vista del giovane bellissimo è la domestica Emilia che rivela il proprio desiderio di essere posseduta da lui mediante un goffo tentativo di suicidio attuato attaccandosi maldestramente al tubo del gas:

«Un po’ alla volta la contemplazione di quel corpo diventa insostenibile. Ed essa si rivolta inferocita contro la propria tentazione. Torna a scappare, ma questa volta in maniera ancora più clamorosa: ossia piangendo e quasi urlando, come presa da un attacco di isteria. Calpesta l’erba del giardino, come una pecora matta, rientra affannosamente in casa. Riattraversa il soggiorno, si precipita dentro la cucina, e, con un gesto violento ma un po’ sognante e idiota, stacca il tubo del gas, come se volesse addirittura ammazzarsi. Il giovane, stavolta, per forza di cose, ha dovuto accorgersi di lei, e interessarsene. Non può non aver sentito quel pianto e quei singhiozzi pazzi, non può aver intravisto la fuga della donna, che chiaramente pretendeva di essere guardata e presa in considerazione da lui. Quindi la segue quasi correndo, come lei, e la raggiunge nella cucina. Qui la vede, appunto, compiere quei suoi gesti esaltati di pazza protesta. La soccorre. Le strappa il tubo del gas dalle mani, cerca di animarla, di confortarla, di trovar modo di interrompere quel seguito inconsulto di dolore che non riconosce più nulla. La trascina nella sua stanzetta e la distende sul letto: la distende, mentre già Emilia comincia ad agitarsi e a sospirare con meno folle affanno e a mostrare il desiderio di essere calmata e consolata»(9) .

L’Ospite dormirà in casa dividendo la camera con il Figlio Pietro (Andrès José Cruz Soublette) che è suo coetaneo. Quest’ultimo apprenderà dalle proprie difficoltà di rapporto con l’Ospite (farà fatica a spogliarsi davanti a lui prima di andare a letto) della propria vera “vocazione” e finirà per avere un rapporto sessuale (timido e incerto) con lui:

«Piano piano egli tira giù la leggera coperta posata sul corpo nudo dell’ospite, facendola scivolare lungo le sue membra. La mano gli trema, e gli esce quasi un gemito dalla gola. Ma a quel gesto, che lo scopre fino al ventre, l’ospite di colpo si risveglia. Guarda il ragazzo curvo che compie su di lui un atto così assurdo, e subito i suoi occhi si riempiono di quella luce che già gli conosciamo... di quella luce di padre pieno di una confidenza materna... che insieme è comprensiva e dolcemente ironica. Pietro alza gli occhi dal ventre, già scoperto fino alla prima peluria del grembo, e incontra quello sguardo. Non fa in tempo a comprenderlo: la vergogna e il terrore lo accecano. Piangendo e nascondendosi il viso, va a gettarsi sul suo letto e si rintana con la testa contro il cuscino. L’ospite si alza, allora, e va a sedersi sul bordo del letto di Pietro: sta lì un poco immobile a guardare quella nuca scossa dai singhiozzi, poi – col cameratismo di un coetaneo – l’accarezza» (10).

Sarà poi la volta della Madre, di Lucia (una splendida Silvana Mangano): stesa in costume da bagno a prendere il sole sul terrazzo grande della villa, osserva l’Ospite che fa il bagno e gioca con un cane a rincorrersi e a farsi riportare degli oggetti. Presa da un improvviso desiderio di farsi vedere nuda, si strappa il costume di dosso e si offre allo sguardo e poi al corpo eccitato del suo ospite tanto più giovane di lei:

«Con un rapido gesto, quasi sgarbato, Lucia afferra allora il costume, come per infilarselo. Ma poi, quella certa luce d’un calcolo appena divinato le torna negli occhi fissi sulle mattonelle rosse del terrazzino: la decisione di rimanere nuda, e di mostrarsi nuda a lui, era già presa: con la stessa ingenuità quasi isterica e l’acquiescenza di bestia insensibile che avevano dominato la determinazione di Emilia, o quella di Pietro, qualche giorno prima (o dopo). Naturalmente, a differenza di Emilia, essa combatte contro questa determinazione: il pudore e la vergogna – che la sua classe sociale vive in lei – stanno per riprendere il naturale sopravvento; e allora essa deve lottare contro quel pudore e quella vergogna. E ancora una volta, per vincere gli ostacoli della sua educazione e del suo mondo, deve agire prima di caspire. Improvvisamente, stringe in pugno il costume, si alza e lo getta giù, fuori dal parapetto della terrazzina, dall’altra parte dello stagno, verso la boscaglia. Lo guarda, là in fondo, tra erba e rovi, irrecuperabile: il suo stare là è profondamente significativo, la sua perdita e la sua inerzia hanno la violenza espressiva che hanno gli oggetti nei sogni. Ora Lucia è nuda: si è costretta ad esser. Non può avere più pentimenti o ripensamenti. Si volta: il ragazzo è ormai sulla terra cosparsa di ciuffi d’erba sotto lo chalet. Lei lo vede. Lo vede entrare nello chalet, e poi lo vede riuscire, guardarsi intorno, chiamarla. Come una martire, sporgendosi appena dal parapetto Lucia gli grida: “Sono qui!”. Egli si volta, le sorride, con tutta l’inncenza e la normalità della suac giovinezza: e sale agile la scaletta che porta al terrazzino. Compare così contro cielo con i suoi occhi che la guardano subito» (11).

Anche Odetta, la Figlia (l’allora moglie di Jean-Luc Godard, l’attrice francese Anne Wiazemsky), che vive già l’epoca dei suoi primi turbamenti sessuali, dei primi toccamenti e amoreggiamenti “borghesi” (quelli dove poi non si riesce mai ad andare fino in fondo) è attratta e presa dal fascino “paterno” dell’Ospite:

«Essa alza i grossi globi dei suoi occhi su di lui, con la sua boccuccia semiaperta di adenoidea incantata, e lo interroga: poi riabbassa gli occhi sull’album e lo sfoglia a cercare, con una meticolosità pari all’assenza, gli altri pezzi forti dei suoi ricordi famigliari. E l’ospite le sorride. Ma ecco che una sua mano, in un gesto naturale e inavvertito, si posa sopra la coscia, sul grembo, dietro la schiena di Odetta. Essa, a quel gesto, si volta, e guarda la mano – con quella sua assenza meticolosa: poi alza gli occhi su di lui attenta a non cambiare espressione, a mantenere in essi la stessa luce. Ma egli le sorride, paterno e materno, più caldamente, e, come se essa fosse una cosa morta e inerte, l’afferra sotto le ascelle, e la tira su da terra, sollevandola fino alla sua altezza. L’album delle fotografie rotola sul pavimento, e le due bocche si incontrano. È il primo bacio di Odetta, ed essa lo riceve rigida e piena della sua carne intensa, in ginocchio, sostenuta dalle braccia potenti del ragazzo, per cui è così leggera...» (12).

Infine, Paolo (Massimo Girotti), il Padre, pur spesso ammalato ma sempre trionfante agli occhi dei figli come il pater familias per eccellenza, è preso anche lui dal desiderio di congiungersi sessualmente con l’Ospite:

«Eppure il corpo dell’ospite, ricco di carne ma senza alcuna mollezza, abbondante ma puro, tutto, insomma, fecondità figliale, arde lì accanto, al volante, come fosse nudo, dalla grazia del torace e delle braccia tese, alla violenza delle cosce rinserrate tra le grinze della tela quasi estiva. Il padre – Paolo! – lo guarda, e, prima di averlo deciso, lo accarezza. Gli passa la sua mano – che non ha mai accarezzato che la propria moglie o una serie di amanti belle ed eleganti, nel modo dovuto – appena appena, sui capelli, il collo, la spalla. L’ospite sorride lieto; senza nessuno stupore, col suo sorriso infantile e generoso. Si volta, anzi, raggiante, verso Paolo, dando subito alla carezza che ha ricevuto da lui una festosa naturalezza; gli si mostra grato; e lo ricompensa con la sua giovanile allegria; quasi umilmente, come appunto uno nato da una classe inferiore – gli fa capire che non c’è alcuna violazione ad alcunché in quel gesto, che per un borghese è insensato. Tuttavia, in quel sorriso, non balena neanche per un istante la dolcezza di chi si dona. Al contrario, non c’è che la sicurezza di chi dona. Ciò rende Paolo ancora più figlio. Quella indecisa carezza (da cui la mano si è subito ritirata) non è segno di possesso, ma preghiera a chi possiede. Ora, Paolo è uno di quegli uomini abituati da sempre al possesso. Egli ha sempre, da tutta la vita (per nascita e per censo) posseduto; non gli è balenato neanche mai per un istante il sospetto di non possedere» (13).

Dopo essersi congiunto carnalmente con tutti i membri della famiglia, l’Ospite se ne tornerà da dove è venuto. La sua presenza non sarà più indispensabile per avvertire e comprendere l’immanenza del Sacro.
I membri di essa a questo punto vanno pesantemente in crisi. La sola che si salverà sarà Emilia, la domestica: abbandonata la famiglia presso cui lavorava, ritornerà nel borgo rurale da cui proveniva. Cibandosi solo di ortiche, aspetterà il ritorno dell’Ospite nel quale ha ormai riposto tutta la sua fede e la sua fiduciac del futuro. Dopo un’esperienza mistica che la porterà a lievitare oltre i tetti delle case (come avveniva al San Giuseppe Desa da Copertino in A boccaperta di Carmelo Bene (14)), la donna farà dono al mondo delle sue lacrine e si farà seppellire viva per poter ritornare alla Madre Terra da cui è venuta, rinunciando sacrificalmente anche ad attendere il ritorno dell’Ospite per diventarne a sua volta la legittima incarnazione. La domestica Emilia, l’unico personaggio non-borghese, incarnerà, dunque, la speranza in un mondo migliore che c’è già e non è ancora (come avrebbe detto Ernst Bloch). E d’altronde, Egli “era venuto, non era ritornato e forse non tornerà mai più” (è uno dei passi del Rimbaud delle Illuminations letti dall’Ospite durante il suo soggiorno nella villa).
Pietro, presa coscienza della propria omosessualità e divenuto artista dell’avanguardia più outré, finirà con il pisciare platealmente sui propri quadri e giungere alla conclusione che l’artista come tale “non vale niente, è un essere inferiore, un verme che si contorce e striscia per sopravvivere”. Lucia finirà per vivere la propria sessualità in modo assolutamente ed eccessivamente promiscuo cercando di ritrovare in innumerevoli coiti con uomini più giovani di lei le sensazioni provate con l’Ospite ma invano. Odetta finirà in manicomio dopo essersi chiusa in se stessa e aver ceduto a una paralisi isterica che le impedisce di comunicare con nessuno. Il Padre, infine, dopo essere divenuto simile all’ Ivàn Il’ìc di Tolstoj (di cui alcune significative pagine sono richiamate nel romanzo di Pasolini nella bella traduzione di Tommaso Landolfi), dona la propria fabbrica agli operai (sono quelli cui l’intervistatore – Cesare Garboli rivolge la domanda con cui si apre il film) e vaga per Milano in cerca di una risposta alla propria inquietudine. Giunto alla Stazione Centrale, in preda a un improvviso raptus, si denuderà completamente e regalerà tutto ai poveri, quasi un novello San Francesco (15). Poi fuggirà nel deserto a gridare il proprio nulla e la propria impossibilità a essere quello che vorrebbe, condannato, invece, soltanto al proprio annichilimento. Tutti i membri della famiglia, dunque, dopo la visita dell’Ospite e la sua parousia, sono condannati a morire nell’anima e a non manifestare il cambiamento che quella visita avrebbe fatto sperare. L’Ospite giunge invano: il suo tocco guarirà soltanto chi è già fuori dai parametri morali e culturali della borghesia.
Teorema non è però neppure quello che i critici di Pasolini schierati “a sinistra” vollero fargli dire e mostrare. Non è un film “ambiguo” – come continuò a definirlo un critico (pure avvertito e certo qualificato) come fu Adelio Ferrero:

«La conferma viene da Teorema-film, dove l’autore avverte il bisogno di trasporre un discorso molto ripiegato e personale su un piano più largo e, al limite, “esemplare”: quanto più, insomma, la sua esperienza esistenziale preme verso una trascrizione immediata, in termini di confessione e di “urlo”, tanto più egli sente l’esigenza di una mediazione costituita, in questo caso, da un’improbabile borghesia e dalla sua crisi d’identità. La pretesa estrazione e struttura borghese dei personaggi di Teorema è così astratta e programmatica da indurre il regista a questa singolare “spiegazione” programmatica: “L’indignazione e la rabbia contro la borghesia classica, come la si è sempre intesa, non ha più ragione di essere dal momento in cui la borghesia sta cambiando rivoluzionariamente se stessa, cioè sta identificando tutto l’uomo al piccolo borghese”. Dove la sovrapposizione “ideologica” risulta particolarmente fragile e scoperta, pur nel tono apodittico e asseverativo della “conclusione”. La verità è che tutti i personaggi di Teorema, da quelli dichiaratamente borghesi all’ospite misterioso alla domestica miracolata, sono le provvissorie e labili figure di una metafora lirico-autobiografica, a mezza strada tra il referto psicoanalitico e la confessione per poesia, di cui è protagonista assoluto l’autore stesso. Il quale però, non avendo, o non avendo ancora, l’audacia di situare il suo apologo, come sarebbe giusto, fuori di ogni riferimento spazio-temporale determinato e di farlo recitare davanti a fondali neutri (non a caso a questa idea di teatro – “il teatro di Parola” – Pasolini stava pensando e lavorando negli stessi anni), ricorre appunto alla mediazione di un’”estrinseca” trama, mutuata in parte da Pinter e dal “teatro della minaccia”, e di un ambiente al quale non è estranea la suggestione del Deserto rosso di Antonioni (16): la fabbrica con i suoi casermoni squallidi e funzionali, un silos perduto nel silenzio dei campi e, in genere, tutto il paesaggio “industriale”, lievemente sporcato da un velo di nebbia e di smog. Ma bastano pochi, rapidi scorci di una quotidianità allontanata e sospesa, sui quali il film si apre, ad avvertire lo spettatore che quella cui sta per assistere è una sorta di allucinazione poetica, come accadeva appunto in Edipo re»(17) .

Ferrero non coglie la natura mutata della scrittura cinematografica di Pasolini. Il nodo che Teorema esplora in maniera radicale, invece, riguarda proprio il rapporto tra il Sacro e la società borghese nel l’epoca del neo-capitalismo trionfante. Come ha scritto Giuseppe Conti Calabrese:

«Il suo ‘empirismo’ scaturisce anche dalla volontà di trovarsi, sempre partecipe, sul fronte degli avvenimenti, sulla “linea del fuoco” e, come diceva, gettando “il corpo nella lotta”. Il suo modo di procedere, così eterodosso, è per intuizioni contigue attraverso la continua formulazione di nuove ipotesi: far nostro il rischio della scienza. Pasolini non vuole comprendere la realtà nel senso di riconoscervi una verità in quanto ‘corrispondenza’ tra un soggetto della conoscenza e gli oggetti a cui essa si rivolge, finendo con l’affermarsi come unica, con pretese di validità universale. Dichiara, invece, di battersi solo per verità parziali di cui preferisce fare esperienza quali diversi modi di essere al mondo che devono guidarlo alla scoperta della realtà, immerso in essa in maniera lacerante e indifesa. Libertà di un pensiero decisamente ‘eretico’ che a partire dal suo sentimento del sacro, lo conduce nella percezione della realtà, a quella cognizione del diverso antitetica a ogni forma di sintesi teorica, lasciandolo sempre in una disposizione problematica. Non per questo i risultati a cui le sue riflessioni approdano si sottraggono a qualsiasi dimostrazione: Pasolini stesso è disposto a verificarli pubblicamente, inscrivendoli provocatoriamente in formulazioni “teorematiche” da comprovare. Un esempio, del resto, lo si ha proprio con il film Teorema che “come indica il titolo si fonda su un’ipotesi che si dimostra matematicamente per absurdum. Il quesito è questo: se una famiglia borghese venisse visitata da un giovane dio, fosse Dioniso o Jehova, che cosa succederebbe?”. Quest’opera è tutta nel tentativo di mostrare come in epoca moderna una potente e violenta manifestazione del sacro rivelerebbe un ‘sapere’, altrimenti inccessibile, generalmente negato dalla cultura dominante, ma in grado di metterla irrimediabilmente in crisi. Il “teorema” pasoliniano, dotato di una carica eversiva, si sviluppa in alcuni precisi passaggi che consentono di osservare il mutamento che avverrebbe in un nucleo familiare (visto quasi come un laboratorio) nel trovarsi a fare esperienza del sacro. E’ perciò necessario ripercorere e analizzare le varie fasi della dimostrazione tanto nel romanzo quanto nel film, per comprendere caratteristiche e significato attribuiti a un eventuale contatto tra uomo e divino, qualificato come “l’incontro con l’alterità che non ha nulla a che fare con la psicologia. La religiosità non è vista come religio catto-cristiana, ma in assoluto”. Quello che a Pasolini interessa è la rilevanza fenomenologica della manifestazione divina, indipendentemente da qualsiasi confessione, credenza e istituzione religiose, di cui offre una visione quasi affine a quella teorizzata da Rudolf Otto, in particolare laddove lo studioso tedesco individua nel tremendum il predicato che meglio descrive la violenta apparizione della divinità, determinata da quel carattere demoniaco avvertibile quando si manifesta con la sua ira: qualcosa che “divampa e si rivela misteriosamente come una forza recondita della natura – come si usa dire – come una corrente elettrica la quale si scarica su chiunque si faccia vicino”(Rudolf Otto, Il sacro, Milano, Feltrinelli, 1966, p. 27)»(18).

Nei diversi episodi che lo compongono, Teorema trova le proprie diverse forme-sens (19) nell’esplorazione dell’impossibile redenzione di una borghesia che vuole cambiare il proprio mondo (interiore ed esteriore) senza cambiare se stessa. L’analisi di questa assoluta impossibilità della borghesia a riformare internamente se stessa per riuscire a riconciliarsi con i propri conflitti intestini e con le forme economico-sociali che l’hanno preceduta diventerà poi il tema principe delle proposte filmiche e letterarie che contraddistingueranno il Pasolini successivo, non ultimo il grande “elenco delle perversioni umane” verificato nei fotogrammi di Salò-Sade del 1975 e in quello che avrebbe dovuto essere il suo film più devastante e apocalittico se fosse stato realizzato: il Porno-Teo-Kolossal di cui ci restano soltanto le sinossi provvisorie (20).

1) “Ci sono grosso modo due generi di cineasti. Quelli che camminano per la strada con la testa bassa e quelli che camminano con la testa alta. I primi per vedere quel che avviene attorno a loro sono costretti ad alzare spesso e d’improvviso la testa e a girarla ora a sinistra ora a destra, e cogliere con una serie di sguardi ciò che si presenta ai loro occhi. Essi vedono. I secondi non vedono nulla, guardano, fissando la loro attenzione sul punto preciso che li interessa. Al momento di girare un film, le inquadrature dei primi saranno ariose, fluide (Rossellini), quelle dei secondi precise al millimetro (Hitchcock). Nei primi sdi troverà un découpage senza dubbio disparato ma sensibilissimo alla tentazione del caso (Welles), e nei secondi dei movimenti di macchina non solo di straordinaria precisione in teatro di posa ma con un valore astratto di movimento nello spazio (Lang). Bergman fa parte piuttosto del primo gruppo, quello del cinema libero. Visconti del secondo, quello del cinema rigoroso. Per conto mio, preferisco Monika a Senso e la politica degli autori a quella dei registi” (“Bergman contro Visconti”, in J. – L. GODARD, Il cinema è il cinema, trad. it. e cura di A. Aprà , Milano, Garzanti, 19812, p. 102).
2) Dalla Premessa di Pier Paolo Pasolini a J. – L. GODARD, Il cinema è il cinema cit., pp. 13-14: “Godard ha colto il “significato” del “significante” burocrate, come un ornitologo che infilzi con l’ago un insetto al volo. Perché l’ha fatto, nei miei confronti? Perché io mi occupo di linguistica e di semiologia (male, da dilettante, come peraltro asseriscono alcuni professori universitari, autori – cronologicamente dietro mia iniziativa – di fumosi e illeggibili scritti di semiologia del cinema, forse culturalmente esatti, ma senza un’idea). Nel momento in cui mi occupo di linguistica e di semiologia sono, per Godard, dunque, un rompiscatole. E quindi un burocrate. Perché l’università è burocratica; perché l’accademia è burocratica; perché la specializzazione è burocratica; perché il lavoro è burocratico. E Godard, temendo di essere mangiato da tutta questa burocrazia, sospende ogni “distinguo” e si difende in blocco dai rompiscatole. In cosa consiste, insomma, l’evidente equivoco del mio dolce, umanissimo amico Godard? Consiste nel credere ingenuamente che ogni linguistica e ogni semiologia siano normative…”.
3) Pasolini mutua questa figura stilistica dalla tradizione novecentesca più classicamente “sperimentale” (Verga, Pirandello, Svevo, ad esempio, ma soprattutto l’amato Gadda e il forse insospettabile Bassani). Il ricorso è deliberatamente “letterario” e salta a piè pari tutti i possibili modelli di riferimento neorealistico: il Visconti di La terra trema, ad esempio, o il Rossellini “didattico” degli ultimi film per la TV. Il punto di riferimento stilistico-retorico di Pasolini è, ovviamente, Lo stile indiretto libero in italiano di Giulio Herczeg (Firenze, Sansoni, 1963).
4) P. P. PASOLINI, Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 19812, pp. 183-184.
5) P. P. PASOLINI, Teorema, Milano, Garzanti, 1968 e sgg.
6) Una vita violenta esce presso Garzanti di Milano in quell’anno e sarà al centro di un violentissimo dibattito sulla natura della narrativa cosiddetta “populista”che vedrà campeggiare la figura polemica e criticamente negativa di Alberto Asor Rosa (cfr. le parti centrali di Scrittori e popolo, Roma, Savonà e Savelli, 1965 e sgg.)
7) Interessanti spunti su questa primitiva “possibilità” dell’opera pasoliniana sono contenuti nella parte centrale del bel saggio di Stefano Casi dedicato ai Teatri di Pasolini (Milano, Ubulibri, 2005).
8) S. MURRI, Pier Paolo Pasolini, Roma, Il Castoro, 1994, p. 97.
9) P. P. PASOLINI, Teorem cit. , pp. 28-29.
10) P. P. PASOLINI, Teorema cit. , pp. 38-39.
11) P. P. PASOLINI, Teorema cit. , pp. 44-45.
12) P. P. PASOLINI, Teorema cit. , pp. 72-73.
13) P. P. PASOLINI, Teorema cit. , pp
14) C. BENE, A boccaperta, Milano, Linea d’Ombra Edizioni, 1993 (la prima edizione di questo straordinario testo di Carmelo Bene è però del 1976).
15) In Cuore sacro, un film di Ferzan Ozpetek di trentasei anni dopo fortemente debitore al Teorema di Pasolini, sarà l’attrice Barbara Bobulova, nel ruolo di Irene Ravelli, una ricca e precedentemente spietata imprenditrice-strozzina, a compiere questo stesso gesto che fu del Poverello di Assisi.
16) Questa ipotesi è del tutto improbabile: Pasolini amava quel film e lo difese spesso a spada tratta ma i suoi temi, i suoi modi e l’approccio stilistico di Antonioni non gli erano certo congeniali (cfr. Pier Paolo Pasolini, I film degli altri, a cura di T. Kezich, Parma, Guanda, 1996, soprattutto pp. 78-82).
17)A: FERRERO, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, Venezia, Marsilio, 19942, pp. 99-100.
18) G. CONTI CALABRESE, Pasolini e il Sacro, Milano, Jaca Book, 1994, pp. 89-91.
19) Per questo concetto chiave dell’analisi critica dei film, cfr. F. VANOYE – A. GOLIOT-LÉTÉ, Introduzione all’analisi del film, trad. it. di D. Buzzolan, Torino, Lindau, 1998, p. 132.
20) Su quello che avrebbe dovuto essere il film successivo a Salò-Sade e che non è stato mai realizzato al modo in cui Pasolini avrebbe voluto – I magi randagi di Sergio Citti del 1996 non essendone che la pallida ombra fiabesca – cfr. Laura Salvini, I frantumi del tutto. Ipotesi e letture dell’ultimo progetto cinematografico di Pier Paolo Pasolini, Porno-Teo-Kolossal, Bologna, CLUEB, 2005.
 


 
Pasolini trentanni dopo 
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Raffaello Morbiolo
[ rmorbiolo@alice.it ]
 
POESIA PER PASOLINI
 
Il melo.

Caffè. E’ il risveglio.
L’odore che si diffonde. Sul fornello la moka gorgoglia.
È il mio rivolo d’acqua insaporita. La polvere marrone, farinosa ha una memoria.
C’è l’odore delle mani e della terra, della fatica.
Roma. Mi sveglio lento, le lettere di un giornale sono acquose.
Mi guardo intorno e c’è un ordine in quella casa
che mi sembra non venga vissuta da anni. Ma non c’è polvere.
Quasi che qualcuno venga ogni giorno a rassettare,
perché un ospite può sempre bussare alla porta.
Non come nella mia dimora, il mio circo, quello che porto dentro.
Vivo nella mia anima e vagabondo per la città.
Verso quali luoghi non lo so.
Ma ad ogni passo quello che scorgo al di fuori
si sublima dentro e tutto l’incomprensibile diventa chiaro.
Le sfumature e le relatività sono paure, consce.
Ma chi ci avrà fatto questo scherzo?
Essere così complessi, pensare di esserlo.
E poi la fobia di essere è la semplice risposta.
Sto per prendere coscienza di chi sono, ma devo ancora bere il mio caffè.

Mi posa le sue labbra, quasi non le sento.
È il fantasma dell’amore che mi preda e io mi lascio cacciare.
Voglio uscire per rivederlo in questo mondo, vederlo bastonato
cucito, accarezzato. Come certi amori.
Guardare la pena e il tormento del domani nelle precarie vite degli uomini.
Non c’è lavoro, non lo vorrei nemmeno.
Uscire e rientrare, continuamente.
Per scoprire che sembra tutto uguale, ma che in realtà anche i senza tetto
dormono in un’altra posizione.
Annotare il diario del giorno,
portarselo addosso, vestirsi delle parole.

Cammino stanco per le strade dissestate,
nella prima calura con i fiori sulle terrazze.
Non c’è un disegno preciso,
nei palazzi di borgata il vuoto e il pieno si alternano.
Panni stesi, parabole, segni di una vita domestica dimessa.
La fretta di andare verso un qualcosa.
I rumori metallici, gommosi, lo stridere dei pneumatici
Sull’asfalto che si polverizza ad ogni passaggio.
Si cerca di evadere, procedendo verso l’interno.
Evasione è uscire al di fuori.
Eppure qui si tende a dirigere i propri passi verso il centro.
Dove il turbinio dei prezzi e dei valori aggiunti stordisce.
Stordisce, aliena, tranquillizza.
Un altro caffè, grazie.
È amaro, come il gesto dell’elemosina.

Stracci gettati a terra, laidi.
Chiedono il luccichio di pochi centesimi.
Cosa rispondere a tanta sofferenza mentre attorno
le gole sono ingurgitano bevande.
Una mano si allunga, l’altra mano si accartoccia.
È stata rilasciata la coscienza con gesto
tra le mani di chi ormai sempre più sporco può ripulire il mondo.
Nuovi messia, agnelli del sacrificio.
Quando pago per bere, per mangiare mi giro.
Guardo a terra e vorrei a volte divenire polvere.
Perché uno sguardo può atterrire il più giusto tra i giusti.

Il sapore del caffè del mattino è già scomparso.
Ho lasciato le aspettative del nuovo giorno
sedute sullo schienale in quella cucina asettica.
I miei sogni sono lucciole,
si accendono e si spengono
e durano una notte.
Il diario del giorno, lo scrivo e lo correggo
continuamente. La mia penna non ha abbastanza sangue
per lavare le colpe dell’indifferenza.
Intanto dai palazzoni-formicaio ognuno stende i panni
lavati della polvere delle strade che si consumano.
Intrise di odori, umori e rabbie scaricate con un calcio.

Osservare il marciapiede significa sentirsi la condanna degli ultimi.
Di una terra che è stata accecata dal bitume e come tale
vede i suoi figli vagare verso il buio, che si veste di luci al neon,
aria condizionata, riflessi d’oro. Dà l’impressione del reale.
Ma è il vestito buono, quello per i funerali.
Perché l’oro fa ricchezza anche se sei alla fine del mese.
La poesia unica consolatrice.
Non v’è altro da dire.
Le immondizie non vanno lontano perché
ritornano come figli abbandonati
che chiedono il perché.
Siamo alla cassa, il conto.

Mi alzo e penso che un pranzo può bastare.
È l’ora del pensare. Non mi voglio togliere quest’ultimo desiderio.
Sono un condannato a morte, sono nato per giungere a questo.
In mezzo la follia di un giorno, vissuto nel tempo di pochi versi.
Che raccontano di fiori di pesco e un bacio tenero.
L’innocenza, almeno una volta l’ho provata.
E sarà il ricordo nella vecchiaia, quello che mi farà commuovere.

Lo sferragliare della metro, appena alzati.
Lo sferragliare ringhioso della metro, al rientro.
È un trapano che perfora i denti, senza anestesia.
Il pianto dell’acciaio, della civiltà che non ha tempo.

I fiori sulle terrazze si dissetano. Bevo un bicchiere d’acqua.
I piedi come radici si allargano cercando più punti
per ancorarsi e non ripartire. Vorrei germogliare come un melo,dai fiori bianchi.
E lasciare che le formiche mi camminino sulla corteccia.
Non avere occhi, ma la sola pelle.
Per sentire il calore del sole. Fiorire in bianco
come una sposa. Fare frutto nell’amore senza richieste.
E dormire la notte.
Senza sognare. Perché non ne ho bisogno.

Le palpebre si chiudono, sono sazio.
Gonfio di aria viziata e di odori che si confondono.
Nel tripudio del contrasto io vivo.
Per poi sognare di essere un melo.

NEMI