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tracce segni pre-sentimenti 
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Leggi Scrivi all'autore Mario Amato LA BIBLIOTECA PARALLELA
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  registrazione n.94 del 28.2.1972 presso il tribunale di frosinone
direttore responsabile alfonso cardamone
 



 
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Alfonso Cardamone
[ a.cardamone@email.it ]
 
NIENTE SO DI PIU' STRUGGENTE
(ombra di prometeo/epimeteo)
 
niente so di più struggente
che un tramonto
tra i bagliori del giorno
preavvertito
 


 
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Renzo Scasseddu
[ archilochos@libero.it ]
 
TRACCE SEGNI PRE-SENTIMENTI
 
C’era una volta una «traccia», un «segno»: la PAROLA…

Tutti conosciamo l’espressione (la traccia, il segno) leviana «le parole sono sassi»… ho il pre-sentimento, oggi, che tale espressione, purtroppo, abbia perso – ma non in sé – il suo profondo valore.
Non in sé, ma in una società sempre più povera di valori, di cultura, di sentimenti, d'istoria (altra interessantissima… traccia – scritta giusto così!) e quindi sempre più povera di parole, quelle vere, quelle… «sassi».
Provo a fare una passeggiata (forse nostalgica… «solo e pensoso…») in un piccolo dedaleo giardino (che grecamente era paràdeisos, lat. paradísus…) di parole, cercandone gli antichi «caratteri», i primordiali - e perciò stesso fondamentali - incorruttibili, adamantini segni distintivi.
Voglio fuggire, cerco di fuggire da un globo che mi opprime, voglio fuggire da questa moderna globalizzazione – termine orroroso, anche fonologicamente…, voglio camminare sulle tracce, sui segni, non sempre percettibili, di un’amica a me sempre cara: la Filologia, intesa, anche semplicemente, come amore per la parola, per la sua sostanza… non a caso, il «sostantivo».
Entro, in punta di piedi. Il giardino, dietro il velo, la traccia di una sua antica eleganza, e d'antico segno ancor vago profumando, mi sembra purtuttavia un po’ spoglio, dimesso, pressoché abbandonato, 'diserto'…
Ecco, al posto di globo, incontro MONDO, in tutta la sua purezza, sì, la sua pulizia (…omnia munda mundis!…). Egli si lamenta, con tutte le sue 'radici', che il suo profondo signum, il suo vero charaktèr non esiste quasi più; tutti (ab)usano ormai del nome, senza sentirne l’importanza: il-mondo è diventato im-mondo. Il MONDO, opera d’incanto, di fascino, di… prestigio, viene pervicacemente reso immondo, ad esempio, da fatiscenticarcassenonpiùnatanti che, arroganti, ardiscon di… fregiarsi, indegnamente, di nomi come… «Prestige», una di quelle che ha… sfregiato, immondato, insieme ad altre carcasse, mezzo… mondo!
Gli fa eco, più in alto, seminascosto, un suo antenato, KOSMOS, un tempo (… dopo Krònos, però…) 'padre' onorato e ornato di ordine, regola, giustizia: tracce (ri)perdute nel Chaos, che tracce non ha. Seminascosto, e usato solo nei centri… cosmetici: ancora una violenta perdita di tracce, di segni, di identità.
Con buona pace del COSMOpolitismo di ellenistica memoria…
Altre tracce, analoghe, mi portano verso una figura immensa, il Titano ‘infinitimane’ UNIVERSO, cui tutti sono in debito di riconoscenza e, ingrati, lo nominano senza ricordarne, o saperne, il nomen, (la traccia, le antiche vestigia…), il nòmos, il numen, il numerus, il… nummus (il valore). Mi esemplifica parlando di sé in un’antica, nobile lingua (con lei pure, molti in debito di riconoscenza, dopo averne succhiato linfa vitale), a pochi ahimé! familiare: - … cives ad moenia patriae defendenda universi concurrerunt
Universi, cioè versi, volti ad un unico punto, scopo: la difesa della patria. Patria, un valore… universale, nel tempo e nello spazio, con segni ossimoricamente aoristici, infiniti.
(… La patria: chi è (era o fu) costei?!…)
Continuo a camminare su altre tracce. Ho il pre-sentimento di trovare altri 'fiori' fuori posto.
LAICO, forte, umoroso, nobile nel suo segno di «popolare», appartenente al popolo, mi mostra immagini di alcuni famosi suoi 'epigoni': Laomedonte, Menelao, Acusilao, Agesilao… : ne ricorda le gesta, mitiche e storiche e, 'laicamente' smadonna un po' contro quelli (e sono in tanti, forse tutti!) che lo contrappongono, riduttivamente, esclusivamente, ad un suo segno familiare, del quale pure la carta d’identità è ormai 'scaduta'.
Lo guarda, infatti, sottecchi, CATTOLICO, diventato, suo malgrado, 'pretigno' e costretto a giocare in una squadra che una volta 'spaziava' a tutto campo e in tutti i campi - giusto significando, katà hòlon, «dappertutto» - e che ora veste solo color giallobiancopapalino, relegata all'interno delle (pur belle) Mura Vaticane…
Vaticane… come il Concilio ECUMENICO.
Eccolo, ECUMENICO, seduto in panchina, ma pronto a giocare al fianco di CATTOLICO (coppia vincente nell'Arengo dell'Historia, lasciando spesso fuori squadra… CRISTIANO…), per difendere interessi tanto più stretti, oggi, quanto larghi erano, furono quelli dei loro antichi segni. Vado infatti sui segni, sulle tracce di ECUMENICO, e… che ti trovo? Ma guarda: òikos, oikèo, quindi «spazio, luogo abitatato», insomma il pianeta Terra e/o altri pianeti. Capito? Altro che spazi stretti!
Cerco di rincorarlo: gli dico, convinto, che c'è ancora, nell'oikoumène, qualcuno che ben conosce, rispetta, ha sentimento del suo segno, del suo charaktèr, e doverosamente, opportunamente, se ne mette sulle tracce.
Spero di essere riuscito a convincerlo. ECUMENICO, comunque, mi fa cenno di parlare anche con un altra 'pianta', della sua stessa famiglia, con identiche radici… segni e tracce…
La vedo e la sento tanto schiva e preoccupata per la sua intima identità, per i suoi 'segni particolari', di cui ha smarrito le tracce, quanto presente, 'parlata'… inflazionata e sempre sbattuta in prima (e non solo) pagina: è ECONOMIA.
"Il mio segno, un tempo – mi racconta con voce flebile - era la legge, la regola, l'amministrazione, l'attribuzione di un territorio, di uno spazio, ambiente, casa…: ero «la legge di/su/per il territorio». Che bello! Oggi, invece, sono diventata… soldi, solo soldi, esclusivamente soldi, maledetti soldi!
Poi, con sospiro profondo, con accento (segno, traccia, pre-sentimento) virgliano:

… quid non mortalia pectora cogis
auri sacra fames?!


«… a che i mortali petti non spingi
d'oro esecranda fame?!»

Sento, ho il pre-sentimento – conclude, prima di ritrovare un sito conveniente, opportuno – che questi soldi, come un tempo, come sempre, porteranno alla rovina il mondo, meglio, quello che prima era, fu il MONDO: l'uomo, alunno distratto/distrutto non ha ancora imparato le lezioni dell'Istoria!"
"No! – le rispondo – anch'io amo seguire tracce e segni e da questi ho un pre-sentimento: ho imparato che posso ancora nutrire qualche speranza (non a caso il Vaso di Pandora è stato aperto tanto intempestivamente, quanto tempestivamente richiuso… altro segno… A tal proposito, mi piace raccontare un brevissima 'favola': La Morte bussò alla porta. La Speranza andò ad aprire: non c'era nessuno!).
La speranza nell'UOMO: sì, perché, nonostante tutto, sono impenitentemente ottimista: persone (uomini che ancora 'per-suonano' la loro voce…) come Socrate, Cristo, Francesco, Gandhi, non sono morte (invano).
Voglio ancora credere, protagorico, nell'«Uomo-Mètron, nell'Uomo Misura della Realtà»".
 


 
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Beniamino Fioriglio
[ fiorigliobeniamino@virgilio.it ]
 
TRACCE
 
echi di suoni lontani
che si fanno remoti
rade parole
che diventano opache
sempre più senza senso

pure
con affanno
tu scavi fra macerie metropolitane
alla ricerca dei segni di un tempo
per ricomporre
i tratti del volto
lo sguardo

tu sogni allora
così come una volta
di smarrire te stesso
per labirinti mentali
tracciati
dai ritmi antichi
di versi d’amore

ma presto
il sortilegio svanisce
la memoria ormai opaca è senza ricordi
e
lenta
indistinta
una nebbia sempre più fitta
vela gli occhi di grigio
celando le ultime stelle
 


 
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Mario Amato
[ marius2550@yahoo.it ]
 
LA BIBLIOTECA PARALLELA
ad Alfonso, con la devozione di un lettore
(liberamente ispirato da “La biblioteca di Babele” di Jorge Luis Borges)
 
Esiste da qualche parte una biblioteca parallela e qualcuno in qualche tempo deve averla visitata.
In verità il tempo nella biblioteca non esiste, se non quello nominato negli innumerevoli volumi sparsi in ogni dove. È un tempo eternamente rinnovabile, poiché esso termina all’ultima pagina di ogni libro e ricomincia dal primo foglio del successivo, ma può anche cominciare nuovamente dallo stampato dello stesso volume chiuso un attimo prima; ed in realtà è così che avviene, perché Ismaele si mette continuamente in viaggio ogni volta che qualcuno cerca la storia di Achab e della bianca balena, perché Odisseo è continuamente seduto a raccontare la colpevole combustione di Ilio e l’inganno teso a Polifemo e i suoi innumerevoli amori, ed è continuamente per mare.
Non vi sono scaffali, non esistono classificazioni secondo il genere letterario; in realtà la biblioteca parallela è costituita soprattutto di libri di racconti, perché la storia degli uomini non è altro che un racconto forse senza termine o con una fine che molti hanno immaginato e che nessuno può figurarsi nella mente. Nella biblioteca si vaga con l’unica meta di raggiungere il prossimo libro o di leggere ancora una volta la storia più amata. Nessuno conosce la strada che conduce alla biblioteca parallela, perché non v’è porta d’entrata né soglia di uscita.
La biblioteca parallela è fatta di sogni.
A che serve una biblioteca ove sono custoditi tutti i libri già stampati? Essa non è costituita soltanto da tomi già divulgati, ma vi sono anche i testi scritti da tutti i lettori. Coloro che leggono hanno spesso concepito con la fantasia sviluppi diversi per i personaggi e per le storie che erano ormai ineluttabilmente fissate dalla mano dell’autore; nella biblioteca parallela si trovano, accanto all’opera dello scrittore, tutti i testi con le variazioni che ogni lettore in ogni tempo ha fantasticato e per questa ragione ogni giorno, ogni notte, ogni ora, ogni minuto la biblioteca si arricchisce di nuovi libri. Le modalità di lettura sono innumerevoli: si può tenere aperto il volume su una scrivania sempre a disposizione, si può starsene distesi su un prato primaverile oppure accasciati accanto a un camino acceso, si può sostare ad un bar e gustare, insieme alle parole stampate, la bevanda preferita, è possibile anche ascoltare fini dicitori che intonano la voce a seconda delle parole che seguono sul testo oppure udire la voce cara della mamma che narra fiabe; può accadere di trovarsi nella biblioteca della scuola che si frequentava da giovani, perché la biblioteca parallela ne racchiude infinite. Ed è notte, giorno, sera e mattina come più aggrada.
La musica che si ode senza sosta è l’eterno mormorio delle pagine sfogliate. I frequentatori della biblioteca parallela sono persone di ogni età, anche se non si incontrano mai, perché l’unica attività è l’esercizio del leggere: essi si sfiorano, camminano l’uno accanto all’altro, siedono vicino, ma non hanno la capacità di accorgersene, e del resto non si cercherebbero neanche se sapessero l’uno dell’altro. In verità ognuno di loro sa di appartenere allo stesso mondo, ma rimandano l’incontro al tempo dell’uscita dalla biblioteca, se mai quel tempo verrà, se mai qualcuno di loro rinuncerà al prossimo libro. Ed anche se ciò accadesse – ma non è previsto- scambiandosi impressioni sui testi letti, resterebbero incuriositi e si troverebbero nuovamente nel luogo ove si trova l’immensa raccolta di libri per cercare l’opera non letta.
Non è esatto che nella biblioteca non vi sono scaffali, perché essa è continuamente e ovunque come il lettore desidera: vi sono esseri umani che si dedicano all’attività della lettura in modo ordinato, disponendo questo esercizio in modo sistematico, ad esempio leggendo tutte le opere di un autore secondo la cronologia di scrittura oppure dedicandosi di volta in volta ad un’epoca storica o ad un genere particolare quale il romanzo di viaggio o i poemi cavallereschi o i racconti brevi. Essi possono aggirarsi nell’infinito labirinto di scaffali colmi di volumi posti secondo l’ impianto desiderato.
Vi sono anche fogli singoli o raccolte di essi: sono le pagine che ogni lettore ha più amato nella sua vita o storie brevissime come questa. Ed io spero che anche questo foglio giunga ad aumentare la biblioteca parallela.
Naturalmente non vi sono soltanto volumi stampati, ma anche manoscritti incisi dai pazienti amanuensi in ogni parte del mondo. Nella biblioteca non esistono proibizioni, al contrario vi sono tutti i libri vietati dagli ottusi poteri alternatisi nelle vicende umane. Ogni romanzo, ogni trattato, ogni poesia si può trovare in ogni linguaggio, anche se qui ognuno conosce tutti gli idiomi del mondo, ma vi è anche una credenza che teorizza che i libri siano scritti in una sola lingua, la prima unica lingua parlata dai primi uomini in ogni parte della terra.
La meraviglia non si esaurisce soltanto in questa capacità di aumentare a dismisura i testi, ma ve n’è un’altra più sorprendente: vi sono opere del tutto particolari, perché non solo i lettori hanno vagheggiato evoluzioni differenti per i personaggi, ma questi ultimi stessi non sono stati, a volte, soddisfatti del destino loro assegnato. Nella biblioteca parallela si trovano i testi con i mutamenti bramati dalle figure pensate dagli scrittori.
Come l’unica musica è il fruscio delle pagine, non esistono quadri e le uniche forme raffigurate sono le illustrazioni sui libri o le preziose miniature sui volumi incisi dagli amanuensi, giacché questo non-luogo meraviglioso è dedicato soltanto alla scrittura e al suo mistero. La musica è l’arte suprema, ma essa è pur sempre la riproduzione di suoni esistenti e quindi è insita nell’udito; la pittura è, a ben considerare, la copia di tutto quello che i nostri occhi vedono, ma la scrittura è un evento inspiegabile, è un segreto custodito in qualche foglio tra gli infiniti nella biblioteca parallela, un segreto che sconfigge il nemico più feroce della vita, la dimenticanza…
 


 
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Amedeo Di Sora
[ teatrodellappeso@libero.it ]
 
QUESTE PAROLE
 
queste parole
come segni disfatti
obliterati e sparsi
sassi virtuali
alogici conati
che non ci riconoscono
che non riconosciamo
servi che non servono
suoni gestuali
amori che non lasciano
tracce di linguaggi
più o meno figurati
silenzi assordanti
rumori senza fondo
ed echi che rimandano
ad altre alterità.
 


 
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Alfonso Cardamone
[ a.cardamone@email.it ]
 
TRACCE DI LUNA
 
Un paradosso da sempre presiede ai rapporti che nel tempo si sono intrecciati tra l’uomo e i due corpi celesti fondamentali dell’ universo umano: il sole e la luna.
Il sole, astro glorioso di luce, fonte inesausta di calore e di vita, genera e domina sul giorno, che inonda di raggi.
La luna, pallida, ombrosa, dubbiosa per le fasi che ripete in eterno, domina sul mondo notturno. La si direbbe, per questa sua identità notturna, per questo suo confinamento nella notte e per il periodico dissolvimento che la consuma, simbolo di morte. Così come, per opposizione naturale ed immediata, il sole, in quanto emblema trionfante del giorno, lo si direbbe metafora di vita.
E invece non è così. Miti e leggende dimostrano il contrario.
È il sole che, a conclusione della sua passeggiata diurna nei cieli, scende nel mondo dei morti, l’oscura galleria dell’oltretomba, su cui signoreggia, doppia faccia di Ade, Signore del Ponente, Sole Notturno. Luce che s’avvolge d’ombra. Ombra che s’intride di luce.
Così, in Odissea, XXIV, vv.12 e sg., le anime dei pretendenti uccisi dalla vendetta di Odisseo
Giunsero alle correnti d’Oceano e alla Rupe Bianca;
e alle Porte del Sole e tra il popolo dei Sogni
arrivarono: e presto furono nel prato asfodelo,
dove abitan l’ombre, parvenze dei morti
”. (1)
Nel mito ittita, Kessi il Cacciatore, che aveva trascurato gli dèi e per questo era stato punito con la perdita del loro favore durante la caccia (“fecero in modo che tutte le bestie si andassero a rintanare nei loro nascondigli”), mentre inutilmente vagava sulle colline “nella speranza che la fortuna tornasse ad arridergli”, sogna di trovarsi improvvisamente “dinanzi ad una porta immensa”, che è appunto “la porta del tramonto”, al di là della quale “si stende il regno dei morti”, e dove egli è raggiunto da “un’alta figura, ammantata di luce, che teneva fra le mani una chiave splendente”: è il Sole che, “girando la chiave nella toppa, aprì la porta ed entrò”. (2)
Ma è in un mito dei Tetela, popolazione bantu del bacino superiore del Kasai, che la funzione mortifera del sole viene dichiarata esplicitamente. Il Sole è qui il creatore degli uomini, ma anche il loro despota, che a suo arbitrio, e furtivamente, li prende e se li porta via. Gli uomini si ribellano e diventano minacciosi. Il Sole propone, anzi impone un accomodamento: “Io andrò ogni giorno da oriente a occidente, e sarò sempre visibile. Di notte viaggerò senza che voi mi vediate. E se vorrò qualcuno di voi, manderò una malattia che va adagio”. Il Sole addirittura all’origine delle malattie, che consumano l’uomo e lo portano alla morte (sia pure lentamente!). (3)
Un altro mito della medesima tribù definisce sinteticamente la natura dell’opposizione Sole/Luna, come opposizione del principio maschile a quello femminile. Vale la pena di leggerlo per intero, riferendolo dall’opera del Pettazzoni “Miti e leggende”.
“Da principio il Sole (Unia) e la Luna (Mvedi) camminavano insieme. Un giorno trovarono da dire. Un giorno disse il Sole: “Io voglio essere il capo; io sono come Mvile [l’essere supremo]. Io voglio essere il signore della lotta”. E la Luna disse: “Io voglio stare tranquilla. Non fo male a nessuno. Quando comando io, tutte le cose dormiranno e riposeranno, e se uno ruba qualcosa, nessuno lo vedrà, e non nasceranno liti. Quando arrivi tu, subito c’è guerra e lite e cattiveria fra gli uomini. Voglio comandar io!”. Andarono insieme da Mvile. Mvile disse: “Voi non andrete più insieme. Il Sole comanderà di giorno e la Luna di notte”.” (4)
Bellissima storia e illuminante. Il Sole, mortifero e dispotico è apportatore di guerra e lite e cattiveria. La Luna, tranquilla e innocua, favorisce il sonno e il riposo, in più, materna, distende un manto protettivo e indulgente persino sul ladro.
Né il Sole, né la Luna, nel mito, muoiono mai, o, per meglio dire, definitivamente, se pensiamo alla luna che decresce, scompare e poi ricompare e ricresce continuamente. Ma, mentre il Sole, seppure eterno, è legato al mondo dei morti, la Luna è legata all’idea di risurrezione.
Un mito dei Mongo-Nkundu, bantu del lago Leopoldo, fornisce di questa particolarità della Luna una spiegazione minimalistica ma estremamente densa di significati. (5)
Il Sole e la Luna, per decreto dell’essere supremo Nzkomba, vivranno “sempre, sempre”, mentre l’uomo “morrà e morranno tutti i suoi figli”. Così, per gli uomini, “sempre ci furono delle nuove nascite, e sempre uomini e bambini morirono, mentre il sole e la luna non muoiono mai. Il sole si leva ogni giorno per vedere i figli dell’uomo curvi sul lavoro, mentre la luna, che, essendo donna, si stanca più presto, resta di quando in quando assente per alcuni giorni; ma l’uno e l’altra non muoiono”.
Il mito da cui è tratta la citazione narra una specie di genesi patriarcale e antropocentrica: l’uomo è figlio di Dio, come il sole e la luna, e la donna, così come la terra e tutta la natura, animali compresi, sono creati per essere in suo dominio e soddisfare le sue esigenze. Un vero e proprio eden non solo antropocentrico, ma propriamente “androcentrico”. Ma l’uomo commette il solito peccato originale, di indisciplina e di “curiosità” e perde la condizione edenica. Diviene mortale, a differenza dei propri fratelli, Sole e Luna. Il mito, maschilista, pretende di limitare la condizione di immortalità della luna, giustificando con la debolezza nativa, connessa alla sua natura femminile, il fatto che scompaia periodicamente. Indirettamente invece, e probabilmente contro la stessa volontà del gruppo che lo ha espresso, celebra la superiorità della debolezza femminile, che comunque viene riconnessa alla specifica capacità della luna di morire per risorgere. Non a caso, in un altro mito dei Tetela, dove si fa riferimento ad un passato matriarcale, questo passato si colloca in una dimensione edenica, in cui il mondo e la natura, governati dalla debolezza femminile, erano in pace e l’animale feroce conviveva tranquillamente con quello più debole ed indifeso; dimensione che viene corrotta e rovesciata dagli uomini che si impadroniscono del potere con la brutalità e con l’inganno (6).
La natura del Sole non apre l’angoscia dell’uomo, mortale, alla speranza. Altezzoso e distante, va per la sua strada di immortalità, che lo porta ad attraversare ogni notte il regno degli inferi, ed è per l’uomo certificazione del suo destino di morte. Lenta e debole, la luna si ferma, fa sosta, riprende fiato, sembra annullarsi, ma poi torna a splendere nel cielo, risorge da morte apparente. È lei che stabilisce, con la semplice forza dell’evidenza di un destino paradossale, il diritto alla speranza che la morte possa non essere una condizione definitiva.
Ma c’è di più.
La Luna è anche la Dea Bianca originaria del Mediterraneo matrilineare e dell’Europa settentrionale, madre di tutte le cose, come anche di tutti gli dèi, signora della vita e della morte (7). E la Rupe che immette alle Porte del Sole, allora, è la Rupe Bianca proprio perché il Sole si limita a usurparne e coglierne l’aspetto di morte, incapace com’è di assumerne e rappresentarne l’aspetto più profondo e salvifico del morire per rinascere.
In un altro mito dei Boscimani meridionali è il Sole che trafigge la Luna col suo coltello, quando essa “sta ferma”: “ed essa allora deperisce” (questo, naturalmente accade di giorno, perché di notte la luna cammina…); il Sole le lascia, però, la spina dorsale e la Luna “lentamente se ne va, lentamente torna a casa; poi di nuovo si mette in moto per diventare un’altra luna, la luna piena; essa rivive, rivive mentre pareva che morisse…” (8).

A volte, però, la contesa tra Sole e Luna non si risolve pacificamente, magari a seguito dell’intervento salomonico del Dio supremo (a te il mondo notturno, a te quello diurno), ma degenera in vero e proprio confronto, esibizione muscolare, gara a chi si dimostri più forte dell’altro. Allora, la Luna mette in gioco ben altre carte che la mitezza e la passività. Signora delle acque, ella domina e dispone a suo piacimento del freddo e delle nubi.
In un mito dei Cjamba, sudanesi dell’interno, la Luna, che si ritiene “più grande e più forte” del Sole, lo sfida ad una gara crudele che coinvolge tristamente la rispettiva prole (9).
“Mandami una sera tuo figlio –dice la Luna al Sole-. Voglio vedere se può resistermi”.
E intorno al figlio del Sole raduna il freddo e le nubi, finché lo uccide.
Quando è la volta del Sole a mettere alla prova la resistenza del figlio della Luna, vanamente convoglia su quello tutto il calore di cui è capace. La Luna si avvicina al figlio e gli versa sopra acqua in gran quantità.
“Ogniqualvolta il Sole riscaldava eccessivamente con la sua vampa il figlio della Luna, fin quasi a farlo morire, la Luna accorreva con l’acqua e la versava sopra il figliolo, il quale così si rinfrescava…”.
Acque della luna, dunque, e il legame della luna con l’acqua è cosa universalmente risaputa.
In principio vivevano i Valengo, narra un mito dei Njamvesi, Bantu sud-orientali (10). Vollero fare una torre (“la torre dei Valengo”) per salire “su in cielo a prendere acqua”; e quest’acqua è propriamente sulla luna, come indirettamente chiarisce un altro mito di una popolazione affine, i Kulwe del Lago Rukwa, che, trattando sempre dell’archetipo della torre di Babele, riferisce che gli uomini fanno una grande costruzione per arrivare sulla Luna (11).
Nella tradizione cambogiana, dove il mito lunare è inserito nel “sistema dualista che oppone sole e luna, secco e umido, uccello e serpente”(12), questo potere sulle acque è ben rappresentato. La Luna, identificata alla Nāgi, la donna-serpente figlia dell’umido e del freddo, è propriamente la signora delle acque, alla quale si fanno risalire benefici effetti per la natura e per l’uomo, poiché dalla luna dipende la pioggia fecondatrice per le risaie.
Ben più sorprendente è poter cogliere, in certi miti africani, una connessione della luna con l’elemento che solitamente per qualità le si oppone, in quanto connotativo piuttosto del sole: il fuoco.
Un mito dei Mascjona della Rodhesia meridionale, nel quadro di una rielaborazione eziologia del rapporto luna-immortalità, introduce un terzo elemento relazionale, il fuoco, appunto.
Se in una tradizione dei Pigmei del Gabon (che si ritrova, altresì, presso i Bantu) il fuoco è dono originario del Creatore misericordioso, il quale, mosso a pietà dalle condizioni miserrime degli uomini, che sono preda della fame e del freddo, alle preghiere del capo degli uomini risponde “Ti darò la cosa rossa, la cosa viva! Essa rimarrà con te. Tu non avrai più fame, non avrai più freddo. Tu solo avrai la cosa rossa: gli altri animali ne avranno paura”(13); nel mito mascjona è l’olio contenuto nei due corni della Luna (corni strappati sulla montagna dal re Togoa, nel vano tentativo di agguantare la luna, per poterla portare come ornamento sul petto, al fine di potersi sottrarre alla morte) che, come liquido incantato, produce magicamente il fuoco.
“Quando si versava un po’ d’olio sull’erba secca, questa s’infiammava” (14).
Non meraviglierà, allora, se nella mitologia africana possiamo riconoscere che si arrivi ad assegnare anche alla donna il ruolo dell’eroe civilizzatore che consegna il fuoco originario all’umanità.
“Una volta non c’era fuoco sulla terra; e un uomo salì al cielo per cercarne”. Quell’uomo fallì. Tentarono un secondo e un terzo. Tutti fallirono, perché tutti peccarono di presunzione e di ingordigia. Solo una donna, che si comportò in maniera compassionevole e modesta (non rise, come avevano fatto i suoi predecessori, dei figli deformi di Mulungu, il Dio supremo dei Gogo -Bantu stanziati ad oriente dei Grandi Laghi-, né si lasciò abbagliare dalla parata di vasi magnifici e preziosi, scegliendo quello più modesto), fu premiata, trovò il fuoco nel vaso di Mulungu e lo portò sulla terra.
“Gli uomini furon d’accordo nel lodarla, e dichiararono che le donne hanno più giudizio degli uomini” (15).
Con questo riconoscimento alla superiorità femminile conclude il mito dei Gogo, che sembra trovare un rispecchiamento ed un completamento in un mito dei Boscimani del Kalahari, in cui si dice che, al tempo della gente primitiva, uomini e donne vivevano separati e gli uomini “non erano come le donne, che tenevano sempre un po’ di fuoco e facevan le cose per bene” (16).

NOTE
1) versione di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1982
2) cfr. Alfonso Cardamone, “L’ultimo dei reami”, Tofani, Alatri 1995
3) cfr. “Dio e gli uomini”, in Raffaele Pettazzoni, Utet, Torino 1973, V. I
4) v. “Il Sole e la Luna”, op. cit.
5) v. “L’uomo maledetto da Dio”, op. cit.
6) v. “Matriarcato”, op. cit.
7) cfr. Robert Graves, “La Dea Bianca”, Adelphi, Milano, 1992
8) v. “Il sole e la luna”, op. cit.
9) v. “Il Sole e la Luna”, op. cit.
10) v. “La torre dei Valengo”, op. cit.
11) v. “La torre di Babele”, op. cit.
12) cfr. Yves Bonnefoy “Dizionario delle mitologie e delle religioni”, Milano 1989.
13) v. “Il fuoco”, op. cit.
14) v. “La “Torre di Babele””, op. cit.
15) v. “Una donna ottiene il fuoco dal cielo”, op. cit.
16) v. “Origine del matrimonio”, op. cit.
 


 
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Ugo Fracassa
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LA SINDROME DELL'ORCO
 
Fatta eccezione per la bibliografia redatta con scrupolo filologico e filiale dalla primogenita Idolina e acclusa al secondo volume delle Opere edito da Rizzoli, i testi licenziati da Tommaso Landolfi esplicitamente “per bambini” (così il sottotitolo alla prima edizione del Principe infelice) soffrono citazioni lacunose nei repertori, ormai numerosi, elaborati dalla critica in margine agli studi monografici sull’autore. La favola menzionata, ad esempio, compare spesso postdatata al 1954, forse per un fenomeno di attrazione operato dal secondo esperimento del genere (La raganella d'oro), stampato in quello stesso anno. É quanto accade, per esempio, nel saggio di Giancarlo Pandini edito per “Il Castoro” nel novembre 1975, ovvero nell’Enigma Landolfi di Giovanna Ghetti Abruzzi del 1979; sorte peggiore quella riservatagli nel volumetto Del Noce 1983 che li tace affatto tra le “opere principali” (spiace riferire la curatela di Carlo Bo, già dedicatario de LA BIERE DU PECHEUR)(1). Esiste almeno un’altra prova incontrovertibilmente ‘giovanile’ di mano landolfiana: la breve collana di filastrocche confluita in un volume che raccoglie versi per bambini di vari autori, pubblicato a cura di Giovanni Arpino per “I Gemelli” di Rizzoli nel 1968; certo, l'attribuzione ad autori vari non ha giovato alla paternità del libro, ma è pur vero che, fino alla comparsa dei due tomi della citata opera omnia, la restituzione di quei testi all'autore risultava malcerta. Un anno prima, infine, sotto il titolo generale di Colloqui, Landolfi affidava alcuni dialoghetti al volume collettivo Sei racconti; la veste editoriale essendo la stessa - la collana per ragazzi “I Gemelli” - e comparendo i dialoghi accanto ai racconti di Buzzati, Arpino e Rodari, un effetto di trascinamento ha qualificato l’esperienza di ‘giovanile’. Circa tale definizione, in contrasto pure con quanto afferma la nota ai testi di Idolina Landolfi (“tre racconti per bambini”), avanzeremo riserve più avanti.
Per la verità, la disattenzione verso lo scrittore di Pico, la sua esigua fortuna critica, hanno riguardato per lungo tempo - specialmente tra la fine degli anni settanta e l'inizio degli anni ottanta - non solo gli sconfinamenti in territorio giovanile ma l’intera sua produzione. Questo dell’autore misconosciuto è diventato luogo comune della saggistica quando, in tempi più recenti, l’industria culturale ha provveduto alla riapertura del ‘caso Landolfi’ e alla sua riscoperta. Da quel momento anche le favole, i racconti e i versi per bambini hanno attirato l’attenzione degli studiosi, meritandosi giudizi superlativi: “una delle più suggestive fiabe che siano state narrate da uno scrittore italiano del nostro tempo” (2) (Il principe infelice), “un’altra [fiaba] bellissima” (La raganella d’oro), “quel capolavoro che è Il principe infelice”. (3) In generale però, trattandosi di “tipico minore” - come Landolfi diceva di sé (4) - l’autore del Principe infelice si trova a patire una doppia minorità. Se il romanziere della Pietra lunare e del Racconto d'autunno è da ritenersi minore rispetto al gotha della narrativa italiana contemporanea - Pavese, Moravia, Calvino - che sarà di quello stesso alle prese con un pubblico di minori? La questione non è nuova e riguarda lo statuto da attribuire alle sortite sporadiche tentate da un narratore nei territori, contigui ma oltre confine, del teatro, della poesia o della letteratura giovanile.
Landolfi, dopo il primo periodo fiorentino che lo consacrò maestro del racconto fantastico, si dava a sperimentare nuove forme: dal ripiegamento memorialistico dei due diari, Rien va e Des mois, prefigurati nel romanzo anomalo LA BIERE DU PECHEUR, all’anacronistico poema drammatico in endecasillabi sciolti Landolfo VI di Benevento, al radiodramma e allo sceneggiato televisivo, fino allo scioglimento lirico finale (Il tradimento precede di due anni la morte). Oltre a ciò Landolfi è stato slavista d’eccezione, traduttore dal russo, tedesco e francese, nonché critico di vaglia: tanto basta a delineare una figura di poligrafo. In questo panorama, i titoli per bambini sono andati incontro ad un annoso insabbiamento ovvero sono stati letti come di sponda rispetto ai testi più noti. Solo oggi essi ci guardano con l'insistenza di chi esige un’attenzione particolare.
La stesura del Principe infelice, compiuta nel luglio del 1938, “non deve aver preso gran tempo” (5) allo scrittore che - nello stesso periodo attendeva alla composizione di Teatrino e Favola, poi raccolti nel Mar delle blatte. Il manoscritto risulta poco variato, anche se l'edizione a stampa differisce da quello in più di un luogo, verosimilmente corretto a livello di dattiloscritto, oggi introvabile (lo scrittore era noto per fornirlo in copia unica). L’edizione princeps è appunto quella del dicembre 1943 per i tipi di Vallecchi, recante sul frontespizio l’indicazione “romanzo per bambini” e illustrato da Sabino Profeti su formato grande; la ristampa del 1954 – “assai meno belle le illustrazioni”(6), non fa testo. (7)
Il carteggio con Enrico Vallecchi - circa duecento lettere, per parte dell’autore, conservate presso l'Archivio Contemporaneo A. Bonsanti - (leggasi: lo spoglio scrupoloso di quelle per mano di Idolina) ci consentono di seguire da vicino le vicende di pubblicazione delle due favole. Ciò che immediatamente colpisce è l’attenzione riservata dall'autore a queste opere, forse maggiore (almeno a giudicare dalla consistenza epistolare) di quella riservata ad altre più note. Fatta la tara all’urgenza economica connessa alla composizione de La raganella d’oro, resta comunque la traccia di una paternità forte su queste opere, oggetto di un notevole investimento emotivo se l'autore vorrà spesso promuoverle presso l'editore con toni, volta a volta, irati, supplichevoli, disperati:

Non vedo né Raganelle né Principi - Son furioso, oltreché colpito al cuore (8).

Non sorprende l'attaccamento dello scrittore a queste operine se si tiene a mente la stima numerica che egli faceva del proprio pubblico (“duegenquaranta lettori”) e, all’opposto, il successo di vendite ottenuto col Principe infelice – “l'unico che ci dette qualche serio guadagno” (9) - presto esaurito. La ristampa verrà a più di un decennio di distanza, dopo aver più di una volta disperato: “Dell’altro, il Principe infelice, infelice davvero, non mi dici nulla ?”(10)
Più recentemente, nel 1985, un paio di iniziative editoriali hanno proposto la favola del ‘43 all’attenzione di un pubblico nuovo, già lanciato verso il boom di un settore in cerca di formule aggiornate a partire proprio dalle esperienze non specialistiche e meno canoniche del passato. Il principe infelice è fatto oggetto, oltre che dell’edizione Giunti - Marzocco, della prefazione di Enrico Ghidetti e Leonardo Lattarulo alla raccolta La bottega dello stregone. La favola landolfiana viene scelta in sede critica perché considerata emblematica della funzione svolta nel novecento dagli sconfinamenti di autori ‘colti’ in territorio favolistico (11):

la trama della fiaba di Landolfi […] potrebbe aiutarci a comprendere il significato del racconto fiabesco per uno scrittore come Landolfi e, in generale, per scrittori ‘colti’, che non siano, cioè, specialisti di letteratura infantile e che si siano dedicati perciò alla scrittura di fiabe solo occasionalmente. Il contenuto del Principe infelice, infatti, sembra in qualche modo prefigurare una sorta di teoria della fiaba letteraria: il “bel sogno” destinato a guarire il protagonista dalla sua malinconia può essere assunto a simbolo della fiaba stessa, cui ci si rivolge quando la narrativa ‘colta’ ha esaurito le sue possibilità, è divenuta incapace di arricchire l'esperienza e di liberarla dalla morsa della ripetizione e della depressione(12).

Pur concordando in linea di massima con quanto affermato dai due curatori, impegnati a fornire una chiave di lettura unitaria per l’intera silloge, è facile qui notare come un simile procedimento vada incontro a qualche generalizzazione. Se quanto si dice circa l’utilità degli episodi giovanili in vista di una rivitalizzazione narrativa è condivisibile in molti casi, meno centrata appare l'intuizione proprio nel caso del Principe infelice. È pur vero, infatti, che il ‘43, data di pubblicazione dell’opera, segna il termine di quel primo tempo landolfiano all’insegna di un fantastico ancora incontaminato nonché di una intatta felicità inventivo-narrativa, cui seguirà un riaffacciarsi del realismo e una conseguente crisi narrativa e, tuttavia, occorre retrodatare il Principe infelice a quel “Pico, 28 luglio 1938”, annotato dall’autore compiuta l’opera. Quegli estremi sono proprio tempo e luogo della sua più vera ispirazione. Pico Farnese e il palazzotto avito situano la scrittura landolfiana quasi negandole altra sede(13). Il 1938, poi, è tra le annate migliori di quel quinquennio -1937/42 - durante il quale escono il Dialogo dei massimi sistemi, La pietra lunare, Il Mar delle blatte e La spada, opere che meritano lo statuto - recentemente conferito da Rizzoli - di “classici contemporanei”. Il Principe infelice viene concepito e dato alla luce in quel clima di felicità espressiva, di sorgiva facilità affabulatoria, di visionarietà fantastica che l’autore avrà modo di rimpiangere e mitizzare come personale età dell’oro nella stagione dei versi senili.

O cari mostri della giovinezza
Lunari orrori, ribrezzo
Di solitarie dimore, Palpiti di terrore:
Quanto più vivi e quasi lieti, quasi
Lievito di speranza!
In oggi fin l’angoscia è smorta. (14)

Oh tempi quando almeno la notte era terrore, era voluttuoso fremito d'ignoto! (15)

Nessuna meraviglia, perciò, se ad una lettura critica avvertita l’opera rivela l’impronta del Landolfi più celebrato. La favola si compone di ventiquattro capitoli, corredati di altrettanti titoli, ad isolare gli episodi ed agevolare la fruizione da parte di un pubblico infantile che è ragionevole immaginare intento alle figure e in ascolto di un adulto ‘recitante’, piuttosto che tutto solo alle prese con una prosa, come vedremo, ricca di arcaismi, toscanismi e voci desuete; fondata cioè su quel lessico inusitato che è l’idioletto landolfiano.
In un luogo remoto nello spazio, “molto lontano di qui, verso i confini dell'impero della Luna”, e nel tempo non meno distante e indistinto (un medioevo qualsiasi di principi, castelli e buffoni di corte) viveva un re saggio con il suo unico nato, erede e successore. Un brutto giorno il principe cade in una profonda malinconia - ciò che oggi diremmo depressione - per la quale non si trova rimedio. Gettato il bando (metà del regno attende chi saprà guarirlo), “dai paesi più lontani convennero allora medici e sapienti famosi”, ma invano. Quando tutto sembra perduto, arriva a corte un personaggio misterioso, alto non più di due spanne e barbuto; propone una terapia: “Ciò che occorre al principe è soltanto un bel sogno. Ch’egli lo faccia, e sarà guarito all’istante”. Il difficile ora è mandare il sogno salvifico a visitare la trista notte del nobile giovane; occorre recarsi al Paese dei sogni per perorarne la causa presso l'imperatore. Chi si offre per l'impresa è la giovane Rami dal cuore di cristallo, nipote del Re ardimentosa perché innamorata. Nient’affatto intimorita dal dover valicare le Montagne di Diamante, attraversare la Terra dei Fuochi Folletti, quella degli Orchi, la Brughiera delle Streghe, l’Impero della Luna e da ultimo il Paese degli Animali Parlanti, ella si appresta a partire quando Vanina e Ossala, altre due regali nipoti, più avide ma meno di lei innamorate, si accodano alla spedizione. Dopo aver superato tutte le traversie e già sulla via del ritorno, Rami raggiunge Vanina e Ossala in un luogo convenuto ma quelle - udito l’esito felice della ricerca - le comunicano la ferale e fallace novella della morte dell'amato principe.

Aveva essa appena pronunciata la sua menzogna, che s’udì uno schianto sinistro, come di cristallo frantumato, e Rami cadde esanime ai piedi della grande quercia(16).

Ora tocca al reuccio, ormai orfano e guarito, correre in soccorso all'amata e rinvivirla con un bacio. L’amplesso tuttavia risulta insufficiente a ridestare per intero la sventurata dal letargo, a meno che a quello non si aggiunga - secondo il nuovo parere che al misterioso nanerottolo vale l’altra metà del regno – l’effetto del profumo del Croco di Lotia.

Sarebbe troppo lungo narrare qui quante fatiche dovettero sopportare, e a quali terribili avventure andarono incontro, il Re e i pochi suoi fidi nella ricerca e conquista del Croco di Lotia(17).

Fatto sta che da ultimo i due, ormai nullatenenti, si stabilirono in riva ad un lago e “vissero felici e contenti per lungo volgere di anni, e là se nel frattempo non sono morti, vivono tuttora”. Il personaggio che dà titolo alla favola presenta, dal punto di vista sintomatologico, disturbi (umore nero, astenia, agorafobia) per i quali il lettore di Landolfi ha sviluppato un occhio clinico. Non solo Ottavio di Saint Vincent o Landolfo VI di Benevento, protagonisti delle opere eponime, ma tanti personaggi saturnini, immancabilmente autobiografici, trascorrono dalla malinconia all’accidia, dall’ipocondria all'ignavia. Varrà piuttosto la pena notare che qui, pur comparendo nel titolo, il tipico antieroe landolfiano (sarà lui ad essere soccorso dalla fanciulla e non viceversa) non accede neanche alla nominazione propria. Obnubilato dai fumi di un’atra bile, irresoluto a tutto, il principe pare non meritare distinzione onomastica oltre a quella che gli deriva da un titolo esplicitamente costruito con perizia intertestuale.
Il riferimento è, facilmente, all'opera prima di Oscar Wilde, la raccolta di fiabe del 1888 The Happy Prince and other tales. Landolfi, non nuovo ai rimandi citazionali fino in copertina (a partire dal Dialogo dei massimi sistemi), essendo in lui l’impulso letterario almeno di secondo grado, assicura, a chi ne esamini la scrittura in cerca di simili reperti, un lauto guadagno critico(18). Non a caso, infatti, la fiaba cui il titolo fa eco è opera di uno scrittore cólto, letterario, maggiore, né Landolfi ha voluto guardare, per questo suo esperimento, ai classici della letteratura giovanile dovuti a scrittori esclusivamente dediti all’infanzia. Il riferimento a Wilde, pertanto, suona come legittimazione preventiva per una sortita nel genere della favola; sta a significare che l'adozione di temi e strutture di genere non impedisce il transito della sostanza poetica, al contrario, come vedremo, al rispetto delle convenzioni anche retoriche corrisponde per l'autore un ampio margine di intervento artistico individuale.
Passando al personaggio femminile, Rami, nipote del Re e forse consanguinea del principe - secondo una tradizione endogamica alla quale “l’ultimo forse rappresentante genuino della gloriosa nobiltà meridionale” (19) doveva essere avvezzo - contende la scena al personaggio maschile relegandolo per la gran parte dei capitoli al ruolo di deuteragonista. Le figure femminili nella narrativa landolfiana hanno sempre avuto rilevanza assoluta; dei tanti esempi che si potrebbero addurre si pensi solo alla donna capra Gurù de La pietra lunare, a Le due zittelle oppure a La muta soggetto di un racconto tra i perfetti dello scrittore picano. Il nome di Rami evoca l’oriente e insieme alla particolarità cardiaca ricordata (un cuore di cristallo) contribuisce a renderne misteriosa origine e collocazione. Determinata a salvare l'amato che langue, secondo quanto cantilena ad ogni nuovo incontro, Rami è vittima della sua stessa modestia e ingenuità (si noti che, pur essendo bellissima, pochi a palazzo ne hanno memoria, tanto pare umile) quando Ossala e Vanina tramano la sua eliminazione e ne inducono la morte apparente. Già nel capitolo XI la nobile fanciulla era incorsa nel maleficio dell’immobilità, perciò, si deduce trattarsi di indole facile alla catalessi. L’immobilità nella donna , come per Kafka il mutismo, è attributo della perfezione in Landolfi. Queste figure, spesso ritratte nella fissità(20), conducono immancabilmente ad una traccia mnestica celebre di cui è notizia in Prefigurazioni: Prato(21).

io ero un bambino che a un anno e mezzo avevano portato davanti a sua madre morta, colla vana speranza che i lineamenti di lei gli rimanessero impressi nella memoria; e che aveva detto: lasciamola stare, dorme.

Occorre prendere coraggio e rileggere il letargo di cui al capitolo XXII alla luce di questo riferimento interno, come rigor mortis.

Ora avvenne un giorno, che cavalcando così, solo e senza meta, il re capitasse sul limitare di quella tale foresta, presso quella tale quercia ai cui piedi la giovinetta Rami era caduta esanime tanti mesi prima. Oh, meraviglia ! Le fiere avevano rispettato il suo fragile corpo, ed ella non pareva morta, ma soltanto addormentata placidamente fra l’erba(22).

Nessun altro esempio più di questo può dirci quanto cogente e magmatica possa essere la sostanza poetica sottesa da un autore anche ad opere a destinazione giovanile, qualora lo stesso vi si accosti ‘ispirato’ e scevro da pregiudizi, senza cioè ricorrere preliminarmente ad un'autoriduzione letteraria, frustrante per lettori di qualsiasi età.

Qui sorse a parlare, dal seggio foderato di damasco dove era seduta, una delle nipoti del Re, principessa di sangue reale e fanciulla di straordinaria bellezza […] Quella aveva i capelli castani, con riflessi verdognoli(23)

La descrizione, pur breve e solo accennata, del tipo fisico riporta inesorabilmente Rami all'immagine muliebre ricorrente nella narrativa di Landolfi, con l’effetto, innanzitutto, di proiettare su di lei il potere conturbante e le dinamiche del desiderio connesse. Ecco come viene ritratta la men che adolescente Rosalba nella Morte del Re di Francia:

il ventre ampio e cavo, ombreggiato di bruno e viola con sfumi di biondo verso l’alto, come della vegetazione nascente (24)

La tonalità cromatica tendente al verde, che tornerà in molte altre descrizioni di giovinetta, rimanda al frutto acerbo, in ossequio ai canoni di un lolitismo molto vivo nell’immaginario erotico landolfiano, e da quello alla rimozione della fecondità come attributo femminile, secondo la doppia opzione della verginità e/o sterilità. È il caso di Lucrezia, “la vergine lattante” che compare nell’allucinato Mar delle blatte:

E infine Lucrezia. Giunse sospinta brutalmente da due uomini in tricorno assai muscolosi. Era seminuda, con un seno fuori, dalla cui punta a ogni strattone degli uomini gorgogliava un fiotto di latte (25)

Una stessa invenzione apparenta Rami a Lucrezia, due fanciulle peraltro così distanti. Si tratta di un’immagine il cui potere perturbante nasce dall’accostamento del non umano (un rettile, un aracnide) al simbolo stesso della maternità: il seno.

Dalla cesta si levarono due serpi sonnolenti, strisciarono fuori sul pavimento vicino ai piedi dell’avvocato immobile, girarono lentamente il capo a destra e a sinistra quasi a orientarsi, poi si diressero con sicurezza verso la fanciulla. Ciascuno si impadronì di un capezzolo e rimasero così a succhiare il latte(26)
ella non pareva morta, ma soltanto addormentata placidamente fra l’erba. Dalla punta del cappuccio al seno un industre ragno aveva tessuto la sua tela, che scintillava al sole. (27)

Si noti come, pure nel secondo caso, sebbene attenuato e quasi in litote (“seno”), l'invenzione visiva rimandi al capezzolo in quanto terminazione sensibile, infatti, per quella tela tessuta dalla punta del cappuccio, occorre immaginare all'altro capo un appiglio non meno svettante. Tale audace immagine pare evocare, per tornare a Wilde, il liberty trasgressivo di Aubrey Beardsley e allude ad un livello di lettura ulteriore.
I testi per l'infanzia di Tommaso Landolfi sono costruiti in modo da contenere una sorta di doppio fondo che consente all'adulto di cogliere citazioni, ammiccamenti, disincanti ed ironie precluse al bambino. Eccone una rapida rassegna: “quella fanciulla [Rami] aveva il cuore di vetro, mentre le altre due lo avevano di carne, come la maggior parte della gente”; dove, per l’autore del Dialogo dei massimi sistemi e il suo lettore ideale, l’understatement riguarda la consistenza lapidea di molti miocardi. Ancora; giunta nel Paese dei sogni e sorpresa da quanto vede, Rami domanda: “Anche i cavalli sono sogni?” La risposta che segue non ferisce le orecchie implumi della fanciulla solo perché omnia munda mundi: “anzi i cavalli popolano spesso i sogni degli uomini, e specie delle donne”.
È poi facile immaginare il cinismo landolfiano dietro questo scambio di cortesie tra principe e nanerottolo:

Dirò da ultimo che sono dolente di togliervi l’altra metà del vostro regno (“oh, prego!” fece il re senza pensarci), ma a ciascuno il suo: a me le cure d’un vasto regno, a voi e alla vostra sposa la felicità. (28)

L’ironia su gnomi, orchi e fate tradisce la competenza di genere dello scrittore, fresco di traduzione dalle fiabe dei fratelli Grimm: gli gnomi “escono spesso dai loro covi verso mezzogiorno per aggiustare le loro scarpette (non so perché hanno sempre tante scarpe da aggiustare)”(29); “spesso le fate buone si recavano fra le streghe per riparare al male che queste facevano”(30); gli Orchi “non sono tanto cattivi quanto si dice”(31). Infine, un vero e proprio attestato di riconoscenza alla letteratura per ragazzi nella persona di Jules Verne si avrà con uno scritto critico raccolto nel 1971 in Gogol’ a Roma (sul quale occorrerà tornare). Un paio di velati riferimenti a testi di ben altro peso sono nascosti nel capitolo iniziale. Nel favoloso medioevo di ambientazione, l’eco deformata delle idee espresse nell’ Émile di Jean Jacques Rousseau sfuma in reminiscenze campanelliane:

Il piccino venne fin dalla più tenera età affidato alla cura di un’abile precettore, uomo fra i più sapienti del reame, il quale pose a profitto dell’illustre pupillo non solo tutta la sua sterminata dottrina, ma anche tutte le sue arti e la sua esperienza. Fino all'età di quindici anni circa egli lo intrattenne dei grandi spettacoli della natura, lasciò che i suoi occhi si empissero di sole e le sue orecchie di suoni, che il suo cuore battesse all’unisono col grande cuore delle cose; ma compiuta che ebbe il principe quell’età, chiese ed ottenne dal re di rinchiuderlo in un vasto castello, sontuoso a vero dire, ma dove il ragazzo era tenuto come prigioniero.(32)

Fin qui l’ Émile

Sulle pareti poi di questo castello, in parole in segni in immagini, era iscritto tutto lo scibile umano, le parole dei saggi e quelle di poeti.(33)

In queste righe il ricordo della pedagogia impartita nella Città de Sole:

tiene [il Sapienza] un libro solo, dove stan tutte le scienze, che fa leggere a tutto il popolo ad usanza dei pitagorici. E questo ha fatto pingere in tutte le muraglie, su li rivellini, dentro e di fuori, tutte le scienze […] e li figliuoli, senza fastidio, giocando si trovano saper tutte le scienze istoricamente prima che abbin dieci anni. (34)

Non è poi una caso se, mettendo mano al suo primo libro per ragazzi, Landolfi sceglie di aprire con due riferimenti - nel titolo e nel capitolo primo - che orientano verso una prevalenza del letterario sul didascalico. Infine, quanta amara consapevolezza nel seguente inciso: “la sapienza è, o almeno dovrebbe essere fonte di gioia”, dove il condizionale introduce un pessimismo le cui più lontane tracce condurranno il lettore adulto fino all’Ecclesiaste.
La funzione metaletteraria, sempre attiva in Landolfi, non smette di operare in occasione degli sconfinamenti ‘giovanili’ e, analogamente a quanto accade col lettore adulto, configura un destinatario capace di riconoscere i sedimenti letterari. L’autore del Principe infelice postula un lettore (bambino) modello capace di ravvisare, nel brano seguente, la scena madre della Bella addormentata:

Poi si chinò per deporre il primo e l’ultimo bacio sulla fronte della giovinetta, prima di darle degna sepoltura. Ma sotto le sue labbra gli parve d’un subito sentire ancora un vago calore sulla fredda fronte: “Sarebbe mai possibile? Vive ella ancora? No, certo le mie labbra erano troppo ardenti, e non è che un’illusione!” Egli appoggiò tuttavia l’orecchio sul cuore della giovinetta. Non era un'illusione: un palpito sordo e remoto, quasi venisse dalle profondità della terra su cui il tenero corpo posava, agitava, seppur debolmente, quel cuore: la fanciulla viveva! (35)

La stesura della prima favola landolfiana risente in particolare dell’influenza di Novalis e dei fratelli Grimm. Del primo e della sua metafisica della fiaba Landolfi è debitore per la trovata del sogno risanatore idea romantica quant’altre mai. Del resto, per dirla con Macrì, “la filiazione romantica di Landolfi è certa: meglio postromantica”(36), per la precisione il polo di attrazione è da collocare tra Novalis e Hoffmansthal, dove “la linea postromantica si salda con la simbolista”.(37) Dai fratelli Grimm deriva al Principe infelice un’atmosfera languida, lunare, a tratti mesta che è poi la tonalità dominante del racconto se si eccettuano il primo e l’ultimo capitolo. La traduzione dell’Enrico di Ofterdingen novalisiano e di sette fiabe raccolte dai Grimm (Fiordirovo, I talleri di stelle, Giandiferro, Cappuccetto rosso, La ragazza senza mani, Pidocchietto e Pulcetta, La luna) precedono di qualche mese la pubblicazione del Principe infelice e comunicano a Rami e al suo sposo tutto il languore di un romanticismo estenuato.
Del resto, il valore di un’opera come il Principe infelice non va cercato nei rari e comunque forzosi tentativi moraleggianti; si vedano i seguenti giocati sull’edificante binomio amore / cuore:

basta dire che non possedevano l’amore [Vanina e Ossala] senza di cui non si porta a compimento un’impresa di quel genere(38)

Non dovete però disperarvi, né disperar di ridar un giorno alla vostra sposa il cuore di prima. Con molto amore senza dubbio vi riuscirete: quale incrinatura non si rinsalda e quale cuore non si risana se si è in due?(39)

ma piuttosto nel doppio livello di lettura che l’autore governa con mano sapiente, facendo in modo che la complicità col lettore adulto non danneggi la centralità del destinatario ‘minore’.
Da questo punto di vista, un’analisi del lessico può servire da esemplificazione. Ai regionalismi (costì, leticare) che rimandano al periodo fiorentino nonché ad un gusto cruschevole caratteristico dell’intera produzione, si aggiungono arcaismi (ratta, affigurarla), voci desuete (il come causale, epperò in luogo di perciò, il plurale farmachi) e un lessico settoriale (aristocratico) capace di distinguere le gerarchie della servitù (guatteri, famigli). Un simile impasto linguistico, non solo non impedisce la fruizione infantile, ma giova alla connotazione favolosa del racconto e aggiunge alla suggestione narrativa quella fonetica, derivante dallo scollamento significante - significato, presto ricomposto dall'adulto che gestisce o supporta la lettura. Quanto più ricco, infatti, l’elenco delle gioie di Vanina ad un orecchio per il quale “bùccole” e “perle schiccate” risuonino per la prima volta?
Quelle linguistiche non sono poi le uniche libertà che lo scrittore si prende in occasione del suo esordio di favolatore. Tanto più che il dover corrispondere ad uno schema consolidato di narrazione, lungi dal frustrarne l’autonomia creativa, fornisce allo scrittore un solido impianto sul quale esercitare la propria inventiva letteraria. L’annotazione del 4/4/1959 in Rien va recita:

rifantastico di preziosi amici capaci di fornirmi quel minimo pretesto narrativo, quell’intriguccio intorno al quale dovrei fabbricare la mia perla

questo tipo di fantasia si produce in Landolfi, letteralmente, “per mancanza di favola”(40) sicché è facile intuirne l'agio mentre fabbrica, al riparo del guscio fiabesco, quella perla di ironia e disincanto che è il Principe infelice.
La dinamica libertà-convenzione, che ogni autore cólto conosce misurandosi con i numerevoli actantes o personaggi (siano essi sei o sette) e funzioni (siano esse venti o trentadue, a seconda che si guardi al modello di Greimas o di Propp), può riuscire infatti gradita a chi - come molti dei narratori contemporanei - ricerchi un grado zero dell’invenzione dal quale ripartire.

La favola è piena di leggi, di limiti e di costrizioni e - nella tradizione più pura - non permette tanta libertà; eppure io nella fiaba ho più libertà che nel romanzo

La dichiarazione rilasciata in occasione di un’intervista RAI dell’82 da Moravia, chiarisce i termini letterari della questione. La stessa “libertà negativa” si carica in Landolfi di più profonde motivazioni esistenziali.

La sera che in carcere, levando quasi materialmente le braccia alla due volte inferriata finestra, esclamai: Dio, ti ringrazio per la libertà che m’hai dato, non intendevo affatto quello che si può pensare, ma anzi il contrario. Io non intendevo ringraziare Dio del fatto che, sebbene fosse in ceppi il mio corpo, l’anima si serbasse libera e franca, e che quei ceppi non valessero a mortificare la mia umana dignità, eccetera eccetera. No, io semplicemente lo ringraziavo per ciò che ero in ceppi, per avermi tolto, come sopra, ogni pensiero e ogni possibilità d’azione e decisione, donde una gran calma era sgorgata.(41)

L’ossequio al genere non si esaurisce nell'attribuzione ai personaggi delle funzioni canoniche (vedi il nanerottolo aiutante) né con l'assunzione del lieto fine, in parte mitigato dal landolfiano umor nero, o con la vaga ambientazione medievale, ma si estende alle formule retoriche. Se l’incipit “C’era una volta” è rimandato solo di qualche anno - aprirà infatti la Raganella d'oro - non manca l’explicit “vissero felici e contenti”; è sorprendente che un autore come Landolfi, noto per aver messo in crisi e destrutturato la forma della narrativa tradizionale contaminando racconto e teatro, romanzo e saggio, accetti di buon grado di ricorrere ai più vieti espedienti, ormai fossili della tradizione orale: l’iterazione (“cammina, cammina, cammina”, “ma lontano, lontano, lontanissimo”), il richiamo fàtico al pubblico degli ascoltatori (“Immaginatevi il re e la regina!”), lo stereotipo (“scorse un lumicino”). Tutto ciò lascia credere che l’autore trovi compensazione a tanta supina acquiescenza in un livello meno esplicito del testo, a quel secondo livello che - come detto - permette ai “duegenquaranta” lettori fidati di riconoscerne la voce e di decodificare i messaggi “criptati”. Così lo sberleffo del falso rinvenimento di Rami al bacio del reuccio rimanda alla ‘poetica dell’insufficienza’ spesso dichiarata; così il finale caustico – “là dunque vissero felici e contenti per lungo volgere d’anni, e là, se nel frattempo non sono morti, vivono certo tuttora” - svela l’umor nero dell'autore e riscrive a ritroso l’intera favola, che può sopportare catalessi e risurrezioni ma non il nudo dato della morte naturale.
Per concludere, non si tacerà l’impressione che l’instabile equilibrio tra convenzione e libertà, sapientemente raggiunto e mantenuto fin quasi alla metà del libro, si fa precario col procedere dei capitoli. (42) È come se Landolfi perdesse progressivamente interesse alle regole del gioco, tendenza che si estenderà alla composizione della Raganella d'oro e non gli permetterà di bissare il successo (artistico) della favola d'esordio.

15/5/47
ti spedisco col medesimo corriere il libretto per bambini che non mi par malvagio, a parte il difetto che ti accennai a voce. Volevi circa 30 cartelle: eccone 26 fitte. Il titolo ti verrà trasmesso in seguito (che ne diresti di: La raganella d'oro ? A me sembra un po’ troppo squacquerato). Rammenta bene e avverti che il dattiloscritto è, al solito, in COPIA UNICA. E ora a te: guarda di pubblicare il più presto possibile, al massimo per settembre od ottobre (43).

NOTE
1) “A Carlo Bo restino dunque dedicate queste pagine, nelle quali forse soltanto lui capirà qualcosa. E sarà ventura; poiché tra i non intendenti si vuol porre me stesso”, Tommaso Landolfi, LA BIERE DU PECHEUR, in Opere, vol. I, Milano, Rizzoli, 1991, p.571
2) Enrico Ghidetti, Leonardo Lattarulo, La bottega dello stregone, Roma, Editori Riuniti, 1985, pag. VII
3) Pino Boero, Carmine De Luca, La letteratura per l’infanzia, Bari, Laterza, 1995, pag. VIII
4) Tommaso Landolfi, Rien va, Milano, Rizzoli, 1984, p.163
5) Da: Idolina Landolfi, Nota ai testi, in Tommaso Landolfi, Opere, cit., vol. I. p. 1004
6) Idolina Landolfi, Nota ai testi – Il principe infelice, in Tommaso Landolfi, Opere 1937- 1959, Milano, Rizzoli, 1991,vol. I, pag. 1003
7) “La ristampa del ‘54 non è comunque in alcun modo seguita da Landolfi, che il 6 dicembre, da Pico, si limita ad accusare ricevuta dei volumi. Essa è infatti in sé piuttosto sciatta, con numerosi refusi ed alcuni omissioni di intere frasi. I capoversi sono distribuiti arbitrariamente, col chiaro scopo di aumentare il numero delle pagine; inoltre scompare l’indicazione dei capitoli”. Ibid.
8) Ibid.
9) Dalla lettera di Tommaso Landolfi ad Enrico Vallecchi, datata 3 luglio 1950 pubblicata dalla figlia Idolina nello studio: Tommaso Landolfi e i suoi editori: un caso emblematico, in Fonti e studi di storia dell’editoria, Bologna, Baiesi, 1995, pag.199 Le due favole gli valsero allo scrittore di Pico il Premio Marzotto 1955
10) Landolfi a Vallecchi il 16 ottobre 1953. Idolina Landolfi, Nota ai testi, in Tommaso Landolfi, Opere 1937- 1959, cit. pag. 1003
11) Nell’antologia però compare La raganella d’oro, forse per non replicare la pubblicazione di Giunti.
12) Enrico Ghidetti, Leonardo Lattarulo, Prefazione, in AA.VV. La bottega dello stregone, Roma, Editori Riuniti, 1985, p.VIII
13) “la penna che laggiù [Pico] correva, qui [SANREMO] s’impunta e per avviarla ‘ci vuol la mano di Dio’ ”, Tommaso Landolfi, Rien va, cit., p.117.
14) Tommaso Landolfi, Il Tradimento, Milano, Rizzoli, 1977, p.89
15) Tommaso Landolfi, Rien va, cit., p.164
16) Tommaso Landolfi, Il principe infelice, in Opere1937-1959, cit. pag. 384
17) Ivi, pag. 388
18) “gli interpreti devono lavorare intertestualmente in proprio. Ma questo lavoro è indispensabile, se si vuole finalmente comprendere che, a scrivere le opere di Landolfi […] non era impegnato soltanto Tommasino”, Edoardo Sanguineti, Le rivelazioni di Onisammot Iflodnal, in “Gradiva”, IV (1989), 3
19) Tommaso Landolfi, LA BIERE DU PECHEUR, in Opere, cit., vol. I, p. 667.
20) Ecco come viene immortalata l’adolescente di Settimana di sole: “ Se capita su una soglia, la luce di fuori trapassa la sua vestina leggera e la fa apparire quasi nuda, allungandole smisuratamente le gambe e scavandone l’incavalcatura senza pietà”, in Opere 1937-1959, cit. pag. 89
21) Ivi, pag. 743
22) Ivi, pag. 385
23) Ivi, pag. 363
24) Tommaso Landolfi, La morte del Re di Francia, in Opere 1937-1959,, cit. pag. 23
25) Tommaso Landolfi, Il Mar delle blatte, in Opere, cit., vol. I, pag.207
26) Ivi, pag. 209
27) Tommaso Landolfi, Il principe infelice, in Opere 1937-1959,, cit., vol. I, p.385
28) Tommaso Landolfi, Il principe infelice, in Opere 1937-1959,, cit. pag. 387
29) Ivi, pag. 367
30) Ivi, pag.371
31) Ivi, pag. 372
32) Ivi, pag.359
33) Ibid.
34) Tommaso Campanella, La città del Sole, Milano, Feltrinelli, 1962, pagg. 6-8
35) Ivi, pag. 386
36) Oreste. Macrì, Tommaso Landolfi. Firenze, Le lettere, 1990, pag.121
37) Ibid.
38) Tommaso Landolfi, Il principe infelice, in Opere 1937-1959,, cit. pag.383
39) Ivi, pag.387
40) Ancora in Rien va all’8/6/58: “Ma l’intrigo è sempre stato la mia difficoltà insormontabile, e ho sempre invidiato Gogol’ che (incerto moralmente quanto me) fu soccorso da Puškin, si dice: datemi un intrigo e vi solleverò il mondo, e mi basta una storia qualunque giacché poi non è la storia che conta, benché necessaria”
41) Il riferimento è al mese di detenzione politica alle Murate di Firenze (23 giugno - 26 luglio 1943) Il brano è tratto da LA BIERE DU PECHEUR, cit., p. 638.
42) Si veda il personaggio dell'Imperatore del Paese dei Sogni, nel dettato del quale si affaccia il tipico falsetto landolfiano, ad esempio, nel ricorrente stilema degli eccetera: “Ma ora son tutto a te, e io solo godrò l’onore della tua preziosa compagnia , eccetera eccetera”; oppure: “ma proverò lo stesso ad aiutarti, per i tuoi begli occhi”. D’altra parte, è proprio nell'episodio del Paese dei Sogni che si affaccia il tema del gioco d’azzardo, caro all’autore e per legge proibito ai minori, quando l’Imperatore tenta di organizzare un sogno di vincita: “No, e poi no! Vi dico che così non va bene. Riproviamo. Io dunque, facciamo conto, sono il giocatore che sogna; ora, voi dovete farmi vincere, avete capito, si o no? Avanti, riproviamo”. I capitoli XV - XIX sono interamente all'insegna del Landolfi ‘maggiore’, a partire dal sogno del Principe infelice, giocato su un déreglement cromatico allucinatorio, alla trovata finale del sole caduto e ruzzolato “come una forma di cacio”, che ricorda da vicino la luna catturata nel Racconto del Lupo mannaro. Infine, tra gli esemplari più riusciti dell’imagerie landolfiana occorrerà, d’ora in poi, annoverare la descrizione fisica degli incubi: “Ma senza dubbio le creature più bizzarre di quello strano mondo, buffe e orribili al tempo stesso, erano certi esseri a forma di palloni più o meno afflosciati, che però conservavano vagamente forma umana. Enormi erano questi esseri e grigi, avevano occhi spaventosamente tristi che non si potevano guardare senza terrore e senza lagrime; la loro testa si perdeva fra i tetti delle case, e quasi non toccavano il suolo camminando, anzi sembravano oscillare portati lentamente alla deriva dal vento.”
43) Brano riportato in, Idolina Landolfi, Tommaso Landolfi e i suoi editori: un caso emblematico, in Fonti e studi di storia dell’editoria, Bologna, Baiesi, 1995, pag.192
 


 
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Antonio Limonciello
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SENSO COMUNE
 
arruffando spauracchio imbrogli arrotola la spuma dal nord inconsueto il becco troppo avanti al suono del treno un cane scalcagnato sul bagnasciuga mi sbarra mezza pietra affronto ovunque umido bianco cielo dell'alba povera di vita rinseccolita non posso pensare, s'allenta l'onda al sole che sale ombra penombra arco palma in fuga crema protettiva per i dolori di cuore, al sole che scende, letto soffitto sbiancato pigolano razzolano dietro le sedie all'ombra del mare, wolf, wolf, wolf, aagrrr, agrrr, agrr, oee, oee, oee, celestegiallo passerà ancora, passerà, meglio cantarlo passero solitario alla via lattea oh passerà lo stesso, tenuto in vita vicino al focolare anche il mio fumo al cielo, in tasca il mondo guarda il soffitto la notte precipita addosso e ti chiude galleggia tra il pioppo e la magnolia, dietro le tendine musicante l'aria la massaia corre corre la madre dolcetti nipoti una grande spiaggia forse ballonzola la sera, o finge nel letto mi vergogno, mi vergogno farlo con lui pensando a te, dicendolo al mattino impasto con la lingua ad uno ad uno gli anni e gli uomini, eppure immobile no, non starò!
tutto fuori dalle sacre mura non cercare quello che non posso darti correva sempre avanti a pregare le genti il Camuso olivastro pettinato sempre avrà imposto le mani nello studio trappola sempre pronta a catturare galline così che sempre passò dal giorno alla notte depressione resuscitata o girerà questa volta l'angolo perché lei insipido letto diventò languida preda sveglia clitoridea vaginale le braccia alzate cavalcante oliva e senza peli nerchia orata tremante, finalmente abbandonata Arianna in cerca del cappio trilli notturni, corridoi, lune calanti, compiti in fila, saliscendi, senza rossetto, pigiando, la mano finta guida abbocca tristemente lo scoglio attende lì dove il Tirreno si spegne gira sotto vetro nero pensiero distratta mangiare, volgare, volgare incedere di voce e anche, spingi casta vieni che chiudiamo la partita cervellò alzando le gambe al petto e tirandolo a sé vieni che è ora, buio fuori guardingo beffa, vieni che è tardi, fare scudo chi lo sapeva, poco tempo, non così la prossima volta, magari tra altri 5 anni sapore divertente, sapore preveggente, sapore della scelta avvenuta, lì sanno tediarla tediata, forse inorridita scoperchiò la tenda posta sulla poltrona, così fuori il prima che passa al dopo parentesi chiusa, tristezza per ciò che fu solo promessa non mantenuta in fondo lui la vide, provvide, lei partì lasciando un piccolo mondo a crogiolar parole sullo schermo, nei fili, sui letti, poltrone, notturni ricordi, uffà quaderni.
allineate le mangrovie strizzate stanziate sul bianco blu celeste suoni disfatti giungono partono per l'Illiria prima o dopo si infrangono sull'Aspromonte
zi-zi-zi-zi-zi cicaleggia la calma ombre colorate cinguettano tra ombrelli e acqua fresca fredda addomesticata -non cercare in me quello che non può esserci, fai morire anche tu quello che io mortificai anni or sono
- credo che tutto questo avviene perché io mi sono allontanata
- vuoi dire innamorata di un altro?
-sì
volevo Finnegans wake, no, adesso so cosa come scrive e non va, non è tempo di giocare/ironizzare/cinicizzare l'umanità antico inutile passato tragediare piangere tofht, tofht mano alla bocca gambe accavallate al tavolo rotondo, no, lì c'erano ancora speranze e tutti potevano giocare, il gioco oggi ha sapore di morte, peccato non aver profanato gli occhi egizi dei Tolomei morti romani
Sì, calpesti la sabbia o l'acqua immersa dora le ciglia dietro al nero vetro nascondi tendi udito lunghe passeggiate solitarie cellulare controllo/desiderio/misurazione
-sono a 20 Km da te, albergo Cariddu stanza 15, felicità pianto dietro la duna shopping domani domami notte lunga nella veglia battente nel campo creato da te, folle, folle come volevo, corse per l'Italia l'uno dietro l'altro -flagello, io mi flagello strisce nere cartapelle pensiero, lembi divelti pinzati rosse le labbra e il dentro e il profondo anche flagello il gioco della vita- blu lavato granito profondo tutto ninnananna lì sullo scoglio sparavano tuoni ballava piccola storia umana 1984 il mondo passò ruzzolando sul blu vergato dalla pioggia quella nicchia è una vita possibile perché sbriciolarla alle formiche con l'occhio bagnato e le mani tremanti, tran-tran sulla sdraio nascosto il baratto concede mesto ricordo vago smarrimento lascia andare la mattina, lui leggeva al mare la giornata di ieri, controllerà i listini scambierà con il figlio di pallone mentre argentea gambe aperte silenziosa si fermerà al primo vestito vetrina stanza 15 il signore l'aspetta primo piano, prende l'ascensore le gambe tengono meglio e non si suda, non mi piace così bicolore una veneziana accostata Camuso leggero assente in automatico pene illustrato lustrato allenato punta fessa falsa fissa la fessa non capisce neanche quando la pelle asciutta velluto scivola sull'occhio per l'occhio al collo brivido? la statua mi consente di toccare il fondo le viscere rumbleggiano più di sempre abbassare la luce per confondere il mondo così universale mi prende di più, toccò il neo -non lo dimenticherò-, piovono dal cielo culi di mamme pazienti in fila mano al seno conoscenze occasionali danzatrici piangenti tiptapt tamburellanti piripirì tra bonghi e piatti il naso scende di più, calano lenti gli strati di pelle, gocce perlacee, strascichi napoletani rituali appresi e esportati nella terra di nessuno, chi sei oggi nella numero 15, ammutoliti, sospiri fuori tempo, lei solo trema nel vuoto chiamami Giovanni in questo tempo dove l'amore non fa tragedia -quando l'ha detto, come ti ha preso, cosa ti ha fatto?- insopportabile sciatteria gioco caduta imbecille, proprio come una lettera io supino ad aspettare gira il mondo gira, gira e penso a te, solong- magneticamente respinti nell'aria condizionata il sudore estivo lo stesso perla le ascelle le cosce, gli addominali, sgnacchete, rutilante sgnacchete, sciuvn, sciuvn, tira la pelle chiudi gli occhi invernale seno non mi guarda, non sono io ma la paura, non lo capisce, adesso banalizzo dove la pongo questa? nel sogno dei banali, degli acuti, dei mercanti, dei mangiavacche, vuoi bere qualcosa? si un po' di vino frizzante, uno spumante, porti due coppe di champagne; è proprio la storia che volevo corro avanti, no trattengo questo, glielo chiedo? sono prigioniera e non ho paura, non fa parte di lei, quegli eccessi accaparratrice quelle parole sfuggite sebastiani ai legni tenuti in attesa museo - Olga? Dora? Marie Theresa?- dite affilate e puntute trasformate in rotonde salsicciotte, passare dall'uno all'altra, semplice, lento, morente, sostituzione.
L'albergo dietro le spalle lui per l'aereo, lei per il villaggio al volante, cadrà il pomeriggio? vestito nuovo, racconti pronti, naturali, sciorinati come sempre, rossetto perfetto mani al volante pochi fuscelli di paura di schianto cadrà il pomeriggio, cadrà maschera da me incollata sagoma nuova, cadrà nudo il corpo tanti difetti rotolati davanti allo specchio in ginocchio fruscio di seta la vestaglia ripeterà il gesto ancora? era già vecchio? strada già tracciata sogni televisivi, film, sogni sul divano al soffitto schermo, vorrei sotto le stelle con te sulla spiaggia davanti casa mia, dopo la mezzanotte lascio la casa per passeggiare, tu mi aspetti tra gli scogli al cellulare guidando lo pregava di non partire non so se posso rinviare la partenza domani ho un appuntamento, prova a rinviarlo, ci provo, io ci sarò comunque stanotte, curve rosanero viste dall'infinito spense la macchina davanti casa, ripassò felice il gioco, avete preparato il pranzo? tutto prendeva il posto giusto, il marito, i figli, la casa, il lavoro ha un neo in fronte, chissà come sta, gli sarà passata, forse sta già pensando a un'altra, ho fatto la cosa giusta, come sempre! staccò i sandali, piedi nudi bagno controllo viso, vestiti, giù la punta dei piedi, come possono non capire? non si capisce niente? è tutto normale, no, proprio non capiscono splendida splendente!
tirati i capelli sulle labbra tumide pulita viso -non capiscono- cos'ha? perché dovrebbero chiedersi di un altro contorti avvinghiati agli sterpi della vita bucano le sagome, non capiscono? non vedono, basta trattenere le parole, ma anche queste non sentono, la voce, la voce è morbida, disponibile, di gola, l'appagamento della voce, le dispute sono ovattate, umanizzate, come possono non capire? - vorrebbe che capissero, non i fatti, ma la sua felicità, serve a qualcosa quello che non si sa?- qualche messaggio di abbandono di tanto in tanto, esaltazione di un impegno extra, non ce n'è bisogno, questa volta non ce n'è bisogno
dietro al nero fissa il ventre pieno, tremante, pieno, larghe le gambe, mi sento piena il mondo è diventato piccolo i semi neri sciorinati sulla ghiaia baccelli vuoti piena anche il seno è pieno come le labbra e gli occhi swappavano sul vuoto, non si accorgono proprio di nulla, stupida, stupida, 20 anni stupidi, stupita dalla semplicità, stupita dalle possibilità, posso trovarne un altro, e un altro ancora, è semplice, è alla portata di tutti, posso andare via, rimanere, sono contenti di me, e di che? la mia presenza fisica e loro sono contenti, io non ci sono e loro mi vedono lo stesso, posso essere ovunque e per loro sono qui, migliaia di notti insonni senza motivo per essere sveglia, questa notte sotto le stelle dietro gli scogli voglio misurare la distanza infinita
grigio trasparente, nero trasparente, bianco alluminio, giallo limone blu mare, la notte sullo scoglio restò sola per lungo tempo, non era importante che lui arrivasse ma lui arrivò, silenzio, il mare, non parlarono, silenzio il mare li guardava guardarsi, silenzio lei seduta appoggiata alla roccia lui allampanato tra lei e la luna lo cercava nel buio del viso, dietro gli occhiali in fondo all'anima, non si lasciava prendere, inquietare dal suo scrutare sapeva solo pregarla di non parlare, le parole, troppo lente, incerte, come un dio sorto dal mare, Ulisse alla sua Nausica non naufragio ma approdo voluto, da lei si lasciava adorare, prima di imporre la mano sul capo gesto solenne col volto al cielo Brando che attacca la cicca prima di crollare davanti ai piedi di lei assassina avevano già danzato, nella sua casa pomeriggio di pioggia, blues avvinghiati e tristi non quanto il tango, ma lenti come gli occhi pecorapreteschi che si ritrovava quando voleva comunicare commozione, blues facili per donne semplici, colonna sonora da consegnare al ricordo, lui dispensatore di bene guaritore di anime, un rito per ogni dolore, ora impersonava il mito del dio che lei avrebbe reso uomo, questo poteva guarirla non senza cadere in amore, era prevedibile e previsto, mi domanderò di me questa notte marina? la prese per mano in pellegrinaggio al tempio tra erba secca tagliente, sulla pietra il sacrificio per la sua redenzione, la prese in braccio la depose e gestuò un rito al firmamento, poi sempre in piedi si denudò le aprì le gambe, l'attirò a sé, la penetrò come Zeus Europa, la luna testimoniò, lei pregava che il seme fosse fecondo per una nuova stirpe di eroi, assisteva al rito di quel dio che oscurava la luna, persa in una voluttà non vaginale ma divina, quando si accasciò su di lei la luna si rivelò bianca immensa consenziente, dispensatrice disponibile di quinte universo dalla pelle bruna di Giovanni ai mari scuri della tranquillità, un belato lontano aprì il ritorno sulla terra lei pose la mano nei capelli di lui ed osò carezzarlo fino a quando le stelle diminuirono nel cielo, allora ruppe il silenzio, andiamo alla spiaggia voglio vedere il sole sorgere dal mare, lui coprì il suo corpo e andarono, si fermarono allo scoglio nero gigante, davanti il cielo imbiancava e il mare diventava di latta, il sole si affacciò che erano appoggiati alla roccia, lei si mosse a baciarlo sul collo, per il petto, giù sul pube umido riconobbe se stessa, si piacque, si portò a cavalcioni e lo portò dentro, lenta, lo sentiva prendere corpo, lenta, lo teneva stretto e profondo, ferma a donare dimora, lenta, qualcosa avveniva, poi ferma, qualcosa avveniva, ferma ancora, portò le mani alle natiche di lui e lo fissò, dentro lo fissò, avveniva, avveniva, assolutamente ferma venne l'orgasmo, un grido muto quanto il creato, si lasciò andare su di lui restituendogli il sole nel cielo, Giovanni chiuse gli occhi e lasciò scendere una lacrima, lei scivolò nell'inconsapevole, è venuta l'ora della mia partenza, l'alzò e la depose al suo fianco, si ricompose nella sua altezza, alzò gli occhi al cielo, strizzò il viso e andò
il sole saliva dentro di lei saliva e non acquetava il turbine di quel nuovo sentire, il piacere da sotto le viscere fino al cervello, si alzò e così vestita si immerse nella latta dorata maresolato il cotone si attaccò alla pelle portò le mani alle gambe e le strinse, si piegò e le strinse e si carezzò, voleva che il piacere provato rimanesse lì tra le gambe per sempre, voleva ancora sentirlo, a lungo si carezzò fino a venire di nuovo, languidamente venire, con il corpo che si allungava sull'acqua immobile, pianse anche lei, più a lungo pianse.
 


 
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Giuseppe Panella
 
TRACCE SEGNI PRE-SENTIMENTI
 
Prefigurazioni

Attendo qui davanti alla tastiera
ad immaginare il vuoto
che c’è dentro
lo schermo assoluto che mi oppone
la sua immagine di freddo e calmo mare
in cui imparare ad annegare,
in cui saper nuotare,
in cui lietamente navigare
alla ricerca dell’ultima Thule
o della sconcertante follia
dell’abbandono al presente
(che è sempre il gesto del passato o non è ancora
il futuro che ci attende).

Qui davanti alla tastiera
aspetto che il mio tempo passi
e che da essa
fuoriesca il lampo
del futuro incombente
e mi dica che cosa avverrà
domani, se accadrà
ciò che era impossibile
oggi.

Qui davanti alla tastiera
cerco di descrivere
il bene e il male e l’assoluto
che voglio ritrovare
nel problema risolto,
nel passaggio dovuto,
nel paesaggio voluto
che mi porta
a pensarmi diverso
da quello che non vorrei diventare.

Prefigurazioni del sogno,
allusioni al destino,
paura della morte:
davanti a questo schermo
che mi spaventa e mi esalta
non posso che pensare
a ciò che divento
giorno dopo giorno:
pallido riflesso
di un futuro insperato,
ciò che volevo essere
e per fortuna non son diventato,
il rapido declinare di ciò
che ho dimenticato.


TRACCE DI VITA AMOROSA

Nulla è sicuro parlando dell’amore,
niente ci è noto della sua ragione,
assurda e assente,
che sconvolge la mente e i corpi
e che attira uomini e Dei
verso la catastrofe e il piacere:
non ci sono tracce che dicano il destino,
non ci sono parametri da poter utilizzare
nella ricerca e nello strazio dello scacco,
non ci sono più paradigmi da imitare,
se non in esso e che in esso si ritrovino
e confermino lo smacco.
L’amore lascerà ovunque i propri segni:
tracce oscure, astratte e immateriali,
brandelli di sogno,
dati oggettivi:
lacrime asciugate o membra sconvolte dagli orgasmi,
il punto estremo che spinge all’abbandono,
il piacere finale che segue al suo definitivo ricongiungimento.
Ma ciò che accade e che si manifesta
nel momento preciso del contatto
o nello strappo assurdo del distacco,
ciò che accade quando l’amore segna
il proprio stacco e si definisce
come il sentimento impossibile
che muove
all’attacco frontale
delle convinzioni già consolidate
sulla vita, il presente, il futuro e ciò che
conta sulla scacchiera impassibile del mondo,
questo no, non lascia tracce
né segni,
ma si infigge con forza disumana ed inconsulta
in ciò che è segreto e non conoscibile:
l’amore è il simbolo indecifrato della morte
e come la morte non si mostra affatto.


I COLORI DEL TEMPO
Frammento

Riassumendo: il destino
e i sentimenti sono la tavolozza
e i colori, il Tempo dipinge con essi
il destino che ci costruiamo
impotenti.
Non ci sono colori che resistano
al lavorio impassibile
del Tempo
quando si rivela potente e incontrollato
e divide concetto e messaggio,
trappola e prigioniero,
verità e menzogna,
assurdo e verosimile,
vergogna e privilegio.

Ed è per questo che
nessuno più troverà le tracce
di ciò che si è perduto
se non cercando dentro di sé
e ringhiando
come un cane da pastore
che ritrova
le pecore
di cui è il solo a conoscere
l’odore.

Ed è per questo
che non possiamo che mostrarne i segni
e trasformarle in pensieri, in sogni,
in attese languide
e lampanti.

I colori del tempo
sono i segni bui ed oscuri
che decorano il destino di ognuno
e di essi non rimane che
il rilievo scialbato
dal piacere
e inondato di pianto.
 


 
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Ugo Semeli
 
A DISPETTO
 
Rincomincia a intenerire autunno
sfrangiate remore agli asili
e mote docili alla suola. Franano
strepiti per i gradini a via
degli orti dove noi pure - misero
domani - e scrosci dagli ombrelli
tiepidi sopra i tentennanti
nomi dei bambini.

Se anche oggi non mi scrivi
né chiami e stai distante
quanto vorrei non fossi
assente eppure vivi, senti
ahimè che senza affransi
avrai rimpianto quando
maledicendo accorgerti esser tardi
lontano mi saprai dalle tue parti
e scorso come ieri il verbo amarti.
 


 
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Mario Amato
[ marius2550@yahoo.it ]
 
IL RITORNO DI ZAIN
 
Zain stava sulla vetta più alta del mondo. Stava su quella sommità per l’ultima volta, poiché l’ora del ritorno era giunta; doveva tornare al di là del mondo, al di là del cielo, oltre il tempo. Da quel luogo inaccessibile ad ogni essere che calca la terra, Zain poteva vedere le albe e i tramonti, la luce e la tenebra, il giorno e la notte ed ora infine sapeva di essere stato un sogno, di essere stato un segno.
I sogni non hanno tempo, i segni restano fino alla dissoluzione.
Era penetrato in ogni alito della vita, aveva assunto mille e mille aspetti, fino a quando non era diventato parte del mondo, di questo mondo al di qua dei cieli, fino a quando non aveva compreso di essere egli stesso, Zain l’angelo esiliato, l’ultima nota, fino a quando non aveva compreso di essere un respiro di lode, come ogni essere di questa terra.
Guardava i giorni e le notti, l’alternarsi delle stagioni, comprendeva che egli era un essere senza tempo e che il tempo della chiamata era sopraggiunto.
Le stelle, il cielo, l’erba, gli animali lo salutavano con indifferenza.
Era destinato a dimenticare le vite vissute, ma per l’ultima volta voleva tenersi avvinto ad ogni esile pulsare dell’esistenza, essere parte del mondo dell’imperfezione, della memoria.
In principio, in quella prima alba in cui era giunto sulla terra, egli non era ancora in grado di intendere pienamente il suo compito; aveva spiegato le lievi ali e aveva percorso ogni luogo sussurrando agli esseri umani, rivelando loro segreti sui cieli. In seguito aveva rinunciato alle ali ed aveva camminato come fanno tutti gli uomini, e a loro aveva parlato, ma costoro non lo capivano ed allorché si rivelava per quello che era, movendo leggermente le invisibili ali, altro non faceva che spostare un po’ d’aria.
Guardava il mondo ed udiva la musica segreta di ogni creatura, udiva la sinfonia del tutto e l’anima traboccava di una gioia infinita.
Aveva attraversato il tempo, quel tempo che non gli spettava, aveva conosciuto esseri umani che erano ormai polvere dispersa. Di tutto serbava il ricordo.
Allorché aveva indossato i paludamenti umani, scacciato dai cieli, si era ornato anche del terribile dono della memoria. Nella sua patria non c’era né presente, né passato, né futuro, non c’era ricordo o speranza.
Una piccola dose di tristezza si insinuava nella gioia di Zain: egli ricordava ed indugiava, le sue ali non s’aprivano.
I volti degli uomini conosciuti si paravano innanzi ai suoi occhi, percepiva le loro voci. Doveva lasciare il calore del sole, il freddo degli inverni, il profumo dei fiori, il crepitare dei camini, il pianto dei neonati, i lamenti degli infermi, l’amore delle fanciulle, la stanchezza dei vecchi, le feste, il vino, i buoni cibi, il pianto delle partorienti, l’allegro chiasso dei fanciulli in gioco, le guerre che creano morti ed eroi, i ciarlatani, i vagabondi, le stelle lontane. Le stelle lontane! Levò lo sguardo agli astri; egli era diretto al di là di essi? Avrebbe ancora visto il cielo ingemmato? Si sarebbe mai più commosso dinanzi ad un’alba o ad un tramonto? Avrebbe ancora sentito la pioggia sulla pelle, avrebbe ascoltato il sibilo del vento freddo del nord ed il silenzio del deserto?
Zain, l’angelo venuto alla ricerca della settima nota, non aveva memoria della sua primigenia dimora; al contrario le sue vite terrene erano per sempre impresse nella sua anima. Sì, egli aveva avuto spesso nostalgia del mondo senza tempo e senza spazio; in quei momenti di struggimento aveva frequentato biblioteche e sfogliato libri di astronomi e teologi, era salito sulle guglie di tutte le cattedrali del mondo ed aveva per giorni guardato le statue dei suoi fratelli con le ali. Non aveva mai dimenticato il suo campito; sulle cime dei monti, sulle cupole dei templi aveva teso era stato attento ad un suono proveniente da oltre le nubi, ma quel canto giungeva a lui flebile e sommesso. Egli non avrebbe potuto descrivere il suo mondo originario, sapeva soltanto che un giorno sarebbe tornato.
Aveva alfine trovato la settima nota ed era pronto al ritorno, era predisposto a completare il canto dei canti, ma non v’era gioia in lui. E che cosa era la gioia e la tristezza? L’allegrezza e la disperazione? Egli non conosceva i sentimenti umani, se non per averli visti; aveva ascoltato gli ultimi respiri dei morenti, il chiasso delle taverne odorose d’assenzio, le promesse di amore eterno degli amanti, i deliri preveggenti degli ubriachi, le afflizioni degli esseri umani soli…e tutto ciò che rende umano, ma dai suoi occhi mai era sgorgata una lacrima, dalla sua bocca mai era scaturito un singhiozzo, la sua bocca non si era mai illuminata al sorriso. Egli ascoltava soltanto per trattenere tutto nel suo animo e assolvere la missione per la quale era sceso.
Quante esistenze aveva vissuto? Le ere trascorrevano tutte uguali: la vita degli uomini non mutava fra guerre e paci, paci e guerre, dolori e amori, passioni e accidie, ricchezze e povertà, eppure questi esseri restavano avvinti alla terra.
Perché gli uomini si affannavano sempre e sempre nello stesso modo, perché amavano la monotona banalità della vita? Ogni esistenza si compiva sempre ripetendo le stesse azioni, vivendo sempre gli stessi sentimenti.
Ed ecco per la seconda volta desiderò! Era anche questa vaghezza una volontà d’amore, ma ben diversa dalla prima volta. Egli desiderava per sé stesso, e questo era già umano. Desiderò rivedere il volto di una fanciulla incontrata molte vite prima, ascoltare la voce di una madre che narrava fiabe al suo pargolo, vedere le luci riflesse nell’acqua, inebriarsi del profumo di un fiore, accarezzare il viso rugoso di un vecchio stanco, desiderò mille altre sensazioni che gli uomini provano.
Il canto si fece più forte, si avvicinava sempre più e pervadeva la sua anima, la bocca si atteggiava già ad intonare la settima nota, ma altri suoni echeggiavano nei recessi dell’anima di Zain: il chiasso delle stazioni, i canti gioiosi nelle feste, il crepitare del fuoco in un camino…ed altri e altri e altri…; egli tacque, non si unì al coro.
Egli aveva fino ad allora avuto reminiscenza di ogni attimo, ogni volto, ogni profumo, ogni colore, ogni voce, ogni immagine, ogni cosa toccata, ma nessuno avrebbe mai ricordato Zain; l’angelo esiliato non avrebbe lasciato nessun segno del suo cammino.
Una lacrima solcò il suo viso e cadde sulla fredda umida terra.
Per sempre caddero le sue ali. “Per sempre” non poteva più dirlo: aveva scelto, era nato una seconda volta.
Ora non ricordava le vite vissute, non conosceva la ragione della sua presenza su questa terra.
La settima nota è in qualche angolo del mondo, forse è il suono della goccia di pianto caduta dall’anima dell’angelo bandito…
 


 
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Miro Mati
 
POESIE
 
Pensieri d'inverno (Natale 2001)

Il sole non scalda oggi
ventisette dicembre 2001.
Il ghiaccio della vasca
luccica di gelida purezza.
Un ghiaccio che punge
la pelle dentro l'abito
goffo dalle difese.
Un Merlo col becco
giallo d' amore, annuncia
la sua fertilità e disponibilità
alle pronubi intese della primavera.
Penso l'estate.
Alle lievi carezze del vento
caldo della maturità
sulle carni fresche
nell'ombra netta disegnata
da una luce che abbaglia,
le parole vibrano
sull'onda cocente della strada
che brucia infuocata di riflessione.


Venticello di ponente

Nel meriggio afoso
mi riposo sul prato
asciutto di festuca.
Il frullo delle foglie
flette le fronde dei pioppi
in lunghe onde fruscianti.
È il respirare del bosco:
io lo so, lo riconosco
dal vibrato canto del fringuello
che si modula e confonde
nello sbattere delle foglie
protese alla traspirazione.
In basso il rivo secco, quasi secco,
porta chioccolando un filo d'acqua
alla pozza della riflessione.


La cascata

Giunge lieve e tesa
volta e precipita.
Piomba giù,
scroscia fra le derive,
tuffa, guizza, gorgoglia,
s'arrotola e spumeggia,
l'acqua della cascata.
E nel precipitare
frange e disperde
l' energia del temporale,
in un fragore di luci
e suoni liquidi
dai clamori;sommessi;
per ritrovare,
sotto le spume scintillanti,
il corso placido della trasparenza.


Tempo d'estate (7luglio 002)

Il frinire della cicala
verace d'estate,
seghetta l'atmosfera pesa
di questa calda mattina.
È davvero estate!
Lo dicono le rose
impallidite nel giardino,
le nappette imbrunite
del phlomis
e l'accendersi del verbasco
giallo di sole.
Lo dicono le sacche d' afa
fresca nel varco delle robinie
e le lievi brezze
dei corridoi a ponente,
rinfrescanti e gradite,
violente sul corpo accaldato
dalla traspirazione.
Vivo l'estate.
E il caldo soffrire mi allerta
i piaceri del bagno;
affogo spicchi di ghiaccio
nel Bianco Locale, biondo,
asprigno, e spilluzzico
i frutti freschi dell'orto,
sotto la pergola
della comunicazione.
Vivo l'estate.
La mobilità dei passeri
che frullano sicuri al piccolo
cenno di emozione.
La pioggia di fresco, giù
della quercia fogliosa
entra negli occhi
per frigerarmi delicatissima
la pelle godereccia,
attenta alla considerazione.


Sbarco a Favignana
Antipasto di mare

I globi guizzanti
nelle vesti rosse,
tenute allo sgarbo
delle folate,
invitano lo sguardo
rapace della senilità.

Nel sol della vacanza
la mente non accetta
ignorar le folate,
sui turgidi gonfi,
in refoli di danza.


La terrazza dei Cocchi.

Un insetto peloso
danza indaffarato
succhiando nettare
ai fiori gialli della lantana.
Mi ha attratto
l' ondulato ronzio
del ricamato sobbalzare,
per l’accurata scelta
di ogni piccolo fiore.

Un insetto peloso
a righe gialle,
sul soffuso marrone,
serve eccome,
anche se sembra lì
a diffondere musica,
nel primo caldo mattino,
sulla terrazza assolata
dei Cocchi,
a Favignana.
 


 
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Mario Amato
[ marius2550@yahoo.it ]
 
POESIE
 
Confessione

L’animo mio si strugge dinanzi a tutte
Le antiche colonne d’Ercole non valicate
È consunto dalla nostalgia del primo albore del mondo
Logorato dall’invidia della creazione primigenia
Cerco l’aleph iniziale, il segno primordiale
Scalfito nei sogni di tutti i poeti

La mia anima è percossa
Dai venti aridi del deserto
Dalle tacite notti delle steppe
Dai silenzi di ere di solitudine
Trascorse nella rimembranza
Di passate esistenze

Cerco l’aleph, il geroglifico inciso
Dalle orme pietrificate di nomadi
Il segno ancestrale inciso su pietra
Su corteccia d’albero da mano artefice
Di sogni e miraggi a venire

Cerco la traccia iniziale
Impressa sulla rena del deserto
Trascritto tra le intercapedini degli astri
Caduta dal nero caffettano
Sulla via di là dagli orizzonti

Cerco l’aleph, la lettera originaria
Incisa dalla malinconia
Del primo scacciato dal Paradiso
Bruciata nelle tenebre ghiacciate

Ma qui sta la meraviglia
Dalla cenere nasce il campo fertile
Fra mille e mille e più segni
Lo cerco per le eternità


Tracce

Io sono
Una parola fra le infinite
Scritte da tutti i poeti
Dall’alba del mondo
Generati dalla fertile
Terra
Un segno fra le incisioni
Sugli antichi volumi
Tracciate da vetusti
Amanuensi


Segni

Lascerò
una parola fra le infinite
incise da tutti i poeti
dalla terra generati
un segno tracciato
dalla musica
dello stridio degli stili
di amanuensi


Un giorno mi sveglierò dall’effimero

Un giorno mi sveglierò dall’effimero
Susseguirsi del tempo
E saprò che i sogni non esistono
Mi ricorderò che tutte le donne
Che ho desiderato amare
Hanno ricambiato il mio amore
Mi ricorderò di tutte le vite
Che ho attraversato

Un giorno aprirò gli occhi
E nuovamente proverò
L’incanto del vivere
Saprò piangere dinanzi
Ad un tramonto
E a lacrime mi muoverà
Una lettera d’amore
Dimenticata sul tavolo
D’un Caffè

Un giorno mi desterò
Dal consunto procedere
Del tempo
E saprò che le faticose giornate
Appartengono al regno
Della menzogne
E solo nella notte
Al vero
In mistica carnalità
Ci congiungiamo

Un giorno mi scuoterò dal torpore
Del sonno
E scoprirò che nessuna bandiera
Sventola sulla terra
E nessuna frontiera separa
Uomini di diverso idioma

Un giorno scrollerò l’inerzia
E avrò notizia che nessuna guerra
Ha mai colorato il mondo di sangue
E sul mondo non abitano ricchi e poveri
Buoni e malvagi
Governi e governati
E nessun bambino piange per fame

E un giorno
Non sarà un sogno
La terra sarà dimora
Soltanto di esseri umani
 


 
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Alessandro Adriano
 
DAMA VIOLATA
 
non era il corpo che l’ambasciava
era ancor bella, soda la carne
neri i capelli fluenti
forti e rotonde le natiche alte.

quelle 3 volte
in posti diversi
li ricordava stupendi.

tutto quel tempo trascorso in silenzio
senza un suo cenno uno scritto un saluto.
sì l’ho scordato, ma adesso ricordo.
spasimi e voglie, consulti notturni
le mie fantasie di lascivie
l’odore di maschio avvertito a distanza,
quegli occhi vogliosi pungenti sfacciati.

già lo sapevi quando chiedesti
(o accettasti?)
il passaggio
dalla campagna in città.

fu sul calesse l’abbraccio furente,
poi la radura
il prato un po’ duro ma asciutto.
dopo lo spasmo iniziale
la sua dolcezza impaziente.

nessuno dei due chiese niente
vi offriste.
ci offrimmo in silenzio
il piacere avvolgeva i due corpi incrociati.

quando matilde
violata 3 volte
seppe che lui ritornava
svelta riaccese i contatti
di una memoria svanita.

prese a incipriarsi le guance
a improfumarsi le cosce
sciolse i capelli
strinse il corpetto
tese per bene le calze.

quelle 3 volte
in posti diversi
furono belle.
 


 
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Nestore Caggiano
 
(DI) SEGNI DELLA MAGNA GRECIA
 
La frase scelta è di Simonide di Ceo: la pittura è poesia silenziosa, la poesia è pittura che parla. È una frase da calendario (500-400 a.C.) da ascoltare in silenzio. Un brivido si traccia la fuga.
Accendi una virgola di fiamma per lanternarti la camera dall’ombra copiativa somigliante sul palcoscenico della parete.
Con soffiate, da sospendere, spegni la benedetta virgola e porta l’immaginario sul carro maggiore dell’Orsa. Ti costa solo l’affacciarti indicando segni e disegni, di volta in volta, nella Volta stellare. E’ un’aria enigmatica da presentimenti, ma non consultare l’astrologo.
Mi scrivo e ti parlo in silenzio da misurare sulle righe incolonnate dalla stampante. Righe slegate dal metro simonideo costituito da due dattili. I tempi, i ritmi moderni sono trascorsi per gemmazioni di voci e di pulsanti virtuali.
Questo tu per tu è un’amicizia allogata nella piega facciale del dubbio intuito grazie al volontariato culturale dell’incontro tenuto a sfreno dall’interrogativo.
La pittura è poesia silenziosa e, se maiuscola, non necessita di creme rivitalizzanti; la poesia è pittura che parla non ai sordi dell’immenso vuoto associativo.
- Come vai avanti?
- Con il terzo programma rai. Non sempre.
La Ciociaria è tutta nella panoramica dal balcone ed è influente all’artigianalità dello scrivere lungo le geometrie inchiostrate dalle emozioni. Emozioni che vanno, burattinando, sullo schermo di carta e sfumano nel bianco non registrate, ma rimarranno in un sorriso di memoria, almeno, all’ambulante.
Mi scrivo e ti parlo in silenzio. Toni dialettali e d’ascolto meridionali, anzi, mediterranei. Assaporati, sanno della magnagrecia.