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Ugo Fracassa
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“IL PATHOS DELLA DISTANZA”
LE LONTANANZE CIOCIARE DI MARCELLO CARLINO
 
I contemporaneisti versati in letteratura al toponimo Ciociaria associano ormai, per riflesso pavloviano, i nomi di De Libero e Landolfi – desideroso il primo, riottoso il secondo nel dirsi ciociaro; allo scopo di introdurre il volume “Ciociaria, quella terra di viaggi che non dico” di Marcello Carlino, però, il nome di Sandro Penna, autore di un “Viaggio in Ciociaria” alla fine degli anni 30, si fa preferire: “ La valle era là sotto [Frosinone] immensa e buia, coi lumi addormentati a fior dei colli, come in un sonno ad occhi aperti”, “Il paesaggio che da quell’altezza si scopriva [Veroli] era ancora più vasto e più bello dell’altro visto a Frosinone”. Le due citazioni dal poeta perugino bastano a dire l’inesorabilità del paesaggio ciociaro, la distanza magnetica che lancia lo sguardo nel vuoto a caccia di orizzonte. Carlino, al cospetto di un simile scenario, giunge al paragone col paesaggio toscano: “Ho sempre guardato a questa come a una porzione di campagna toscana”. Sarà appena il caso di notare che, nonostante l’apparentamento, siamo lontani, da queste parti, dall’ipotesi di un decalogo che richiami quello promosso da Alberto Asor Rosa per il paesaggio della Val d’Orcia.
Ma, per tornare agli “interminati spazi”, la morfologia del nostro territorio configura ciò che l’autore definisce una “conca ovoidale” ed esclude perciò il “guardo” dall’ultimo orizzonte – Leopardi, in effetti, è nell’aria e spunta a pagina 29 evocato dai “volani di infinito” e dalle “indeterminate risonanze” – orizzonte di cui resta inappagato il desiderio, di là dai Lepini, come di un mare disteso e longinquo : “oltre, sul versante a solatio dei Lepini, non visibile da me ma prossimo (il petrolio arrivato fino a Ripi ne è conferma) il mare”.
È il filtro della distanza, il diaframma costantemente frapposto da Carlino fra retina e panorama, distanza che, mai come in queste pagine rima con disianza , quel desiderio che in inglese è connaturato alla lontananza (longing / to long for) come, fino a ieri, sapevano bene i ciociari di Supino, digiuni forse d’inglese - salvo impararlo sul campo una volta emigrati - ma esperti in “lontananze”. Tale sostantivo, soltanto al plurale e nella locuzione “fare le l.” sottende un desiderio, erotico per lo più, epperò, in senso lato, conoscitivo. Ebbene Carlino fa le lontananze alla Ciociaria come chi la frequenti ma non la possieda (di tale distanza, tra l’altro, il testo dispiega un lessico speciale che va a pescare fino nell’astronomia, per esempio con l’uso del termine: elongazione )
Ma la distanza fisica, nello spazio, gemina e suscita l’altra, temporale, giusta la teoria benjaminiana dei panorami che, “per effetto di distanza, trattengono nel presente un mostrarsi del già stato”: (a pagina 20, guardando Ferentino) “e la vista da lontano, ora che hai messo a fuoco restringendo il campo, non diresti si discosti dalla memoria che hai”. Il secondo tema del libro, infatti, a fare il paio col tema della distanza, è quello della memoria, la memoria dell’infanzia: (a pagina 16) “le mie vacanze, da bambino, […] erano meravigliose come tutte le vacanze dell’infanzia che ricordiamo da lontano nel tempo ammaliati dal pathos della distanza”.
Ciò che accende l’orizzonte di questi panorami è il tramonto (“pre-crepuscolo”, per la precisione poiché il tramonto si consuma e si compie di là dai monti), l’esperienza del quale diventa sostanza di una filosofia, crepuscolare, appunto, di cui ha già detto Alfonso Cardamone, richiamando Gozzano, all’atto della presentazione del volume. Al reducismo gozzaniano e alla teoria dei panorami di Benjamin come fonti del tramontismo carlinesco aggiungerei, infine, l’ “arte crepuscolare” secondo Dino Campana (altro poeta già evocato da Cardamone e carissimo a Marcello). Questa la definizione che ne dava il poeta di Marradi e che il nostro ha trascritto in un saggio del 2005: “arte crepuscolare […] tutto si affaccia e si confonde […] tutto è evanescente e tutto naufraga”. Ebbene, la si confronti con la seguente dichiarazione tratta da “Ciociaria. Quella terra di viaggi che non dico”: “in una panoramica, quel che ti appariva unitario e coeso si smaglia, si decostruisce, si perde” e si avrà un’idea del grado di affinità tra le due poetiche.
Il volume, inanellato in collana coi ritratti di città di Goethe, Dickens e Ungaretti, si apre (e termina, con studiata circolarità) su un dialogo ed è geneticamente dialogico, nascendo da una commissione (come risulta dall’ultimo paragrafo) e intrattenendo costantemente un colloquio col lettore sul metro del tu (a pagina 92: “diciamo a te, ipotetico lettore”). La teoria della letteratura, disciplina accademicamente recente ma antichissima, ha provato a stanare il lettore, volta a volta qualificandolo di empirico, ideale, modello; quello ospitato nelle pagine del nostro partecipa delle tre qualità in quanto dedicatario competente e spesso identificabile, nome e cognome nella cerchia di amici e conoscenti dell’autore (alcuni nomi sono esplicitati nella nota finale). Per una volta, infatti, il Carlino docente universitario, affronta una materia che non governa naturalmente e sulla quale dichiara di non essersi documentato; una materia cioè genealogicamente più prossima a chi, verosimilmente lo leggerà e può vantare un’appartenenza meglio radicata. Ecco perciò l’azzeramento della distanza che solitamente si avvantaggia di specialismi lessicali e competenze inusitate ai più. Quel tu, poi, è bidirezionale, gli ritorna come apostrofe già a pagina 7, la prima, dove al suo iniziale: “Vediamo se indovino” corrisponde un: “hai saputo orientarti bene”, proferito da un interlocutore presumibilmente locale. Lo stesso pronome personale di seconda persona singolare può essere pronunciato tra sé e sé, come, significativamente, quando, a proposito del ripetitore che svetta su Fumone, si legge: “un enigma ti appariva un tempo”. In questo caso è il Carlino ciociaro pour cause ad apostrofare l’altro, ciociaro per caso (così a pagina 59: “Quando si abita un luogo, seppure vi si sia capitati come per forza del destino, o vi si sia costretti…”).
Ma è tempo di venire alla dimensione politica del “libriccino”; intanto essa va intesa etimologicamente, come relativa alla polis. Frosinone, nella perifrasi d’autore: “quel che si definisce il capoluogo della Ciociaria”, condivide ormai lo statuto cittadino con Sora e Cassino ma, per meriti storico artistici, con Veroli, Anagni , Ferentino, Alatri, Arpino ecc . La sfida consiste, secondo Carlino, nello sfuggire alla morsa metropolitana che l’equidistanza da Napoli e Roma fa stringente, disseminando l’aura della cittadinanza tra gli abitanti dell’intera regione (ciò che a pagina 84 è definito: “urbanistica di area”). Chiediamoci però: quale idea di città? La risposta si trova, declinata a chiare lettere a pagina 72:”nel quartiere in cui abito mi sento di casa”.
Particolarmente se paragonata al caotico calderone capitolino, Frosinone pare propaggine del domicilio: le quattro pareti dello studio – cellula abitativa cruciale nel testo – infatti, si estendono al quartiere, alla biblioteca comunale con bar attiguo ma, più oltre, al centro storico dei paesi circonvicini. Andare a Isola Liri, insomma, come si passa nel tinello di casa; starsene sull’agorà anagnina intitolata a papa Bonifacio VIII come in un vasto e austero salone. D’altra parte, l’intera geografia locale – circa 4.000 km2 – è rappresentata indoor, situata com’è nella conca naturale circoscritta dagli spalti montuosi di Ernici, Lepini, Aurunci e Ausoni (in una pagina che pare la schermata di Google Earth, Carlino dispiega il suo talento di cartografo visionario e imbandisce una mappatura in 3d, con tanto di isoipse e curve di livello). Hortus conclusus, il macrocosmo ciociaro risulta come irradiato dal nucleo domestico dello studiolo frusinate: nella fattispecie le pagine 26-27 ne chiariscono nel dettaglio le coordinate spaziali. La scrivania, presumibilmente camera gestazionale del saggetto, risulta orientata, parallelamente alla finestra – che a sua volta replica l’esposizione della balconata naturale di Frosinone – sull’ovest, verso l’aperto, mentre volge le spalle, come il muro della stanza e il lato meno affacciato dell’appartamento, a sud est. L’assonometria casalinga propaga all’esterno le dimensioni vivibili di un habitat a misura d’uomo e di cittadino.
Un sentimento della residenza così fondato non esclude, anzi suscita, considerazioni politiche su più vasta scala, storicamente e socialmente connotate. Queste riguardano la difesa dell’ambiente, la regolamentazione urbanistica, un’industrializzazione integrata e non tacciono i nomi dei responsabili, a vario titolo, del pluridecennale degrado. Allo stesso modo la coscienza di classe degli operai già attivi nelle cartiere di isola Liri come pure l’insuperato esempio del gruppo di Comunità facente capo a Adriano Olivetti, rappresentano palesemente nel libro un modello di sviluppo alternativo e praticabile.
Il libro che, per dirne una, si apre e si chiude su un dialogo, vanta un’architettura solidissima, l’autore stesso informa che l’opera si regge su una “struttura organica, compatta”, ben lungi dalle caratteristiche della produzione seriale e anonima del genere “guida turistica”. A riprova di una simile compattezza, proviamo a rileggere l’attacco e vi scorgeremo, col senno di poi, una portata programmatica. Le prime parole suonano: “Vediamo se indovino”, come a dire che lo spaesamento vale più del radicamento nativo per descrivere una terra come la Ciociaria.

aprile 2008

Marcello Carlino: “CIOCIARIA quella terra di viaggi che non dico”, Guida, Napoli 2007.