il sangue e la storia 
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Marino Faggella
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LEOPARDI E LA POLITICA - 1
Parte Prima
 
In una lettera del '31 alla Targioni Tozzetti Leopardi, estendendo alla sfera della politica il discorso filosofico, dichiarava apertamente e senza equivoci l'impossibilità di adattare il suo materialismo ai proclami socio - politici dei suoi contemporanei << Credo, anzi vedo che gli individui sono infelici sotto ogni forma di governo; colpa della natura che ha fatti gli uomini all'infelicità; e rido della felicità delle masse, perché il mio piccolo cervello non concepisce una massa felice composta di individui non felici (1) >>; tali conclusioni erano state, comunque, già anticipate in una comunicazione al Giordani del '28 << Considerando filosoficamente l'inutilità quasi perfetta degli studi fatti dall'età di Solone in poi per ottenere la perfezione degli stati civili e la felicità dei popoli,mi viene un poco da ridere di questo furore di calcoli e di arzigogoli politici e legislativi; e umilmente domando se la felicità de' popoli si può dare senza la felicità degl' individui. I quali sono condannati alla infelicità dalla natura, e non dagli uomini né dal caso (2) >>. Tali affermazioni che servono a ribadire il convinto e definitivo approdo di Leopardi al materialismo sottolineano, inoltre, il cosiddetto "progressismo" del poeta . Fino a qual punto l'autore dei Canti fosse ostile e incapace di credere nel progresso umano è una questione che è stata già risolta dal Luporini << In generale si ritiene che Leopardi neghi il progresso e combatta l'idea di esso.Ora questo non è esatto . Leopardi si vale moltissimo dell'idea del progresso, se ne vale anzi in modo immediato e diretto , che sotto molti riguardi lo pone fuori discussione. Egli non solo crede al progresso di elementi particolari del mondo umano, come scienza, tecniche, filosofia, linguaggi, ecc., ma crede a un generale progresso dell'incivilimento , che traversa i cicli di civiltà e barbarie , inteso in un senso assai preciso di un andar avanti (…). Davvero è cosa balorda presentare, in questo senso , il Leopardi come un negatore del progresso ,ossia del procedere storico (3) >>. In effetti , più che il progresso , nel quale pur con qualche riserva dimostrava di credere ( << Gli individui e le nazioni d' Europa e di una gran parte del mondo , hanno da tempo incalcolabile l'animo sviluppato . Ridurli allo stato primitivo e selvaggio è impossibile (4) >> ) Leopardi avversava il cosiddetto "progressismo" dei suoi contemporanei, quella perfettibilità dello stato umano che al contrario Timandro esaltava ( << La condizione umana si può migliorare di gran lunga da quel che ella è, come è già migliorata indicibilmente da quello che fu . Voi mostrate non ricordarvi, o non volervi ricordare che l'uomo è perfettibile (5) >> ) alla quale egli contrapponeva la sua isolata disperazione che l'avrebbe portato fino all'estremo limite del rifiuto d'ogni vita associata. Per capire meglio il rifiuto politico di Leopardi è interessante riferirsi anche ad un particolare della sua vita allorché al Viesseux, che gli aveva proposto nel 1826 di tenere sull'Antologia una rubrica fissa in cui avrebbe potuto flagellare i pessimi costumi del suo tempo, rispose declinando l'offerta e ribadendo la sua posizione antisociale e solitaria << La mia vita (…) è stata sempre, ed è, e sarà perpetuamente solitaria, anche in mezzo alla conversazione, nella quale, per dirlo all'inglese, io sono più absent di quel che sarebbe un cieco e un sordo. Questo vizio dell'absence è in me incorreggibile e disperato (…). Da questa assuefazione e da questo carattere nasce naturalmente che gli uomini sono a' miei occhi quello che sono in natura, cioè una menomissima parte dell'universo, e che i miei rapporti con loro e i loro rapporti scambievoli non m'interessano punto, e non interessandomi, non gli osservo se non superficialissimamente. Però siate certo che nella filosofia sociale io sono per ogni parte un vero ignorante. Bensì sono assuefatto ad osservar di continuo me stesso, cioè l'uomo in se (…) Tenete dunque per costante che la mia filosofia (se volete onorarla con questo nome) non è di quel genere che si apprezza ed è gradito in questo secolo; è bensì utile a me stesso (…) e così mi aiuta a sopportar l'esistenza; ma non so quanto possa essere utile alla società (6) >>.
A dire il vero,quanto alla necessità della vita sociale dell'uomo, Leopardi già a partire dal '21 si era dimostrato abbastanza scettico come dimostra il seguente pensiero del tempo << Il toccar con mano che nessuno stato sociale fu né sarà né può essere perfetto, cioè perfettamente equilibrato ed armonico nelle sue forze costitutive, e nella sua ordinazione al ben essere dei popoli e degl'individui (tutti i savi lo confessano); e che quando anche potesse essere tale da principio (come una monarchia , una repubblica) la stessa assoluta assenza della società porta in se i germi della convinzione, e distrugge immancabilmente e prestissimo questa perfezione, quest'armonia ec. ne' suoi principii costitutivi; non è ella una prova bastante che l'uomo non è fatto per la società (7) >>. Ma dopo l'assoluta acquisizione del materialismo l'autore dei Canti, sostituendo al possibile accordo di natura e società la loro costante e definitiva inimicizia, arriverà prima a sostenere che << la società, spogliando l'uomo in fatto, di alcune sue qualità essenziali e naturali, è uno stato che non conviene all'uomo, non corrisponde alla sua natura (8) >>; successivamente, dichiarando che << l'uomo è per natura il più antisociale di tutti i viventi (9) >> dimostrerà, infin , di non credere più al concetto aristotelico che presupponeva l'idea di una società necessaria ai fini dell'umana felicità (è anche questa l'idea di Dante, per il quale non può essere che l'uomo non sia cive), facendo così registrare il crollo dello stato e la sua sfiducia in qualsiasi forma di organizzazione sociale, definite impalcature entro le quali l'individuo viene ad essere imprigionato.
Per spiegare le ragioni dell'estremo pessimismo sociale e politico dell'autore dei Canti << è necessario rifarsi - come sostiene Battaglia - alle condizioni politiche e morali in cui s'era venuta a trovare la vita pubblica europea e in particolare italiana dopo la Santa Alleanza. Il Leopardi vive in un'epoca che agli spiriti liberi risulta d'involuzione e di depressione. Sono molte le menti che intorno agli anni venti dell'Ottocento hanno perduto ogni fiducia nella storia e nella politica (10) >> La delusione storica di Leopardi che, come si è detto venne maturandosi già a partire dal '19, trovava la sua spiegazione nella delusione dell'intellettuale che opponeva alla crisi storica, politica e morale dei suoi tempi, al naufragio delle certezze romantiche, l'impalcatura del suo sistema di pensiero, quel suo "pessimismo storico" che, pur attaccato e modificato quanto alla religione e agli altri principi filosofico - spiritualisti, sarebbe rimasto sostanzialmente intatto e inalterato fino al termine , almeno dal punto di vista sociologico e politico, con la sua tesi della superiorità degli antichi sui moderni. La convinzione che il cammino dell'umanità, dal mondo antico fino al suo tempo, avesse compiuto un processo tutt'altro che progressivo ( << Il mondo ha marcito appresso a poco in questo stato dal principio dell'impero romano, fino al nostro secolo (11) >> sarà sempre una costante nella sua "filosofia della storia" che al primo momento eroico e vitale, particolarmente energico presso i greci della polis e i romani dell'età repubblicana (la battaglia di Filippi significava per Leopardi la perdita della libertà e l'inizio della caduta dell' << istituto libero >> ), faceva seguire l'età medievale, caratterizzata esclusivamente dalla barbarie. Indi, a partire dal Rinascimento fino alla Rivoluzione Francese, il cammino dell'uomo sarebbe stato in parte rischiarato. In ogni caso la stessa rivoluzione pur prodotta dall'<< errore >> e dalla ritornante vitalità della natura, essendo anch'essa figlia della civiltà dei lumi, significava anche l'inizio di un nuovo e progressivo imbarbarimento che a sua volta sarebbe culminato nell'età moderna, esclusivamente caratterizzata dal trionfo della ragione e dai sui nefasti e distruttivi effetti << non c'è dubbio che i progressi della ragione e lo spegnimento delle illusioni producono la barbarie, e un popolo oltremodo illuminato non diventa mai civilissimo, come sognano i filosofi del nostro tempo, la Stael ec. ma barbaro; a che noi ci incamminiamo a gran passi e quasi siamo arrivati (12) >>. L'idea di una società primordiale incontaminata e della superiorità degli antichi anteriore alla depravazione dei moderni è anche il concetto chiave di un lungo e un po' stucchevole saggio del '21 (esso prende, infatti, diverse pagine dello Zibaldone) incentrato sull'idea della progressiva decadenza del genere umano che il recanatese veniva sviluppando secondo una tale anticlimax: stato incorrotto, stato intermedi, stato corrotto. Il saggio, (abbastanza particolareggiato, richiederebbe un'analisi più puntuale che non rientra nei programmi del nostro discorso) anche se non include l'intero svolgimento del pensiero politico leopardiano, è tuttavia molto importante in quanto, come nota giustamente Luporini, pur seguendo << un concetto vagamente ciclico della storia umana >>, traccia le linee di passaggio fra una forma e l'altra degli stati, che vengono così riassunte e schematizzate dallo stesso studioso << A questa concezione è anche da riportarsi la teoria leopardiana delle varie fasi di passaggio dallo stato naturale alle originarie forme di società, prima instabili, poi stabili, prima unificate dalla monarchia primitiva (che non ha carattere dispotico ma esprime l'esigenza di unità sociale) e poi nel corrompersi dispotico di questa, trovanti un nuovo interno equilibrio nella forma democratica, che corrisponde allo stato di civiltà non ancora corrotta (civiltà media), in cui, come vedremo, natura e ragione partecipano proporzionalmente, e che esprime l'ideale leopardian. Ma la società democratica si corrompe attraverso il sorgere degli egoismi individuali e quindi dell'anarchia, prima fase della barbarie, che è il frutto, quasi sempre, della "civiltà eccessiva", e che partorisce il dispotismo, il quale rappresenta la pienezza della barbarie (13) >>. Seguendo lo schema essenziale del ragionamento leopardiano non è difficile tracciare le linee di quella che per il compilatore di tali pagine doveva essere una società ottimale: uno stato in grado di conciliare le necessità del singolo con quelle dell'intero gruppo sociale, quella forma che, come egli sostiene, << giovando agli interessi di ciascun individuo in quello che hanno tutti di comune, non pregiudichi agli interessi o inclinazioni particolari in quello che si oppongono ai generali (14) >>. Questo modello di società sembrerebbe incarnarsi secondo Leopardi nello stato democratico, il solo capace di conseguire << una certa felicità e perfezione di governo. Uno stato favorevolissimo alle illusioni, all'entusiasmo ec. uno stato che esige grand'azione e movimento : uno stato dove ogni azione pubblica degl'individui è sottoposta al giudizio, e fatta sotto gli occhi della moltitudine, giudice, come ho detto altrove , per lo più necessariamente giusto , uno stato dove per conseguenza la virtù e il merito non poteva mancare di premio; uno stato dove anzi era d'interesse del popolo il premiare i meritevoli, giacché questi non erano altro che servitori suoi, ed i meriti loro , non altro che benefizi fatti al popolo (…); uno stato del quale ciascuno sente di far parte, e al quale però ciascuno è affezionato, e interessato dal proprio egoismo , e come a se stesso; uno stato dove non c'è molto da invidiare perché tutti sono appresso a poco uguali (15) >>. Il fatto è che, anche Leopardi ne era convinto, tale stato ottimale difficilmente si costituisce e, quand'anche esso si realizzi non è destinato a durare. Il problema della difficile se non impossibile conservazione del governo popolare induceva Leopardi ad effettuare un confronto analogico, a dire il vero un po' forzato, fra il regime democratico moderno, lo stato primitivo e quello delle repubbliche antiche che rivela la natura più ideale che reale della miglior forma di governo secondo Leopardi << … in somma uno stato che sebbene non è il primitivo della società, è però il primitivo dell'uomo , naturalmente libero e, padrone di se stesso e uguale agli altri (come ogni altro animale), e quindi moltissimo della natura sola sorgente di perfezione e felicità: un simile stato finché restava tanta natura da sostenerlo, e quanto bastava perch'egli fosse ancora compatibile colla società era certamente dopo la monarchia primitiva, il più con veniente all'uomo il più fruttuoso alla vita il più felice. Tale fu appresso a poco lo stato delle repubbliche greche fino alle guerre persiane, della romana fino alle puniche (16) >>. Quest'ultima affermazione serve a sottolineare, secondo noi, che l'autore dei Canti, più che pensare con positività alla forme repubblicane che si andavano progettando proprio in quel tempo in Italia - alcune, come quella di Mazzini, ben strutturate ideologicamente e sostenute da una concreta base programmatica - tenendosi a distanza dalle ideologie liberali prodotte e pensate dagli intellettuali borghesi del suo tempo, sia per la sua origine aristocratica sia per la profonda influenza esercitata su di lui dall'Alfieri, più che fautore del regime democratico può ritenersi un " libertario". Ma, in ogni caso, passando dai tempi antichi ai moderni, egli era convinto che le cose si erano profondamente modificate in quanto le primitive società , libere e aperte , si erano contratte fino al punto di soffocare con la libertà politica del soggetto la sua stessa vita << Da che il genere umano ha passato i termini di quella scarsissima e larghissima società che la natura gli aveva destinata, più scarsa ancora e più larga che non è (…); filosofi, politici, e cento generi di persone si sono continuamente occupati a trovare una forma di società perfett . D'allora in poi, dopo tante ricerche, dopo tante esperienze, il problema rimane ancora nello stato medesimo. Infinite forme di società hanno avuto luogo tra gli uomini per infinite cagioni , con infinite diversità di circostanze. Tutte sono state cattive; e tutte quelle che oggi hanno luogo lo sono altresì. I filosofi lo confermano (…) non hanno mai potuto , così mai non potranno trovare una forma di società, non che perfetta, ma passabile in se stessa (17) >>. Giunto a questo punto, nulla lo trattiene dal criticare, anzi dal respingere senza distinzione le fondamentali istituzioni governative del suo tempo, forme degeneri e inadatte al bene e alla felicità dei singoli e dei popoli, sia che si parlasse della monarchia assoluta o di quella costituzionale: la prima in quanto degenerazione dispotica dell'ottima organizzazione sociale della primitiva monarchia degli antichissimi tempi, la seconda ritenuta << un'istituzione arbitraria, ascitizia, derivante dagli uomini e non dalle cose: e quindi necessariamente (…) instabile, mutabile incerta e nella sua forma, e nella durata e negli effetti (18) >>. Le conclusioni si trovano precedentemente enunciate nello stesso pensiero, che non tanto deve ritenersi in assoluto una critica ai maggiori artefici del pensiero politico del ' 700, quali Grozio, Lock, Montesquieu,Voltaire etc., quanto piuttosto una recusatio di tutti gli "arzigogoli politici" della sua età irretita dai filosofi << Che saprà fare questa ragione umana venuta finalmente tutta intiera al paragone della natura , intorno al punto principale della società? Lascio gli esperimenti fatti in Francia negli ultimi del passato e nei primi anni di questo secolo. Riconosciuta per indispensabile la monarchia, e d'altronde la monarchia assoluta per tutt'uno colla tirannide, la filosofia moderna s'è appigliata (e che altro poteva?) al partito di puntellare. Non idee di perfetto governo , non ritrovati, scoperte, forme di essenziale e necessaria perfezione. Modificazioni, aggiunte , distinzioni, accrescere da una parte, scemare dall'altra, dividere, e poi lambiccarsi il cervello per equilibrare le parti di questa divisione, togliere di qua, aggiungere di là: insomma miserabili risarcimenti (19) >>.
Quali le cause di una considerazione così negativa della politica e di ogni ideologia che si proponesse di ordinare secondo un disegno la vita comune degli uomini? La storia del suo tempo, la natura della società nella quale egli si trovava a vivere, la personale situazione del recanatese concorsero a fornirgli una visione negativa del vivere comune fino al punto di indurlo a non credere in alcuna possibilità di esistenza associata; convinto com'era che l'uomo fosse per sua natura egoista e proprio per questo non disposto a costruire un'esistenza per il bene degli altri << L'egoismo è inseparabile dall'uomo, cioè l'amor proprio; ma per egoismo s'intende propriamente un amor proprio mal diretto, mal impiegato, rivolto ai propri vantaggi reali (…). Quando dunque questo egoismo è giunto al colmo, per intensità; e quando a motivo dell'intensità, e massime dell'universalità si è levata la maschera (…) ciascuno pensando per se (tanto per sua inclinazione, quanto perché nessun altro vi pensa più e perché il bene di ciascheduno è confidato a lui solo), si superano tutti i riguardi, l'uno toglie la preda dalla bocca e dalle unghie dell'altro; gl'individui di quella che si chiama società sono ciascuno in guerra più o meno aperta, con ciascun altro, e con tutti insieme, il più forte sotto qualunque riguardo la vince (20) >>.
L'amor proprio, definito da Leopardi << l'unico motore delle azioni umane >>, dal quale << derivano tutte le virtù non meno che tutti vizi (21) >> oltre che mal diretto e fonte dell'egoismo proprio dei regni dispotici ed assoluti, potrebbe assumere forma positiva solo ove si trasformasse nell' "amor patrio", che è indispensabile al formarsi delle nazioni. Ma questa non era certamente la sorte dell'Italia del suo tempo, priva com'era di un'autentica società, di spirito pubblico, di unanime opinione e di senso dell'onore: come si legge nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani (1824), ove Leopardi, tracciando un quadro storicamente deformato della realtà italiana dell''800, sottolineava la decadenza di una nazione che non era nazione , in quanto, oltre ad essere senza capitale e cultura, mancava di quel sentimento di unita che la distingueva dalle più moderne strutture statuali << L'Italia è, in ordine alla morale, più sprovveduta di fondamenti che forse alcun' altra nazione europea e civile, perocché manca di quelli che ha fatti nascere ed ora conferma ogni dì più co' suoi progressi la civiltà medesima, ed ha perduti quelli che il progresso della civiltà e dei lumi ha distrutti. Sì per l'una parte è inferiore alle nazioni più colte o certo più istruite, più sociali, più attive e più vive di lei, per l'altra alle meno colte e istruite e men sociali di lei, come dire alla Russia, alla Polonia, al Portogallo , alla Spagna, le quali conservano ancora una grande parte de' pregiudizi de' passati secoli, e dalla ignoranza hanno ancor qualche garanzia della morale (22) >> .
L'autore del Discorso era convinto che la nostra società dell'Ottocento, priva dei fondamenti etici delle altre nazioni, aveva sostituito ai più profondi e autentici valori l'ipocrisia e la pratica esteriore dei riti religiosi , l'abitudine della simulazione e dissimulazione, i vizi di una civiltà che un tempo era stata grande ma che allora sovrapponeva sul volto degli italiani la finzione delle maschere. È anche questo il senso delle parole di Eleandro nel Dialogo di Timandro, dove l'autore dei Canti, precorrendo Pirandello (23), disegnava un profilo veramente desolante della società già massificata del suo tempo << Che si usino maschere e travestimenti per ingannare gli altri, o per non essere conosciuti ,non mi pare strano: ma che tutti vadano mascherati con una stessa forma di maschere, e travestiti a uno stesso modo, senza ingannare l'un l'altro, e conoscendosi ottimamente tra loro; mi riesce una fanciullaggine. Cavinsi le maschere, si rimangano coi loro vestiti; non faranno minori effetti di prima, e staranno più a loro agio. Perché pur finalmente, questo finger sempre, ancorché inutile, e questo sempre rappresentare una persona diversissima della propria non si può fare senza impacci e fastidio grande (24) >>. La mancanza di sincerità, la finzione, l'ipocrisia, divenute parte integrante del carattere degli italiani erano di abitudine i segni più evidenti e più gravi di un inesorabile decadimento dei costumi per cui la loro vita, senza occupazione e destituita di ogni altro nobile fine, appariva ristretta solo al presente e senza la prospettiva di un futuro migliore << Lascio la totale mancanza d'industria, d'ogni sorta di attività, e quella di carriere politiche e militari, quella d'ogni altro istituto di vita e di professione per cui l'uomo miri a uno scopo, e coll'aspettativa, coi disegni, colle speranze dell'avvenire ,rilevi il p regio dell'esistenza, la quale sempre che manca di prospettiva d'un futuro migliore, sempre ch'è ristretta al solo presente, non può non parere cosa vilissima e di niun momento, perché nel presente, cioè in quello che è sottoposto agli occhi, non hanno luogo le illusioni, fuor delle quali non esiste l'importanza della vita (25) >>.
Forse anche a causa di una tale delusione storica , politica e morale , nell'abbozzo dell'Inno ai Patriarchi, Leopardi giungeva a sostenere che la società era figlia del peccato, giacché sarebbe nata allorché Caino vagando per il rimorso e portando con sé la maledizione di Dio, fu il primo a fondare la città. Giunto a tali conclusioni, il recanatese si convinceva definitivamente della caduta di un'altra delle sue fondamentali illusioni: la società, senza fare distinzioni fra quella storica delle origini e quella contemporanea che a questo punto diventavano, l'una e l'altra, fonte di dolore e limitazione dei piaceri del singolo. Nella fase storica egli aveva fondamentalmente congetturato due società: quella moderna prodotta dalla ragione, pertanto negativa, contrapposta a quella delle origini, generata dalla natura e foriera di felicità, illusioni e gioia; ma , pervenuto a queste ulteriori convinzioni, il poeta venne rigettato in un individualismo esasperato e doloroso, quasi ai limiti di un totale anarchismo. A questo punto egli non era disposto neppure a salvare la vita dei primitivi. Infatti nello stesso Inno, parlando dei selvaggi della California in senso tacitiano, concludeva che essi non avrebbero potuto più vivere una volta che la loro pace era stata attaccata dai missionari, avamposto della nostra corruttibile civiltà << Che gran bene, che gran felicità, che grandi virtù partorisce questa civiltà della quale vogliamo farli partecipi , della quale ci doliamo che non siamo a parte? Siamo noi sì felici che dobbiamo compatire allo stato loro, se è diverso dal nostro? o perché abbiamo perduto per nostra colpa la felicità destinata a noi né più né meno dalla natura, saremo noi così barbari che la vorremo torre a quelli che la conservano, e farli partecipi delle nostre conosciute e troppe sperimentate miserie? (26) >>
Giunti a questo limite, prima di arrivare alle conclusioni del discorso , sembra giusto chiedersi se sia possibile fissare in modo definitivo l'ideologia politica di Leopardi. È necessario premettere innanzitutto, recuperando anche ciò che abbiamo sostenuto precedentemente, che, trovandoci di fronte ad un sistema di pensiero quale è quello del recanatese, non è il caso di pensare anche in senso politico a concezioni definitive ; in primo luogo perché le considerazioni politiche di Leopardi furono soggette all'evoluzione storica della sua concezione generale, che, come si è detto, fu caratterizzata, se non proprio da contraddizioni, da non poche oscillazioni. In secondo luogo è da sottolineare la circostanza che, per quanto la politica e la storia avessero nello Zibaldone uno spazio di rilievo accanto alla riflessione più strettamente filosofica ed estetica, tuttavia non può dirsi in assoluto che l' autore dei Canti fosse uno specifico pensatore politico. Anzi, dovendo stabilire in quale relazione stessero nella considerazione del recanatese queste due attività dello spirito umano, è certo che la politica, sia teorica che agita, non fosse da anteporre all'indagine più strettamente storica, come testimonia il noto giudizio annotato nel LI dei Pensieri sul Guicciardini << il solo storico - a detta di Leopardi - tra i moderni, che abbia conosciuto molto degli uomini, e filosofato circa gli avvenimenti attenendosi alla cognizione della natura umana, e non piuttosto a una certa scienza politica, separata dalla scienza dell'uomo , e per di più chimerica (27) >>.
Per quanto la politica non ricevesse molta considerazione da parte di Leopardi (<< …non mi entra nel cervello che la sommità del sapere umano sia nel sapere la politica e la statistica. Anzi …. >> dice nella già ricordata lettera al Giordani) che anzi venisse condannata insieme alla sociologia e alle altre scienze attuali (come testimonia il grido sarcastico di Tristano << Ma viva la statistica! vivano le scienze economiche , morali, politiche, le enciclopedie portatili, i manuali, e le tante belle creazioni del nostro secolo! (28) >> ) e facesse parte di un più generale e complesso sistema di pensiero , non è detto che non se ne possa fare separata considerazione seguendo particolarmente le tappe dell'evoluzione storica dell'ideologia del recanatese.
Cesare Luporini, che fra i primi ha avuto la felice intuizione di riconoscere diversi momenti nella politicizzazione del Leopardi, ha tuttavia trascurato quasi completamente l' orientamento inizialmente reazionario dell'autore dei Canti, forse per collocare definitivamente nell'ombra l'accusa del Croce che nelle Operette Morali aveva riconosciuto << lo spirito angusto, retrivo, e reazionario (29) >> dei Dialoghetti vergati dalla penna di Monaldo. Per quanto Leopardi stesso abbia successivamente smentito la paternità di quel << libro scellerato >>, e si sia scagliato in una lettera del '36 indirizzata al padre contro i legittimisti del tempo che dimostravano di preferire << alle ragioni, a cui bene o male, si può sempre replicare, gli argomenti del cannone e del carcere duro >>, non si può escludere del tutto che nella prima fase della sua vita il giovane, subendo particolarmente l' influenza culturale del padre, non ne subisse, condividendole, anche le idee politiche. È a tutti noto che la prima educazione leopardiana si svolse nell'ambiente di Recanati sotto la guida di precettori e maestri gesuiti, come quel padre Torres che avviandolo alla ricerca dell'unica verità, quella ontologica e teologica, sembra che si proponesse di fare del giovane Leopardi prima di tutto << un perfetto letterato cristiano >>. Giustamente è stato anche indicato il ruolo non secondario che nella prima formazione del recanatese ebbe il padre Monaldo , per quanto << con il suo incontro di caparbietà nobiliare -reazionaria e fondo di " buonsensaio" e di "testa quadra", con una buona dose di prudenza, di ipocrisia, di slealtà >>, fosse come sostiene Binni (30), << una personalità grossolana e piuttosto ottusa. >> Del resto questo era il cibo che passava il convento di casa Recanati , paese della Marca Anconetana situato nella provincia della provincia d'Italia: il nutrimento dei santi dogmi della religione cattolica e la retta filosofia, alla quale si preoccupava di educarlo anche il conte Carlo Antici, fratello della madre ed aggiunta guida morale e spirituale del fanciullo. Pertanto non c'è da meravigliarsi se, a parte l'educazione di un robusto metodo orientato verso la serietà intellettuale, cosa che il giovane ebbe modo di mettere a frutto con acribia negli studi filologici, egli dovette al padre l'iniziale impostazione politica piuttosto dogmatica e conservatrice, in una parola reazionaria. Né poteva essere diversamente in quanto Monaldo << era un aristocratico attaccato ai valori dell'ancien règime, convinto dell'esistenza di una diseguaglianza naturale tra gli uomini e di conseguenza sociale, al punto da pensare che le classi non si differenziano che per i loro abiti, persuaso che ogni progresso politico o sociale non fosse che un'illusione, giacché niente avrebbe potuto cambiare la natura umana >>. (31).


parte seconda

NOTE

1) G.LEOPARDI, Lettere, in Tutte le Opere di G. L, p. 996
2) G. L. cit . p. 862
3) C.LUPORINI, in Leopardi progressivo , pp. 64-65.
4) G. LEOPARDI, Zibaldone, in Tutte le opere di